In alternativa ai cosiddetti sport di massa, migliaia di persone praticano discipline agonistiche snobbate dalle istituzioni e dai mass-media. Sono giochi etnici, o semplicemente legati al costume popolare, estranei al consumismo e all’isterismo degli stadi. In questo primo servizio sull’argomento, ritroviamo la vecchia “lippa”, e scopriamo che in Val d’Aosta…
Vi sono in Italia (ma potremmo dire nella nostra società occidentale, che va sempre più appiattendosi sul modello nordamericano), ancora e malgrado tutto, alcuni sport che potremmo definire “sommersi” per una duplice serie di motivi. Innanzitutto perché emarginati, nel senso che raramente riescono a emergere, neppure sulla stampa e nei servizi radiotelevisivi specializzati e, quando appaiono (specie nei secondi), sono mostrati come curiosità un po’ buffe, quasi da compatire, praticati chissà poi perché da alcuni tipi un po’ arretrati e strambi. Ma anche sommersi nel vero senso del termine dagli sport di grido, alla moda, “di massa”, quelli che interessano giri d’affari di miliardi e sponsorizzazioni vistosamente palesi, ma anche ambiguamente occulte (tanto che, ogni tanto, scoppia qualche bubbone): gli sport “minori” si trovano così a combattere un’impari lotta per la loro sopravvivenza dovendo competere con i (pre)potenti per reclutare i giovani, per gli spazi aperti (campi da gioco) e quelli chiusi (palestre e scuole).
Per comprendere le radici di tali tradizioni è necessario soffermarsi sul substrato rituale, ossia sulla trasformazione nel tempo del rito in gioco per adulti e successivamente (spesso) in passatempo infantile. Dagli aspetti drammatici che alcuni giochi della prima fanciullezza (balli in tondo, cantilene e cioè canzoncine reiterative) hanno infatti assunto, si può risalire a primitive pratiche periodiche di propiziazione del bene durante le feste di Capodanno quando, per ottenere la fertilità della terra e assicurare la fortuna del nuovo anno, si provvede durante la festa stessa del Carnevale, e nelle feste di ciclo stagionale come il Calendimaggio, con riti imperniati sulle nozze di una o più coppie di giovani, o sulla lotta fra due contendenti o due gruppi con relativa vittoria. Il re e la regina che si ritrovano in queste cantilene sono il ricordo del valore originario dei protagonisti del Calendimaggio, simboli del potere fecondativo, divenuti poi personaggi drammatici (e anche maschere di Carnevale); le abituali strofette di commento, non spentesi nel tempo, influenzarono anche feste da ballo nell’ultimo medioevo con danze figurate che finirono anch’esse nei giochi fanciulleschi. Danze-gioco del gruppo “L’ambasciatore” (“L’è l’ambassador, la tam tirom tirom lera, eccetera, cosa vorì mai voi? Vogliam la bella Gina. E cosa ne farete? Mi veuj fela maridà, eccetera”); “Oh che bel castello!” (“Mè castel l’è bel, lantantirolena rolà, ël mè l’è ancor pi bel. Noi lo guasteroma – noi lo difenderoma – noi lo pieroma – noi lo guarneroma – noi lo bruseroma – noi lo stisseroma, eccetera”); “Madama Dorè” (“Oh quante belle figlie, madama Dorè…”), che sarebbe poi madama do Rè, cioè: signora del re (di maggio); “Madama polareula” (“Quanti polli hai nel pollaio, eccetera”), riproducono per lo più dal vivo una richiesta nuziale (inserita anche, come detto, nel Calendimaggio) secondo l’uso celtico che in Bretagna durò sin quasi ai nostri giorni, centrata sulla figura del messaggero d’amore, cioè “l’ambasciatore”, il cui nome di marosarrus è nel Liber consuetudinum mediolanensis e negli antichi Statuti matrimoniali in corrispondenza del padano marossé. Anche in Emilia, e cioè in una regione di discendenza celtica, non poteva mancare il gioco dell’ambasciatore che ricorda i paraninfi pubblici (1) e quello del “Castello” che ci riporta la sopravvivenza dell’uso in cui lo sposo finge di rapire la sposa contesa dai parenti (in piemontese: “Noi iv la daroma / s’i voi i dèj la dota / noi la voròma pi dà – e noi la robiroma”: noi ve la daremo, se voi ci date la dote, noi non ve la vogliamo dare, e noi ve la ruberemo) con il duplice significato di una richiesta nuziale per acquisto o per ratto. “Al mio castello” arieggia senza dubbio l’antico tradizionale ratto della sposa e le parole del ritornello (tollerino tollerò) ribadiscono l’antichità del gioco infantile (tòllere, in latino togliere) che rappresenta quindi remotissimi riti nuziali: lo sposo offriva doni per ottenere la ragazza: talora, non potendola avere, la rapiva.
La cultura posteriore conservò come ratto simulato ciò che era ratto vero; (2) analogamente giochi infantili nordici rispecchiano il primitivo commercio coniugale da tribù a tribù o da villaggio a villaggio. La trasformazione di questi riti, e dell’espressione di individualità e amore, di comunità, di “solarità” propria delle danze circolari, è appunto rappresentata dal loro passaggio nei giochi per adulti (si pensi ai mogliazzi centro-meridionali, nei quali durante i lavori della mietitura, sin quasi ai nostri giorni, era vitale un gioco per adulti che è la vera e propria rappresentazione del rito nello sposalizio, adottato dai bambini quando fanno all’Ambasciatore) per arrivare poi all’ultimo scalino della degradazione, ossia a gioco per i bimbi più piccini.
Tutto ciò è avvenuto anche per gli sport: da riti, a gare per adulti e infine a giochi fanciulleschi per poi estinguersi. Molti di questi sport si praticavano (e alcuni si praticano tuttora) sempre nello stesso punto, negli stessi giorni di primavera (Pasqua, lunedi di Pasqua, solstizio d’estate, e cioè San Giovanni), impegnando la gioventù più vigorosa, e trovano dunque la loro fonte nella religione naturale, nel rapporto che lega l’uomo alla terra affinché possa trarne, come l’albero, la linfa vitale che la terra-madre (la pacha-mama, nella visione cosmica degli Amerindi) offre a tutte le creature quando risorge a primavera. Gli stessi strumenti di questi sport — la mazza, la pertica, il fuso di legno, la pallina, la ruota — sono simboli di fecondità, di forza vitale che sprizza libera come il seme… Alcuni ebbero grande fortuna anche nei ceti privilegiati (pallacorda, giochi del pallone) o divennero “di massa” (pallone a bracciale), altri decaddero a giochi fanciulleschi o pastorali (lippa, pallamaglio, lancio del formaggio); altri, infine, ritornarono paludati da sport alla moda, praticati perloppiù dall’estremo opposto, e cioè dai ceti più altolocati e privilegiati (il golf, rimasto sulle Alpi gioco dei garzoni del pastore; il tennis, trasformazione della pallacorda, dello stesso pallone con bracciale e del tamburello), o nei paesi all’avanguardia della trasformazione consumistica (base-ball; in Piemonte “lippa all’olio”!).
Pallamaglio e lippa
L’esempio tipico dell’evoluzione “rito – gioco per adulti (sport) – gioco fanciullesco” è dato dai giochi con mazza e pallina di legno (o bastoncino affusolato). In questo settore possiamo distinguere tra giochi “a terra” e giochi “in aria”. I giochi “a terra” sono rappresentati dalla pallamaglio e dalle sue varianti, compreso il golf, gioco nazionale scozzese ma noto, benché per lo più con una dinamica diversa, anche sulle Alpi. Erano giochi tipicamente pastorali, praticati quando i mandriani mandavano gli armenti all’alpeggio e quindi si trovavano in molti.
Per la Valle d’Aosta il gioco è ricordato come caratteristico dagli abitanti di Antagnod e Lignod, dove era detto la caillà (3) I giocatori si disponevano in forma di triangolo; ognuno aveva un bastone che poggiava entro un piccolo buco scavato davanti alla sua posizione; un giocatore rimaneva fuori e con la propria mazza spingeva la pallina di legno (bocin) che gli altri giocatori cercavano di colpire mandandola lontano per far correre il giocatore che stava “sotto”, stando però attenti che un altro nel frattempo non venisse a occupare col bastone il proprio buco; chi infatti avesse trovato tutti i buchi occupati rimaneva fuori a rincorrere il bocin.
Del tutto analogo era il gioco della truie (la scrofa; chi resta “fuori” è detto le gardien de la truie) praticato nel Vallese e in altre regioni della Svizzera (4) e, secondo A. Van Gennep, anche in Bretagna e in Inghilterra, e cioè nell’area (ancora o già) celtica. In piemontese era detto il gioco della ghia (o gheda, o ghin-a o galateucc) dal nome della pallina; la mazza era la gandia e le buche le neuse. In Lombardia lo ritroviamo documentato nel Vogherese, dove è detto ra ghitòla (5) dal nome della mazza, mentre la pallina è la pòpula o popla; in Brianza, giugà a la naza o a la porcula, e in Valtellina era il gioco della ciòna (ciòna e pòrcula significano “scrofa”, proprio come la truie vallesana); in Val Camonica ho raccolto io stesso il ricordo del gioco del ghi (dal medesimo etimo sconosciuto della ghia piemontese) negli alpeggi del Mortirolo, alle pendici del monte Pagano, nei pressi della località Le Tambùsole, ossia le tane degli “uomini selvatici” (i pagà, da cui il toponimo del monte); si giocava ancora negli anni ’40. In Trentino troviamo il gioco in Val di Sole, dove era detto rùmega, e in Val di Bresio (una laterale della Val di Non), rùgima, rugjema, rùmegia, dal nome (in trentino, rùmech) della mazza di legno; precisa E. Quaresima nel suo Vocabolario anaunico e solandro (Venezia, 1964): “specie di pallamaglio o di hockey: un gioco da giovanotti, una volta molto coltivato e oggi caduto in disuso, sia perché i gusti sono cambiati, sia perché in seguito ai radicali miglioramenti agrari effettuati nelle nostre valli i prati che servivano per quel gioco non sono più accessibili”. Già, però si sono trovati i campi per gli sport consumistici…
A Tuenno il gioco aveva inizio con le parole “Rugima sflantùgima!”, gridate dal capo della squadra che dava il colpo d’inizio, alle quali l’avversario rispondeva: “Lassa che la vada!” In altri centri della Val di Non la mazza dall’estremità ricurva per il gioco era detta a Sfruz crozza, a Rumo porcjetara, a Smarano bufabarata o cluz (un termine dialettale tirolese; così possiamo dedurre che in Sudtirolo il gioco si chiamasse klotz); in Val di Sole ritroviamo il termine pòrcola, che dal Milanese al Veneto attraverso gli idiomi della Lombardia orientale significa bastone rudimentale tagliato dal bosco e anche, per traslato, “percossa”, “bussa”. Il gioco poteva avere molte varianti che tuttavia, sulle Alpi, sembra consistano tutte nel respingere e ricacciare nel campo avversario (oppure in determinate buche appositamente scavate) una pallina o un piccolo rocchio di legno di forte (di 4-5 cm di lunghezza). Scrive il Cherubini nel suo Vocabolario Milanese-Italiano (Milano, 1841): “Giugà a la naza (o alla pòrcola): specie di gioco che nella campagna milanese si fa come segue: uno dei giocatori tira una pallottola di legno in piana terra perché giunga a un dato punto dove stanno molti altri giocatori divisi in due partiti. Essi con certi bastoni, alquanto ricurvi in cima, danno alla pallottola con tutta forza de’ colpi, que’ d’un partito per allontanarla dalla meta, e que’ dell’altro per mandarvela; e così va in lungo il gioco sino a tanto che non si tocchi la meta o sinché infervorati i giocatori, in luogo di dare alla palla, dandosi delle mazzate sorde tra loro, non convertano lo spassatempo in guai. Corrisponde esattamente alla póma de’ Mantovani, ed anche ha parentela col giuoco toscano della pentolaccia, mutata la pentola in palla.”
Esisteva un altro modo molto meno movimentato e dinamico per giocare con mazza e pallina, ed era la pallamaglio classica, diffusa specialmente nei secoli XVI e XVII: la palla era giocata con una specie di maglio di legno e con una piccola sfera, pure di legno. Si poteva gareggiare a chi mandava più lontano la palla partendo da un determinato punto, ma entro uno spazio fissato; oppure a chi mandava la palla col minor numero di colpi attraverso un archetto o dentro una buca. Se ne ha traccia nei giochi popolari della Lombardia orientale (a Brescia si diceva proprio bala a mai) e nel Veneto (cfr. dizionario di G. Boerio, 1829: cazzòlo da zucòli era “quel piccolo cerchio di ferro attaccato ad un lungo manico di legno con cui si piglia la palla nel giuoco del maglio, detta pallamaglio”). Ma il gioco, praticato anche in Francia, sembra sia rimasto più a lungo nell’Italia centrale (in Toscana, appunto palla-maglio), meridionale e insulare: a Palermo era detto a bocci e ravogghia, a Catania a turcu, a Messina a paddi e paletti, eccetera. In tutti questi giochi si doveva far entrare e uscire da un cerchio di ferro che si fissa a terra la pallina di legno. (6) Anche questa seconda forma di pallamaglio classica è ormai estinta, dopo esser stata “degradata” a gioco fanciullesco; ma all’inizio del secolo era ancora praticata dagli adulti, ed era ancora ritenuta “giuoco ginnastico” o “sportivo” (7), detto del “trucco a terra” (per distinguerlo da quello “da tavolo”, che era in pratica il biliardo). Estintosi il gioco alpino (e milanese) costituito dai giocatori che devono cercare di spingere la palla in un’area difesa dagli avversari, è arrivato l’hockey che, derivato dal primitivo bandy scozzese (era come la pòrcola nostrana, e quindi aveva con lei comuni radici celtiche?), nella sua varietà su ghiaccio ha trovato maggior favore proprio sulle Alpi (ovviamente anche per la più facile reperibilità di superfici ghiacciate). La pallamaglio classica, o “trucco a terra”, è invece ricomparsa come cricket, croquet e golf (il cui nome viene dall’olandese Holf, bastone, come la rùmega dell’omonimo gioco trentino), tutti giochi pressoché esclusivi della “buona società”, peraltro piuttosto schizzinosa nei confronti dei gusti di vaccari e pecorai: quando, una trentina d’anni or sono, a Magnano (Biellese) iniziarono i lavori per il campo da golf “Le Betulle”, ricordo come una povera contadina molto anziana si stupisse nel vedere tanto interesse dell’élite industriale e così rilevanti esigenze e strutture (come la golf-house eccetera) per un povero gioco da pastorelli, da lei stessa praticato nella sua lontana infanzia! Non ci risulta che i due modi di giocare “a terra” si siano conservati, sia pure con particolari sviluppi, in sport tradizionali e popolari (poiché tali non si possono definire né l’hockey né tanto meno il golf e similari). Invece, una storia singolare ha avuto il gioco “in aria” noto come la lippa, praticato originariamente con due strumenti: la mazza e un legnetto lungo più o meno un palmo, affusolato alle due estremità.
Conosciuta in tutta Europa e variamente chiamata nelle lingue romanze d‘Italia (8),veniva giocata in modi differenti che potremmo sistemare in due grandi categorie, a seconda se la lippa è soltanto battuta, senza che vi siano avversari i quali cerchino di intercettarla o di acchiapparla, cosi che il gioco si risolve soltanto in una gara a chi riesce a mandare il legnetto colpito con la mazza più lontano (per lo più con la doppia battuta: da terra e poi al volo); oppure, se di fronte al battitore si schierano gli avversari che, proteggendosi e aiutandosi con mantelli, stracci o cappelli o anche con palette di legno, cercano di intercettare o prendere la lippa. Questo secondo modo di svolgere il gioco si suddivide a sua volta in altri due tipi, a seconda se l’avversario che è riuscito a fermare la lippa va a sostituire immediatamente il battitore, che interrompe così il suo tentativo di conquistare un certo numero di lunghezze; oppure, se vi è una seconda parte del gioco, quella del “servizio”, in cui l’avversario, dopo esser stato alla “presa”, deve cercare di lanciare a mano la lippa nella “casa”(cerchio di base della battuta) dove il battitore procurerà di ribattere la lippa al volo; se non vi riesce, egli è “cotto” o cioch (ubriaco) e sostituito; se vi riesce, si procede alla misurazione della distanza (dalla battuta a dove la lippa è finita) per l’assegnazione del punteggio (unità di misura è la mazza di battuta). Se si gioca a squadre, sia nel primo che nel secondo modo, la somma dei punteggi individuali dà il totale per ogni squadra. Tra battitore e avversario sono in genere previste forme di “dialogo”: innanzitutto l’avviso della battuta e la risposta di chi è alla ciapa o presa (ad esempio, il battitore dice: “Ciri?” e l’altro, se pronto, risponde: “Mèla!”), con magari qualche tentativo di confondere le idee storpiando la parola d’ordine per pretendere poi l’annullamento della battuta se sfavorevole; quindi il preavviso se il lancio sarà “alto senza malizia”, o “basso con malizia”. Nella seconda parte del gioco (quella del “servizio”, cioè del rilancio al battitore), il battitore può valutare se ribattere la lippa, oppure lasciarla andare perché finirebbe fuori dalla “casa”, ma deve dichiarare la sua intenzione; infine, al momento di misurare la distanza sino a dove la lippa è caduta, il punteggio può essere oggetto di scommessa tra le parti con relativa penalizzazione per chi, in caso di richiesta verifica, risulta aver “bluffato”.
Esiste poi un altro modo, ancora più complesso, ed è quello della “lippa con la corsa” (detta nel Monferrato lippa a l’euli, e nel Vogherese robamuget). Si gioca in non meno di sei-sette giocatori; di fronte a chi prende in consegna la lippa (sgarnuvla, in vogherese, per questo gioco) si pone un giocatore con la mazza (bacalò); gli altri, tra loro a debita distanza, si dispongono intorno, ad alcuni passi dai due che stanno nel mezzo; ciascuno prepara nel posto che occupa un discreto mucchietto di pietre (o di terra, nel Monferrato). Quello che tiene la sgarnuvla la lancia a colui che impugna il bacalò e che cerca di coglierla al volo, respingendola lontano; il lanciatore deve correre a raccoglierla, e gli altri si precipitano a rubare le pietre dal suo mucchio (donde il nome di “ruba mucchietto”): se fra i ladri vi è qualcuno in ritardo, quello che ha raccolto la lippa corre a metterla sul mucchietto del ritardatario e questi è allora obbligato a riportare le pietre al mucchietto da cui le ha tolte e ad andare “sotto”, cioè a lanciare la sgarnuvla a quello del bacalò (battitore). Invece delle pietre si può usare della terra ammucchiata a lato della buchetta (una per giocatore)(9) .
C’è infine un ulteriore modo di giocare alla lippa, riservato in genere ai bambini, ed è quello di rimandare la lippa da un settore all’altro del campo diviso in due, secondo il procedimento del tennis e dei giochi sferistici senza “cacce” (di cui diremo nel prossimo articolo). Il gioco della lippa si è quasi ovunque ridotto a gioco fanciullesco, per poi estinguersi negli anni tra le due guerre. Vi sono state tuttavia, anche recentemente, alcune iniziative di rilancio per gli adulti, impegnati in veri e propri tornei: nel 1982 se ne tenne uno a Vercelli, e alcuni anni prima a Sanremo si indisse addirittura il “I Campionato mondiale di lippa”; le due manifestazioni furono patrocinate dalle rispettive “famije” cittadine. Negli anni ’30 il Sig. P. Yon di Biella brevettò la lippa come “golf italiano”, il gioco era individuale e itinerante. Strettamente connessi con la lippa sono tre dei quattro sport etnici valdostani: il fiolet, la rebatta e lo tsan appaiono infatti come un’evoluzione del medesimo gioco primitivo, anche se la lippa “classica” era conosciuta pure in Valle d’Aosta, dove la praticavano i ragazzi sino a non molti anni or sono e dove, quindi, coesisteva con i predetti sport tradizionali più complessi che, invece, godono di straordinaria vitalità.
Gli sport valdostani
Due di essi, il fiolet e la rebatta, sono attinenti al modo più semplice di giocare alla lippa, poiché la gara consiste nel mandare il più lontano possibile il legnetto ovoidale (fiolet) o la pallina (rebatta), entrambi di legno e chiodati. Lo tsan è strutturalmente analogo invece alla lippa più complessa, quella che richiede le due fasi di gioco e cioè la battuta che, se “buona”, dà diritto a ricevere il lancio di “servizio” (seconda fase), per realizzare il punteggio sempre relativo alla distanza. Il quarto gioco, i palet, non ha alcun riferimento con la lippa, bensì con il lancio a mano di oggetti (un tempo pietre piatte, ora dischi di ferro) verso un bersaglio.
Dopo un periodo di stanca, conseguente all’ostracismo dei fascisti e al trauma della guerra, i giochi valdostani ripresero con straordinario vigore, contestualmente alla crescita della coscienza etnica. Fu un fenomeno squisitamente popolare, per nulla indotto. Anzi, gli appassionati del gioco, come Pierino Daudry, (10) denunciano il lungo disinteresse dell’amministrazione regionale, “in tutt’altre faccende affaccendata”. Ancora nell’anno 1973, infatti, gli sport popolari valdostani ricevevano il sussidio regionale sotto la denominazione di “attività sportiva straordinaria” e, annota Daudry, era un po’ strano essere considerati fuori dall’ordinario in casa propria! Nel 1974 nasce la Federaxon esport nohtra tera e finalmente, l’11 agosto 1981, il Consiglio regionale vota la legge n. 53 sulla “Disciplina e tutela dei giochi tradizionali valdostani”; quindi l’atteggiamento politico è molto migliorato. Permane tuttavia, gravissima, la questione dei campi da gioco. Daudry denuncia: “Abbiamo visto centinaia di milioni buttati per il bob; così abbiamo visto sorgere dovunque campi di calcio (sono una quarantina) anche in comuni che non hanno il numero di persone sufficiente per formare una squadra. È cosa ridicola, in una regione come la nostra, la copiatura dei modelli urbani dove lo sport, date le sue dimensioni, è industria e macchina commerciale; in comuni che vanno da meno di mille a circa cinquemila abitanti, le amministrazioni hanno realizzato e continuano a realizzare campi di calcio pubblici con enorme spesa di denaro pubblico… In una realtà sociale come quella valdostana l’importanza tout court di modelli e mentalità sportiva esterni non potrà non rappresentare una soluzione oggettivamente valida; chi ha il potere deve avere il coraggio di fare delle scelte, scelte che mettano effettivamente in primo piano la specificità di una regione di montagna con tutte le sue tradizioni culturali e sportive. Per chiarire aggiungiamo che per molti anni tsan, fiolet, rebatta e palet sono stati volutamente ignorati dalla politica sportiva regionale soltanto perché essi non rientravano in modelli sportivi e culturali esterni; le profonde radici storiche e popolari hanno praticamente impedito che, malgrado l’emarginazione, i nostri sport sparissero dalla faccia della terra.” (11)
Secondo l’opinione corrente vi sarebbero zone tradizionali, e quasi esclusive, per i quattro giochi: palet e tsan nella medio-bassa valle, rebatta nella media valle, e fiolet da Aosta in su; in realtà le zone attuali di gioco, come risultano dall’interessante carta di Daudry, (12) si sono formate e consolidate solamente nel dopoguerra. “L’attuale area geografica in cui gli sport popolari sono presenti è provvisoria; essa continuerà a mutare negli anni che verranno: stasi, progressioni o regressioni sono la conseguenza di vari fattori, molto dipende dalla nostra volontà… Abbiamo creduto e molti ci hanno aiutato a credere che in Valle d’Aosta esistano fin dalle origini quattro zone sportive… A tale pregiudizio si associa per ovvia e sottintesa ragione il divieto assoluto di uscire dai rispettivi recinti: sarebbe come dire: ‘Il calcio si gioca fino a Nus, oltre inizia la zona del tennis, a cui segue, dopo alcuni Comuni, quella della pallacanestro!!!’ Oggi i nostri sport sono presenti in determinate località della regione, ieri la dislocazione era diversa, domani sarà ancora cambiata poiché essi sono una realtà vivente e non dei pezzi da museo. Le cifre dell’ultimo decennio indicano che i giochi valdostani sono ritornati di moda, dato che gli aderenti sono praticamente raddoppiati; non è detto però che il fenomeno debba mantenersi e ripetersi anche per gli anni a venire… In ogni caso la forza motrice dell’attività sportiva popolare viene dalla gente valdostana e in particolare dalla sua cultura e dalla sua mentalità… Così come i valdostani si identificano e si riconoscono nei propri sport popolari, parimenti i gruppi umani, piccoli o grandi che siano, si identificano nelle azioni socio-culturali che li caratterizzano. Suppongo dunque che ci saranno i giochi valdostani fino al giorno in cui ci sarà una ’mentalità’ valdostana; la mentalità è un ’insieme’ di pensiero e di comportamento che supera di gran lunga l’ambito strettamente sportivo; si può dire semmai che l’attività sportiva dipende dalla forma mentis globale dell’individuo.”(13)
Parliamo ora del fiolet (un tempo chiamato anche baculò). Il campo da gioco, di forma semicircolare, ha una lunghezza di 150 metri e non deve presentare ostacoli di sorta (come ruscelli, piante, arbusti, muretti, pali, cunette o dossi). Tutti i giocatori si servono della medesima pietra di battuta sulla quale è posato il fiolet, di forma ovoidale, con chiodatura metallica (un tempo era molto più grosso e simile alla lippa, ma affusolato da una sola parte), che viene battuto con la mazza (l’eima), e cioè un bastone interamente in legno la cui impugnatura è avvolta con spago o nastro adesivo per aumentare la tenuta della presa. Facendo centro sulla pietra di battuta, sono segnati sul campo con gesso o segatura dei semicerchi concentrici, distanziati fra loro di 15 metri, delimitanti il punteggio realizzato per singola battuta; per segnare il punto il fiolet dovrà oltrepassare completamente la linea di demarcazione. Il fiolet può essere preso in mano due volte solamente per battuta (per “prova”), la terza volta è nulla, senza abbandonare la mazza e oltrepassare la linea di delimitazione del primo punto. Se il fiolet è perduto nel campo, o se si rompe, la battuta è ripetuta. Le gare possono essere individuali o a squadre: in questo caso le battute potranno essere per ciascun giocatore 40 (campionato primaverile), 30 (torneo autunnale), 20 (Trofeo Consiglio della Valle d’Aosta, individuale) o 10 (Bâton d’or, individuale). Lo scorso campionato nella cat. “A” è stato vinto dal Parossan II; il “Bâton d’or” è ora a Silvano Roveyaz (Charvensod), un giovane di 19 anni. A fine partita si totalizzeranno i punti realizzati da ambo le squadre (somma dei punti di ciascuna battuta) e vince quella con maggior punteggio. Al 38° campionato (1983) erano iscritte 89 squadre per un totale di circa 650 giocatori, più oltre 150 juniores; le principali manifestazioni agonistiche sono il campionato primaverile (da marzo a maggio) a squadre, suddiviso in categorie (serie A,B,C,D), che definisce la squadra campione della Valle d’Aosta, con il meccanismo delle retrocessioni e promozioni; la gara individuale del Bâton d’or per l’assegnazione del trofeo (un’artistica scultura con i nomi dei vincitori; sempre la medesima che viene passata ogni anno al vincitore), e che tradizionalmente si svolge tutta nella giornata del 1° maggio; il Trofeo Consiglio della Valle d’Aosta, individuale per categoria, che si svolge subito dopo il torneo primaverile; il torneo autunnale, a squadre con incontri a eliminazione diretta (con inizio a ottobre), per ogni categoria.
Si auspica la realizzazione dei campi in due zone distinte: quella della vallata del Gran San Bernardo, dove esiste una presenza molto forte di giocatori con difficoltà di reperire terreni anche a causa del prolungato innevamento dei prati; l’altra nei comuni di La Salle, Morgex, o Pré San Didier. Ma la priorità immediata è costituita dal reperimento di un terreno in cui si possano tracciare sei o sette campi regionali per l’effettuazione delle gare del Bâton d’or e del Trofeo Consiglio. Autostrada Aosta-Courmayeur, aeroporto, autoporto, zona industriale, eccetera, rendono sempre più precari gli attuali campi intorno all’aeroporto. L’Association valdôtaine fiolet ha sede in via Lostan 4, Aosta, ed è presieduta da Arturo Charbonnier, di Arpuilles. I ragazzi partecipano ai “Giochi della gioventù” (CONI). Passiamo alla rebatta o tsanfiolla, ora in uso particolarmente nella media valle (Gressan, Sarre, Introd, Aymaville, e valloni laterali: Cogne, Pollein, Valpelline, Doues, Ollemont…); sino a meno di cinquant’anni or sono era dì gran lunga il gioco più praticato e il più conosciuto dai Valdostani. L’Associaxon valdohtena rebatta (presidente Renzo Curtaz, d’Aosta) è nata nel 1957 e raccoglie circa 500 praticanti, dei quali 310 giocatori suddivisi in una cinquantina di squadre, più circa 140 ragazzi e un’altra cinquantina tra anziani ed estemporanei partecipanti a tornei particolari. Fra gli sport valdostani, la rebatta esige il maggior spazio per il suo svolgimento, perché è quello dove sono possibili i lanci più lunghi: la lunghezza minima del campo è di 210 m, per una larghezza di 70 m, cui si debbono aggiungere un’area di sicurezza di 50 m ai lati, per una superficie totale minima pari a 25.200 mq. Il gioco si svolge in modo analogo al fiolet, con la differenza fondamentale che la battuta, anziché effettuarsi da una pietra, si verifica colpendo prima a terra una levetta di legno che serve per il lancio e poi, al volo, la pallina che va quindi molto più lontano del fiolet ovoidale. Gli strumenti sono la rebatta, ossia una pallina di legno (in genere ricavata da un “nodo” di castagno) interamente rivestita di chiodini metallici a loro volta ricoperti, il cui diametro complessivo è di circa 30 mm; la massetta o eima, mazza di legno composta da due parti, il bâton e la maciocca, unite fra di loro; la fioletta, una specie di “pipa” in legno con funzione di leva, dove si posa la rebatta. Con l’eima si percuote la fioletta (questo primo colpo è detto levou) che lancia così in aria la rebatta, la quale viene battuta al volo (è la batua) e spedita il più lontano possibile. Dopo il levou si ha la facoltà di prendere in mano per due volte la rebatta, dopo di che la batua è considerata effettuata. Dopo toccata la massetta, la rebatta non potrà più essere presa in mano La squadra della rebatta è composta da sei elementi (uno in più del fiolet), di cui uno è il capitano-responsabile; ma in campo entrano soltanto cinque giocatori, il sesto essendo cambiabile; in ogni squadra almeno tre elementi su sei devono essere residenti nel comune di appartenenza della sezione. Nelle partite di campionato ogni giocatore ha diritto a venti battute; il punteggio di squadra è dato dalla somma dei punti ottenuti dai singoli giocatori. Oltre al campionato a squadre ed individuale le altre manifestazioni agonistiche importanti sono il trofeo delle età (gara a categoria unica in una sola giornata) a squadre composte di sei giocatori, uno per età (in archi decennali da 15 anni a 55). Le dzovenno e la rebatta (i giovani e la rebatta) a carattere promozionale e non agonistico, riservato ai ragazzi della scuola dell’obbligo, e il torneo autunnale a squadre. Campione regionale (primavera 1983): Squadra Ollomont. Campione valdostano: Tivo Voyat (Chevrot), 247 m di media ogni tiro. L’esigenza assolutamente prioritaria è quella di avere un impianto stabile regionale polivalente (per rebatta, tsan, fiolet); sinora l’Associazione della rebatta non ha a disposizione alcun campo pubblico e i terreni vengono reperiti dai giocatori su pascoli e prati privati, pagando canoni di locazione anche molto alti. C’è da sottolineare che i campi per i giochi valdostani non richiedono gettate di cemento, sono aperti e l’ingresso per assistere è sempre gratuito. La sponsorizzazione è espressamente vietata dal regolamento.
La rebatta è un gioco alpino conosciuto anche nelle valli ladine dei Grigioni, dove è chiamato la mazza (ma la pallina è gettata in aria a mano, anziché sollevata dalla leva) o anche patsina-patseista (come a Zernez, dove si giocava ancora recentemente, particolarmente il giorno di Pasqua; il gioco si è estinto con la costruzione di nuovi edifici). (14)
Lo tsan: 1.200 tesserati
Come abbiamo detto, lo tsan è il gioco più complesso, completo e fisicamente impegnativo, tant’è vero che col trascorrere degli anni i giocatori di tsan passano al fiolet o alla rebatta. Il campo viene tracciato con picchetti e bandierine in modo da assumere la forma di un triangolo isoscele privo della base, in quanto non vi sono limiti nel senso della lunghezza. I due lati costituiscono i cosiddetti bons laterali, mentre internamente al triangolo viene segnata a 32 metri la distanza dal vertice, la linea dei bons frontali. Alla sommità del triangolo è fissata poi al suolo, con un’inclinazione di 35-40 gradi, una pertica flessibilissima lunga circa 5 m. Sulla pertica è posata una pallina di legno di bosso, lo tsan, del diametro di 4 cm. Le squadre, composte di dodici giocatori ciascuna, si portano una alla pertse (la pertica) e l’altra di fronte, lungo il campo. Tutti i componenti della squadra battitrice devono colpire lo tsan con una lunga mazza pure in legno (lo baket) scagliandolo verso gli avversari che dovranno cercare di neutralizzare la battuta intercettando al volo la pallina servendosi di un’assicella di legno, assegnata a ciascun giocatore (palet o bakef), lanciata in aria. Se la pallina è intercettata, il battitore viene sostituito da un altro compagno di squadra. Se non è intercettata la battuta è “buona” e il battitore continua.
La seconda fase del gioco è quella della servia (servizio). Un avversario (ed è lo specialista al servizio) si porta sulla linea del bons frontale e scaglia la pallina in alto in modo che ricada a perpendicolo entro il cerchio descritto intorno alla pertica di lancio. Spetta allora al battitore colpirla al volo con una racchetta di legno (paletà o piota) e mandarla il più lontano possibile in qualsiasi direzione: se questo suo rilancio è intercettato dagli avversari, è eliminato; se invece lo tsan tocca terra, si procede alla misurazione della distanza in metri (un tempo era a passi, misurati da due giocatori, uno per squadra, con inconvenienti di marcia facili a immaginare, posto che gli interessi − e la misura del passo − erano opposti!) per determinare il punteggio. Ogni giocatore ha diritto a tante servie quante sono state le sue battute “buone” nella prima fase del gioco. Quando tutti i battitori hanno eseguito le due fasi del gioco, si ha lo scambio degli schieramenti: chi era alla battuta va nel campo opposto per intercettare, e viceversa.
Il primo statuto di una società di tsan di cui si ha conoscenza è quello redatto a Châtillon il 16 maggio 1920, e sempre di quell’anno è il primo regolamento scritto dell’antichissimo gioco, le cui norme si erano tramandate sino ad allora oralmente, diverse da comune a comune. Dal 1949 si effettuano i campionati divisi in tre serie (A,B,C, cui si aggiunsero D e E, e i tornei juniores e seniores); diverse modifiche sono state apportate al regolamento di gioco (così dal 1957 fu abolito il singolo servizio delle battute “buone” realizzate, come nella lippa, portando invece le stesse a un’unica operazione di servizio al termine del collettivo turno di battuta della squadra), sino al regolamento vigente che è stato deliberato a Charvensod il 26 novembre 1976. Presidente dell’Asosiation valdohtena tsan, nata nel 1949, è Pierino Daudry (rue Sarmasse, Châtillon). Mentre un tempo il tiro tendeva a essere alto e lungo, ora si cerca di ottenere una traiettoria il più possibile parallela al terreno, così che lo tsan è “sparato” e difficilmente prendibile; piccoli accorgimenti alla pertsia tolleravano sino allo scorso campionato questa modifica di traiettoria. Tali accorgimenti sono stati ora giustamente proibiti e la pertsia di lancio è più severamente controllata nella forma e nella misurazione dalla sua estremità al terreno.
Campionato primaverile 1983: 1° Verrayes, 2° Châtillon; autunnale 1983: 1° Pollein, 2° Châtillon. Dalle poche squadre ancora vitali nel secondo dopoguerra (33 del 1959, 68 del 1979) si è passati ora a ben 75 squadre partecipanti al campionato di primavera, 1.200 tesserati annualmente; le squadre sono distribuite in circa 20 comuni, esclusa Aosta. Considerando — fa notare P. Daudry — lo tsan come sport di una regione di 120.000 abitanti, in rapporto alla popolazione dello Stato italiano, avremmo in Italia una federazione di circa 500.000 iscritti! Occorre poi notare che i quattro sport valdostani non sono presenti nella città di Aosta (a parte alcune squadre di fiolet che di Aosta portano soltanto il nome) e quindi il numero globale dei praticanti lo sport popolare va riferito a una popolazione complessiva di circa 80.000 abitanti (qual è quella della Vallée esclusa Aosta). Pensate, dice ancora Daudry, che il popolare gioco delle bocce conta in Italia complessivamente circa 150.000 tesserati, il tennis da tavolo (ping pong) ha invece a livello italiano 10.000 iscritti… (15) Oggi in valle lo tsan può contare su campi a Saint-Christophe, a Pollein, a Brissogne, a Quart, a Châtillon e a Mont-jovet. La situazione dei campi intorno all’aeroporto è molto precaria e non ci sono garanzie per il futuro. Occorre ancora ribadire che il campo, la plasse di joà, per i Valdostani non è quello delle città, dello sport-consumo, ma spazio aperto, sempre a disposizione anche per altre attività, per la scuola; potrà essere utilizzato in maniera alternata per tutti e quattro gli sport e non rimanere per lungo tempo inutilizzato, come avviene per altre strutture riservate agli sport imperanti.
Un gioco analogo allo tsan, lo Hornuss, è praticato in Svizzera da 7.000 adulti e da 2.000 ragazzi. Ultima annotazione curiosa: un tempo si giocava lo tsan con l’abito “buono” festa e la camicia bianca. (16) Concludiamo la quadrilogia con i palet, antichissimo gioco popolare praticato in molte località alpestri valdostane, e anche piemontesi. Attualmente viene giocato secondo il modello delle bocce, servendosi di dischi di ferro che devono “andare a punto”, ma un tempo si usavano le pietre, e i giochi potevano variare moltissimo, andando a bersaglio di monete o altro (e probabilmente anche colpendo paletti, da cui il nome) poste su appoggi di diverso tipo. Anticamente si procedeva di lancio in lancio facendo il giro del paese, quasi come in un esorcismo comunitario (ricordiamo che tale è l’origine di cortei, processioni e funerali). L’Asosiaxon valdohtena palet come organizzazione è la più recente, essendo stata riconosciuta soltanto nel 1974; è presieduta da Adolfo Dujani (Châtillon) e conta circa 400 tesserati, avendo compiuto negli ultimi anni passi da gigante. Esistono campi scoperti comunali soltanto a Issogne, e un solo campo coperto a Verres. Daudry fa una comparazione tra due attività sportive a St. Vincent: i palet e le bocce. Nel 1982 la sezione del gioco valdostano contava 53 iscritti, numero non inferiore agli iscritti per le bocce (e così nel quinquennio precedente); ma mentre esiste un bocciodromo con quattro campi regolamentari, spazi per il pubblico, bar e servizi usuali e si prevede anche di estendere tale struttura, in tutto il comune non esiste neppure un campo scoperto per i palet, né sembra ne siano previsti per il futuro! Eppure si tratta di uno sport colà molto popolare. Così a Châtillon: i tesserati delle sezioni bocce e palet si equivalgono per numero, ma nel bocciodromo sono previsti quattro campi per le bocce e due per i palet. Daudry allora chiede: “È forse un’attività che non rende turisticamente? È forse scartato perché non si presta all’organizzazione di campionati italiani o internazionali? È forse penalizzato perché non attira dall’esterno élites sportive dal portafoglio gonfio? Forse perché non fa parte della ‘cultura della nuova Europa’? Forse perché sono da considerare giochi soltanto quelli che si possono tradurre in denaro?” (17)
La crino e il cornichon
Un gioco che si ricollega in qualche modo ai palet, ma che per ora ho trovato, nelle Alpi occidentali cisalpine, soltanto nelle valli valdesi, e che già ho avuto occasione di descrivere, (18) è il gioco della crino (ancora questo curioso riferimento alla scrofa!). Si svolge in una località che è un’isola cattolica tra i Valdesi; sempre, puntualmente, il pomeriggio della domenica di Pasqua. Da una pietra tradizionale, in località Giordanengo, il capo del gioco lancia un legnetto: i partecipanti, in numero illimitato, dovranno seguirlo lanciando un proprio bastone (come la boccia segue il pallino): resta penalizzato sia chi risulterà il più vicino al bersaglio, sia il più lontano; le penalità vengono segnate con una tacca sulla propria crino, cioè sul bastone da lanciare appresso alla maire (la madre), che è il bastone del capogioco. Perde e paga da bere chi totalizza il maggior numero di penalità. Il gioco è “obbligatorio” nel senso che lo si gioca in qualsiasi contingenza; nel 1944 si svolse tra due o tre persone, durante un’azione tedesca di rallestramento.
Del tutto analogo è il gioco del savoiardo detto del cornichon o coinchon, coinston, cuchon, praticato in una parte della valle del Giffre e nella regione di Albertville, il pomeriggio della domenica o il lunedì di Pasqua. Anche qui si tratta di seguire il bastone lanciato dal capogioco, o un dado (il bersaglio è detto la dama), oppure una ciabatta (la savata), lungo un percorso improvvisato lì per lì a ogni lancio, attraverso il paese; i penalizzati sono coloro che rimangono più lontani dalla dama (la metà, o i due terzi a seconda degli accordi prestabiliti). Anziché partire da una pietra tradizionale, ciascuno porta una propria pietra, o piastra, sulla quale deve porsi per fare ogni lancio. Le penalizzazioni sono segnate anche in Savoia con tacche sul proprio bastone (cornichon). La differenza è che, mentre a San Martino del Perrero il gioco si effettua sempre nella stessa località e sul medesimo prato (Giordanengo), in Savoia si percorre il paese, proprio come in valle d’Aosta si procedeva un tempo giocando ai palet. Va detto, però, che a San Martino si racconta come il gioco vi arrivasse da Ponte San Martino, alle porte di Pinerolo, percorrendo la bellezza di 20 km di salita! È quindi evidente il ricordo che il gioco un tempo era itinerante. A Mont-Saxonnex il gioco è stato recentemente ripreso con molto successo. (19) Van Gennep sostiene che in questo gioco è evidente non soltanto il rito della fecondità (riconoscibile nei bastoncini gettati a terra, nei motteggi e negli scherzi che fanno da contorno, nel periodo primaverile e nel giorno “sacro” della Pasqua), ma anche della presa di possesso del territorio comunitario; anche la calzatura è sempre stata considerata come un simbolo di presa di possesso del territorio.(20) A proposito del medesimo oggetto, annoto come esso sia ricorrente pure nelle storie dell’uomo selvatico (catturato proprio perché attratto dalle scarpe nuove), e quindi come esso rappresenti un riferimento preciso nel mondo rituale e magico delle culture cosiddette primitive.
Lanciatori di formaggio
Si chiama ruzzola ed è un altro gioco originariamente “itinerante”, di chiara origine pastorale, posto che l’oggetto del lancio era costituito (e lo è ancora, in certe gare, specie in Garfagnana) da una forma di cacio pecorino ben stagionata. Non ne ho trovato per ora tracce sulle Alpi, le testimonianze più settentrionali essendo quelle riscontrate nell’Alto Parmense (a Valmozzola, alta Valle Taro, e a Corniglio del Bosco, Val Parma) dove era già ridotto a gioco infantile: erano infatti i pastorelli che il giorno di San Giovanni (solstizio d’estate e giorno particolarmente importante per le religioni naturali d’Europa) lanciavano il formajen ad San Zvan appositamente preparato per loro. (21)
Non molto lontano, nel Reggiano, abbiamo invece la regione che, con Modenese, Bolognese e Marche, vanta le più illustri tradizioni del gioco della ruzzola, tuttora praticato con entusiasmo e grande seguito.
La storia del gioco è antichissima; v’è chi la fa risalire agli Etruschi, basandosi su un affresco nella tomba etrusca detta “dell’Olimpiade” di Tarquinia, raffigurante un lanciatore che i più ritengono del disco, ma che altri, considerando la posizione dell’atleta e l’attrezzo, riconoscono come un lanciatore di forma. La documentazione sicura risale al XV secolo (come per altri sport tradizionali, la cui radice è in ogni caso sempre ben più remota), trovandosi negli statuti della comunità di Gallicano (Toscana) del 1450, che prevedevano la licenza del commissario per il lancio del formaggio lungo le strade o altrove. La grida del podestà di Villa Monozzo stabiliva che la posta non doveva superare il reale valore della forma. Pure negli statuti di Pievepelago e Roccapelago nel Frignano (Modena) del 1664 e del 1602 si ha memoria del gioco. Già in quei tempi si lanciavano sia la forma di formaggio ben secca, sia la ruzzola di legno. Sovente l’attrezzo nel peso imita la forma di formaggio pecorino tradizionale del posto, e quindi varia da luogo a luogo: a Colfiorito e Annito (Foligno) viene usato un disco di legno di 500-700 grammi, e del diametro di 13-15 cm, com’è la forma del pecorino locale; nella zona di Norcia (pure non molto distante da Foligno), il gioco viene praticato con un… ruzzolone del peso fra i 2,5 e 3 kg, con un diametro di 25-28 cm, perché quelle sono le dimensioni del pecorino ivi prodotto. A Novara di Sicilia (Messina) sino agli anni ’50 si lanciava la majorchina, così chiamata dal formaggio detto “majorchino” di produzione locale. Nell’Alto Appennino, in Garfagnana, vi sono tuttora ottime piste di lancio del formaggio, come a Càsola, a Minucciano (dove si gioca a Pieve San Lorenzo nel torrente Tassonaro) e a Gallicano dove si possono gustare i “formaggi da tiro”.
Ora il ruzzolone per le gare di campionato è un disco di legno di 26 cm di diametro e 6 di spessore, con il bordo esterno liscio e rastremato per circa 2 cm, e il suo peso varia dai 2 ai 3 kg; vi è avvolta una “cordella”, cioè una fettuccia di canapa, molto resistente, lunga circa 2 m e larga 2 cm. Ad un’estremità c’è un anello entro il quale il giocatore passa la mano per arrestarla al polso. A una lunghezza pari alla circonferenza del ruzzolone viene annodato un rocchetto di legno chiamato croch, il quale servirà al lanciatore per impugnare più saldamente il ruzzolone e per imprimervi maggior forza al momento del lancio. Il gioco si effettua oggi su apposite piste chiamate treppi, che possono essere strade o terreno campestre con caratteristiche tali da rendere possibile e interessante la corsa del disco. Sulla pista sono fissati un punto di partenza e uno di arrivo, detti salvi e con pali o alberi o altri segnali, dei passaggi obbligati detti biffi per rendere più difficile il percorso; quando il ruzzolone non rispetta il biffo, il concorrente deve tornare indietro per passare poi, con un successivo lancio, dal punto obbligatorio rientrando così nel tracciato di gara. Il pubblico segue con estrema attenzione: se il lancio è riuscito, l’apprezzamento pur caloroso si limita a un “bello, bravo!”; sennò, tutti hanno commenti da fare e consigli da dare e il lanciatore si deve rassegnare a sentirsi dire: “Che pegra ch’a te fat!” (che “pecora”hai fatto!). I lanciatori hanno il diritto di essere accompagnati da un consigliere che studia il percorso e, appunto, consiglia; sino a qualche anno fa c’era anche “l’asciugatore”, che andava a riprendere il ruzzolone uscito di percorso e lo ripuliva se bagnato o infangato.
Le gare erano un tempo estemporanee, o nascevano da vere e proprie sfide, annunciate “attaccando la forma” agli sfidati e aggiungendovi un biglietto con le condizioni: il treppo, cioè percorso; il numero delle gete, e cioè le manches, e la posta in palio, in genere uova sode e, se d’inverno, vino brulé per tutti; la gara si svolgeva con contorno di “pariglie”, cioè scommesse, e si concludeva con grandi giocate alla morra. In Emilia e in Umbria si gioca in modi molto simili; vi sono però differenze nel lancio e nella lunghezza del percorso di gara. In Umbria era sempre di soli quattro lanci, mentre in Emilia il percorso era delimitato con la linea di partenza e di arrivo, e i lanci potevano essere sette o otto. In Umbria il giocatore era costretto a lanciare tenendo un piede fermo entro un cerchio segnato con gesso o con segatura, attorno alla circonferenza del ruzzolone dove questo si era fermato; in Emilia c’era più libertà di movimenti, perché il punto di arresto del ruzzolone era segnato con un bastoncino conficcato nel terreno. In Garfagnana è ammesso lanciare prendendo la rincorsa. In Umbria le gare si effettuano su strade senza ostacoli; in Emilia su piste di terra battuta, prati, ostacoli e curve; in Abruzzo (L’Aquila) non si usa il rocchetto, e così si imprime minor forza al ruzzolone.
Anche lo stile del lancio cambia: a Zocca e Montese (Appennino modenese) il giocatore compie nel momento del lancio alcuni “slanci” con il braccio in direzione orizzontale; a Montefiorino (Appennino modenese) all’ultimo slancio il giocatore si porta il ruzzolone sopra la testa. Vi furono giocatori leggendari, come Casimiro Gualandi di Montese e Galassi di Pavullo nel Frignano, attivi tra fine ’800 e primi del ’900: erano imbattibili e per trovare avversari dovevano concedere vantaggi d’ogni specie, come assegnare loro uno o più lanci, lanciare con la mano sinistra, giocare in coppia con la figlia, o lanciare seduti su un asinello, o con i piedi legati, o in ginocchio… C’era anche chi lanciava ruzzoloni enormi, del peso di 10 chili, come un certo Geo, emigrato nell’Illinois, dove esportò il gioco e sfidò Italo Gualandi, figlio del campione Casimiro, anch’egli emigrato laggiù: la gara fu memorabile, si svolse sulla strada ferrata e fu vinta dal Gualandi perché i grossi ruzzoloni si ruppero e si dovette gareggiare con altri più leggeri. Altro personaggio, più recente, è stato Giovanni Guidotti di Montese, il quale ha continuato a giocare sulla soglia degli 80 anni (la ruzzola in effetti è uno dei pochi sport concessi anche agli anziani); a Montese non passava lunedi, giorno di mercato, che non “attaccasse” una forma o due; pur concedendo vantaggi agli avversari, vinse innumerevoli gare. Sulla porta del suo negozio di tessuti a grandi caratteri aveva fatto scrivere: “Gnacherino tiratore di forma.” Un altro, Giuseppe Corsi (“Pipetta”), pure di Montese, prima di affrontare ogni gara si nutriva con una dozzina di uova sode. Duilio Rubini, dovendo effettuare un lancio molto difficile che prevedeva anche il superamento di un fossato, si servi del fratello, sistemato al centro del ruscello con un’asse sulla schiena: il Rubini doveva colpire con un lancio di sollevamento il centro dell’asse per permettere al ruzzolone di schizzare sulla sponda opposta: riuscì nell’intento con un lancio che fece epoca. Negli anni ’60, i lanciatori di ruzzolone diventano sempre più numerosi e bene organizzati; scompaiono i nomi prestigiosi che hanno fatto epoca per lasciare il posto al vincitore della domenica. Fece notizia la sfida tra due Montesini che ebbe luogo a Ranocchio (ora San Giacomo Maggiore), iniziata un mattino d’inverno e finita il giorno dopo: i due lanciarono tutta la notte, illuminati dalla luna e da qualche torcia. Grande giocatore e animatore del grande favore che l’antichissimo gioco torna ad avere sull’Appennino è Mario Gualandi, figlio di Italo e nipote di Casimiro: inaspettato e temuto, comparve a un campionato provinciale, appositamente rientrando dagli USA dove la sua famiglia era emigrata. A lui (che ora abita a Bologna) e a Walter Beilisi (Montese, MO), lo storico della ruzzola (22) , devo molte di queste notizie.
Negli anni ’60 si organizzano i primi circoli o società sportive del ruzzolone… ed è singolare notare come la “ripresa” sia pressoché contemporanea alla crescita incredibile dei giochi valdostani, ciò mentre altri gloriosi sport popolari, come il pallone elastico con bracciale, si estinguono in quegli anni nel Trentino, in Toscana e nelle Marche… I circoli erano associati all’ENAL (che ospitava a Torino anche la Federazione del pallone elastico). Il 2 settembre 1973, a Spezzano di Fiorano (Modena), si svolge il 1° Campionato nazionale che proclama campioni italiani Armando Ricci di Perugia (individuale) e Giuseppe Moretti con Orlando Sdoga, anch’essi di Perugia (coppia). Il 4° Campionato nazionale, svoltosi a Pavullo nel Frignano (Modena) nel settembre 1976, vede per la prima volta la distinzione in categorie (A e B). L’ultimo campionato si è svolto nel settembre scorso a Massa Martana (Perugia) e ha sanzionato l’egemonia, che ormai dura da molti anni, dei Modenesi: quella provincia conta quasi 2.000 giocatori! Il gioco dal 1973 è disciplinato da un regolamento unico (ruzzolone di 2,3 kg, spessore 6 cm, diametro 26 cm); lancio con cordella (il primo può essere fatto con rincorsa o da fermo, i successivi da fermo, con il piede posato dove si è fermato precedentemente il ruzzolone); sono ammessi i passaggi obbligati a biffi, e la partita si effettua in due manches, andata e ritorno, fra due coppie o due singoli; il gioco consiste nel lanciare il ruzzolone dal punto di inizio del percorso a quello d’arrivo col minor numero di lanci e, in caso di parità di lanci, nell’aver superato il traguardo per una distanza maggiore di quella dell’avversario. La lunghezza del percorso non può essere inferiore a quella raggiungibile con un minimo di quattro lanci.
Ogni provincia ha un regolare calendario di gare che danno luogo a classifiche per la selezione dei giocatori per il campionato nazionale, da effettuarsi in una sola giornata, tradizionalmente settembrina. Durante le gare è possibile acquistare ruzzole, ruzzoloni, rocchetti, fabbricati da artigiani locali (un buon fabbricante di ruzzole è Giorgio Cerfogli di Castellara di Sestole, Modena). Alcune amministrazioni locali si dimostrano sensibili all’antico sport montanaro. Benemerito è il comune di Montese (è un po’ la capitale storica del gioco) che ha acquistato 50.000 mq di terreno e costruito cinque magnifici “treppi”; in quel comune esistono due società sportive del ruzzolone, a Montese capoluogo e a Montespecchio. Dopo lo scioglimento dell’ENAL, l’organizzazione ebbe un momento di sbandamento. Poi la “successione” fu rivendicata da due organizzazioni “federali”:
A) L’ANAST (Associazione nazionale sport tradizionali), con sede a Perugia presso il suo presidente, on. Gino Bellezza. Organizza il campionato nazionale, il campionato regionale, il campionato provinciale. A Bologna opera su un treppo allestito nei pressi dell’aeroporto, lungo circa 500 metri. Gli iscritti a Bologna sono 250, i gruppi nella stessa città cinque. A Modena gli iscritti sono oltre 1000. Responsabile a Bologna è Giuseppe Gaetti, “Gruppo sportivo Due Torri”.
B) La Lega nazionale ruzzolone, c/o ARCI-UISP, Roma. Organizza il campionato italiano, il campionato regionale e quello provinciale. Localmente, gare di gruppo. Nel Bolognese esistono quattro gruppi federati a questa lega (Casalecchio di Reno, Monteveglio, Vergato, Marzabotto) con circa 200 iscritti. A Reggio Emilia gli iscritti sono circa 800 e circa altrettanti anche a Modena. (23) Le province che in genere inviano giocatori ai campionati nazionali sono Ancona, Arezzo, Ascoli Piceno, Bologna, Milano, Modena, Perugia, Pesaro, Reggio Emilia, Siena, Terni e Viterbo. Si svolgono anche gare per ragazzi (juniores). Le organizzazioni cercano di ottenere il riconoscimento del CONI e non si può non rilevare una certa antinomia tra la natura di sport così schietti, puliti, tuttora riti comunitari festosi, e il tentativo di essere “ammessi’’ nella cerchia di sport per lo più illustri quanto sovente snaturati e alienanti.
Note
(1) A. De Gubernatis, Storia comparata degli usi nuziali, Milano, 1869, p. 18 sgg.
(2) Cfr. A. Gallois, Un mariage à Riolunato, in “Scoltenna”, IV, p. 88; G. Ferraro, Canti del Basso Monferrato, Palermo, 1888; A. De Gubernatis, Le tradizioni di Santo Stefano di Calcinala, Roma, 1894, p. 115. L’interpretazione rituale di tutti questi giochi è ben trattata nelle note a: A. Maragliano, Tradizioni popolari vogheresi (a cura di G. Vidossi e I. Maragliano), Le Monnier, Firenze, 1962, pp. 640-660,
(3) M, Dondeynaz, in Ayas, ed. Virginia Pero, Milano, 1968.
(4) Gabbud, Jeux et divertissements du Val de Bagnes, in ‘‘Archives Suisses des Traditions Populaires”, tome XII 1917.
(5) A. Maragliano, op. cit., pp. 693-694
(6) S. La Sorsa, Come giuocano i fanciulli d’Italia, ed. Rispoli, Napoli 1937, p, 186,
(7) Cfr. I manuali Hoepli: F. Gabrielli, Giuochi ginnastici per le scuole e per il popolo;
e F. Franceschi, Giuochi sportivi, 3a ed.
(8) Cfr. T. Burat, La cirimela, in “Ij Brandé – Armanach ed Poesìa Piemontèisa 1984”,
ed. “Piemonte in Bancarella”,Turin, 1983. Sulle regole del gioco classico, cfr, A. Maragliano, op.cit., pp. 695-696, e L. Gibelli, Dnans ch’a fassa neuit, Edi-Valle-A., Gressoney-La-Trinité, 1980, p. 299 sgg.
(9) Sul roba muget cfr. A. Maragliano op.cit., pp. 696-698; sulla “lippa all’olio” cfr. G. Ferraro, Cinquanta giuochi fanciulleschi monferrini, in “Archivio per lo Studio delle Tradizioni Popolari”,
I, 1882. pp. 126-131 e 243-257 (reprint Forni ed., Bologna, s.d.)
(10) Daudry è stato anche uno dei promotori ed attivo militante del movimento “arpitano”; è uno dei maggiori benemeriti di questo rinascimento degli sport tradizionali valdostani. Bravo giocatore egli stesso di tsan ed ora di fiolet, è lo storico di questi giochi ed il loro félibre. Cfr. in particolare Documenti di sport popolare edito dalla “Federaxon esport nohtra tera” (di cui Daudry è responsabile dal 1974), Ivrea, 1981. È anche responsabile della rivista “Lo Joà e les Omo” (Il gioco e gli uomini), 1984.
(11) P. Daudry, Relazione sul problema dei campi di gioco e indicazioni per la loro realizzazione, s.d., ma 1980.
(12) Da Giocare e rinnovarsi, relazione di P. Daudry per il 1982, p. 9.
(13) Ibidem, pp. 6-7
(14) Sulla mazza engadinese cfr. J.B. Masuger, Schwveizerbucb der alten Bewegungsspiele, Artemis Verlag, Zurich, 1955 L’annotazione su Zernez è invece mia (settembre 1983).
(15) P. Daudry, Quanti siamo e dove siamo, in Giocare e rinnovarsi, cit.
(16) Per i giochi affini allo tsan (od alla cirimella “complessa” con “servizio” ecc.) nella Svizzera tedesca, quali lo Hornuss, la Tscharata (Wiler, Zermatt) o Tscharatu (loschental), il Giesspiel (Vals), o Gruguli o Griggeli o Riggele (Glarona e Toggenburg), il Gulen o Hornuss dai palo lungo (Horgen). cfr. J.B. MasUgcr, op.cit.
Nella Svizzera franco-provenzale (o arpitana) lo tsara corrispondeva allo tsan valdostano ed è scomparso agli inizi di questo secolo proprio quando in Val d’Aosta lo tsan era famoso per le sfide tra paesi (cfr. B. Luyet, Jeux de la Savièse, in “Cahiers Valaisans de Folklore”, Genève, 1931; e M. Gabbud, op.cit.).
Sullo tsan valdostano; G. Torrione, Lo tsan sport valdostano, Assess. al Turismo della Regione autonoma Valle d’Aosta, Itla, Aosta, s.d. (ma 1959); P. Daudry, Le jeu du tsan (sport populaire valdôtain), Musumeci, Aosta, 1975.
(17) P. Daudry, Sport e politica sportiva, in Giocare e rinnovarsi, cit.
(18) G. Buratti, Il gioco della “crino”, in “Lares”, a. XXXVI, I-Il (1970), pp. 117-119.
(19) Cfr. Le jeu du coinchon, in “Almanach du Vieux Savoyard”, 1972, p. 80;
e A. Bourgeaux, Les jeux traditionnels au Mont-Saxonnex en Faucigny, in “Le Monde Alpin et Rhodanien”, n. 3-4. 1975, pp. 21-28 (Le cornichon).
(20) Cfr. A. Van Genncp, Manuel du folklore français contemporain, III, Les cérémonies périodiques cycliques et saisonnières, pp. 1385-1386.
(21) Testimonianza di Ettore Guatelli, di Oziano Taro (Parma), che alla mostra ”11 paese dei balocchi – Giochi e giocattoli per piccoli e grandi dal XVIII secolo al futuro” a Colorno aveva esposto alcuni pezzi dei suo straordinario museo di tradizioni popolari, tra i quali la fassella e cioè la piccola forma per ricavare il formaggino di ”San Giovanni” riservato in quel giorno ai bambini, e che essi poi “lanciavano” prima di mangiarlo nella merenda tradizionale per i boschi o pascoli.
(22) Cfr. Walter Bellisi, La tradizione del lancio del ruzzolone, in Atti del convegno della Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi – “L’alta valle del Tanaro”, Zocca, settembre 1980 (vol. 2°), Teic, Modena, (1981), pp. 287- 300.
(23) Fonte: Mauro Donini (via Bottrigari 36, Bologna).