In questa breve intervista del giugno 2001 all’allora vescovo di Khartoum, ripercorriamo la tragedia delle popolazioni africane schiavizzate dagli arabi e dai musulmani. Gli stessi che si stracciano le vesti – Erdogan in testa – contro il colonialismo e il razzismo europeo.
Esiste un’Africa dove in genere non arrivano né turisti né giornalisti. L’Africa delle guerre e delle razzie di schiavi. In particolare nel Sudan meridionale, dove l’esercito governativo, ufficialmente impegnato contro la guerriglia indipendentista, in realtà è lo strumento delle crescenti violenze e dei soprusi dei musulmani del nord ai danni delle popolazioni nere, cristiane e animiste del sud. Ne abbiamo parlato con un testimone di prima linea: il vescovo ausiliare di Khartoum, che lotta tra mille difficoltà per la liberazione dei nuovi schiavi africani.
Con il titolo “Liberi tutti” (che, magari inavvertitamente, riesuma un vecchio slogan di Lotta Continua del tempo che fu, prima degli “specialismi” di “liberi, liberi”) il Comitato Bakhita di Schio (Vicenza) ha organizzato un interessante e appassionato Meeting Internazionale sulle nuove schiavitù. Il convegno si è occupato soprattutto della grave situazione del Sudan dove la stessa Bakhita, recentemente canonizzata, aveva conosciuto a lungo la schiavitù prima di essere liberata.
Gli interventi dei vari relatori hanno evidenziato il ruolo negativo dell’islam che talvolta ha fornito e fornisce alibi giuridici alla pratica della schiavitù.
Naturalmente senza con questo voler occultare che anche in nome del cristianesimo, talvolta, si sono compiute violazioni dei diritti umani. Pensando, per esempio e in analogia con la schiavitù, alle giustificazioni dell’apartheid in Sudafrica basate su citazioni bibliche. O magari ai bambini “abo” australiani sequestrati e allontanati definitivamente dalla famiglia per essere “allevati cristianamente”. Qualcosa del genere avvenne anche in Canada ai danni degli inuit.
Quindi nessuno scagli la prima pietra. Ma è comunque doveroso sottolineare come una vera e propria tratta degli schiavi permane e si alimenta con inquietante frequenza, quasi una costante a livello di rapporti sociali, in alcuni Paesi africani come la Mauritania e il Sudan.
Monsignor Daniel Marko Kur Adwok, vescovo ausiliare di Khartoum, ci parla in particolare della schiavitù tradizionalmente subita dalle popolazioni nere, cristiane e animiste, del Sud Sudan. Una situazione che permane anche ai nostri giorni.
Nel Sudan gli schiavi vengono utilizzati per il lavoro dei campi e per l’allevamento del bestiame, le donne schiave nel lavoro domestico. Prima dell’indipendenza [dal Regno Unito nel gennaio 1956] gli schiavisti andavano letteralmente a caccia di schiavi nel sud; ora questa pratica viene mascherata dai conflitti tribali tra le popolazioni arabe musulmane (come i Resegat) che si dedicano prevalentemente alla pastorizia nomade e quelle di pelle scura (Dinka, Nuer…) che si dedicano all’agricoltura. Con il tacito assenso del governo le tribù arabe portano nel sud il loro bestiame per sfruttare i pascoli e quando i Dinka, armati quasi soltanto di lance, cercano di impedirglielo si scatena la caccia ai Dinka. La pratica di lasciar infiltrare nel sud gruppi di pastori arabi per compiere razzie (di bestiame, di donne, di bambini…) serve al governo per indebolire l’SPLA [l’esercito di liberazione del Sudan] che combatte per l’autodeterminazione dei neri del Sud Sudan.
Monsignor Daniel Adwok, cosa si potrebbe fare per porre fine a tale piaga?
Nelle zone in cui è presente l’SPLA, a volte è possibile riscattare direttamente gli schiavi grazie all’aiuto finanziario di alcune ONG. Nel resto del paese le Chiese cattoliche usano un altro sistema; cercano nelle abitazioni degli arabi persone ridotte in schiavitù che possano venir identificate da qualche parente e poi vanno dal padrone per chiedergli di liberarle. Se il proprietario si rifiuta ricorrono ai tribunali e si apre il caso.
La Chiesa paga per gli avvocati e per i documenti necessari… Ma di questo tipo di lotta l’opinione pubblica internazionale non viene informata perché il governo non riconosce la presenza degli schiavi.
Ufficialmente nei processi si parla di rapimenti, non di schiavitù, ma la sostanza rimane la stessa.
I “rapiti” vengono costretti in condizioni indegne della dignità umana, lavorano duramente e non vengono mai pagati.
Da un altro dei partecipanti al Convegno di Schio, il laico Joe Buttigieg – da anni attivo nella liberazione degli schiavi sudanesi – ho appreso un fatto per certi aspetti paradossale, oltre che inquietante e significativo: “Un generale dell’esercito sudanese è rientrato dalle operazioni militari contro l’SPLA portandosi appresso alcuni giovani fatti prigionieri da utilizzare nelle sue fattorie per il lavoro dei campi. Il padre di due ragazzi ha indagato a lungo e – quando li ha trovati – ci ha chiesto aiuto.
Il processo era appena iniziato e sembrava svolgersi in maniera favorevole per i due prigionieri, quando il generale si è rivolto alla Corte islamica. Di fronte a questo tribunale ha sostenuto che era suo diritto prendere schiavi come bottino perché questo è consentito dal Corano in caso di jhiad (guerra santa).
Il tribunale islamico non gli ha dato torto, ma poi – temendo di suscitare altre proteste a livello internazionale – li ha fatti liberare. Al generale è stato detto testualmente che era meglio non provocare rimostranze e che poteva sempre tornare nel sud a prenderne altri”.
In che modo il problema della schiavitù si collega alla guerra che si svolge nel sud Sudan tra le truppe governative la guerriglia dell’SPLA?
Le due cose sono inscindibili. Se la guerra terminasse si potrebbe finalmente discutere di questo problema; forse anche gli attuali schiavisti comprenderebbero che quello che fanno è ingiusto. Ricordo che la nostra attività per la liberazione degli schiavi non dipende da studi accademici o da ricerche sociologiche, ma dalle testimonianze dirette che ci permettono di intervenire. Naturalmente avremmo bisogno di aiuto da parte dell’opinione pubblica.
In genere le zone in cui operano gli schiavisti restano interdette ai giornalisti e agli osservatori internazionali. Le notizie sono per lo più di fonte governativa e difficilmente verificabili.
Forse una costante pressione internazionale potrebbe costringere il governo sudanese a riaprire queste aree. Da parte nostra chiediamo che un sempre maggior numero di persone venga a verificare direttamente quello che avviene nel Sudan. Darebbe forza alle nostre iniziative in difesa della dignità umani.