Non si può certo affermare che quanto avviene in India ai danni delle popolazioni tribali sia sotto la lente e l’interesse dei media internazionali. Per cui difficilmente si viene adeguatamente informati su massacri, le deportazioni (che consentono alle multinazionali, in particolare quelle dedite all’estrazione mineraria, di appropriarsi dei territori ancestrali delle popolazioni indigene), le esecuzioni extragiudiziali, gli stupri di donne tribali e gli arresti arbitrari operati dal regime di Narendra Modi.
Si è parlato invece dell’elezione a presidente dell’India (carica più che altro formale, cerimoniale) di Droupadi Murmu, una donna di origine tribale (etnia santhal), in precedenza governatrice del Jharkhand. Originaria dell’Odisha, milita da anni nel Bharatiya Janata Party, il partito dei fondamentalisti indù.
Per carità. Tutto può essere utile, e se questo evento dovesse portare qualche beneficio alle popolazioni tribali (gli adivasi) e alle caste diseredate (i dalit) ben venga. Anche se, ci si augura, non nella logica sviluppista e di devastazione umana e ambientale auspicata da Modi.
È lecito infatti avere qualche riserva su questo coinvolgimento – più che altro spettacolare ed elettoralistico – dei tribali nel progetto del BJP. Allargare la propria base elettorale farà sicuramente gli interessi del partito, ma è lecito chiedersi quali vantaggi porterà alla conservazione delle lingue e della cultura tradizionale (oltre che alla loro sopravvivenza fisica) degli adivasi. Più che di “inclusività” si dovrebbe forse parlare di assimilazione.
Nel frattempo – ovvio – si mantiene la stretta repressiva, l’addomesticamento forzato delle popolazioni indocili e refrattarie al “progresso” neoliberista.
È di questi giorni la notizia (ignorata dai media internazionali in quanto scoperchiava le passate malefatte governative) dell’avvenuta liberazione, il 15 luglio nel Chhattisgarh, di 121 tribali, tra cui alcuni minorenni, arrestati nel 2017 con una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona. Nel frattempo uno degli arrestati era deceduto dietro le sbarre.
Tutte queste persone, come del resto era evidente fin dall’inizio, sono risultate totalmente estranee all’imboscata (Sukma, Burkapal, 24 aprile 2017), opera di almeno trecento guerriglieri naxaliti (i maoisti del People’s Liberation Guerrilla Army), in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della CRPF.
Sono completamente cadute sia le accuse di possesso di armi, sia di appartenenza al PCI maoista.
Per cui la loro lunga, ingiusta detenzione acquista il senso di una rappresaglia a scopo “educativo”.
A Sukma militari e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che doveva attraversare i territori tribali per conto di un gruppo industriale. L’attacco era stato rivendicato dal DKSZC (Dand Karanya Special Zone Committee) del PCI maoista. Nel comunicato si sottolineava come l’attacco fosse una risposta di autodifesa non solo nei confronti delle politiche antipopolari del governo, ma soprattutto per le “atrocità sessuali commesse dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali”. Ossia gli innumerevoli stupri opera soprattutto dalle milizie paramilitari filogovernative. In sostanza “per la dignità e il rispetto delle donne tribali”.
Nel comunicato inoltre si smentiva decisamente – come poi è stato riconosciuto anche dal ministero dell’Interno – che sui corpi dei soldati uccisi si fosse infierito con mutilazioni e castrazioni. “Noi”, aveva dichiarato Vikalp, portavoce della guerriglie, “non manchiamo di rispetto ai corpi dei soldati uccisi. Sono i media borghesi che diffondono tali false notizie e invece spesso sono i militari che operano brutali trattamenti sui corpi dei guerriglieri maoisti”.
Così come, aveva continuato, “vengono riprese e diffuse nei social immagini riprovevoli delle guerrigliere uccise”. (Per inciso, una pratica abituale anche da parte dei soldati turchi nei confronti delle combattenti curde.) “I soldati non sono nostri nemici. Tantomeno nemici di classe. Tuttavia si pongono al servizio dell’apparato antipopolare e dello sfruttamento operato dal governo. Rivolgiamo a loro un appello affinché cessino di combattere schierati al fianco dei politici sfruttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù, eccetera, che sono per loro stessa natura nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne.
Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare”.
Le lotte proseguono
Tornando ai nostri giorni, va ricordato che il 17 luglio 2022 nel sud dell’India si sono verificati duri scontri tra giovani e polizia, con decine di feriti, dopo il suicidio di una studentessa. I manifestanti erano penetrati nel campus (distretto di Kallakurichi nello Stato di Tamil Nadu) incendiando veicoli della polizia e bus scolastici.
La ragazza, prima di togliersi la vita, aveva scritto una lettera in cui denunciava alcuni insegnanti per averla sottoposta a sistematici maltrattamenti (aveva usato il termine “torture”). La stessa cosa sarebbe era toccata ad altre studentesse.
Invece all’inizio del mese, il 3 luglio, le proteste con scontri, numerosi feriti e una dozzina di arresti erano scoppiate a Nepali Nagar, quando una quindicina di bulldozer erano arrivati per distruggere un centinaio di abitazioni costruite su terreni pubblici e definite “abusive” dalle autorità locali (nonostante da anni fossero stati realizzati gli allacciamenti e venissero raccolte le tasse municipali).