Direttamente dal canale ufficiale Al-Ikhbariya, era arrivata la conferma di quanto si presumeva…
Il nuovo governo siriano avrebbe tutte le intenzioni di disarmare i curdi che ancora controllano ampi territori nel nord e nell’est del Paese. Promettendo in cambio una generica “integrazione” delle loro istituzione autonome (Rêveberiya Xweseriya Demokratîk a Herêma Bakur û Rojhilatê Sûriyê) nello Stato. E delle forze democratiche siriane (Hêzên Sûriya Demokratîk, definite “braccio armato” dei curdi siriani) nell’esercito siriano (da cui comunque sarebbero escluse in quanto donne le miliziane delle ypj).
Quanto alla Turchia, per Ankara disarmare i curdi rimane una priorità (o forse la priorità). Anche nella prima settimana di agosto il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan si è recato ben tre volte a Damasco. Ufficialmente per “sostenere il popolo siriano e le sue legittime aspirazioni e volontà”, ma in realtà per ottenere la messa al bando definitiva delle milizie ypj e ypg.
Un primo risultato sembra averlo ottenuto con l’annuncio di Damasco del 9 agosto – emesso sotto la pressione turca – con cui annunciava di ritirarsi dai negoziati in corso a Parigi con le fds. Nonostante i curdi siriani avessero ancora una volta ribadito di non volere la divisione territoriale della Siria, ma unicamente “un modello decentralizzato che garantisca i diritti di tutte le minoranze etniche e confessionali del Paese mentre i recenti massacri subiti da alawiti e drusi sono causa di inquietudine per la popolazione”.
Ma sul richiesto disarmo, i curdi del Rojava appaiono decisamente intenzionati a opporsi. In una intervista diffusa da al-Yaum TV, il portavoce delle fds, Farhad Shami, ha dichiarato che “la consegna delle armi è una linea rossa”. Invalicabile.

Almeno per ora quindi, le fds non sembrano avere l’intenzione di sottoscrivere l’appello di Ocalan rivolto a tutte le organizzazioni curde combattenti (“convocate il vostro congresso e prendete una decisione: tutti i gruppi devono deporre le armi”).
Una ulteriore conferma è venuta il 14 agosto con le dichiarazioni di Çiğdem Doğu.
Nel corso di un’intervista su Medya Haber TV, spiegando come la Siria odierna si definisca “attraverso una molteplicità di etnie e religioni diverse”, l’esponente della Comunità delle Donne del Kurdistan (kjk) ha sottolineato quanto sia altrettanto distintivo il ruolo assunto dalle donne. In particolare nel nord e nell’est del Paese dove “assistiamo a una autentica rivoluzione con l’auto-organizzazione femminile, mentre nelle regioni alawite e druse avvengono ripetuti massacri contro la popolazione e ripetute violenze sulle donne”.
In un contesto del genere “solo pensare di imporre la resa delle armi alle forze democratiche siriane significa semplicemente dire: venite a farvi sgozzare”. Non esiste infatti “alcune garanzia di sopravvivenza”. E torna il mente il video della cattura di Cicek Kobane con le feccia jihadista che grida “Bisogna sgozzarla, bisogna sgozzarla”.
Per Çiğdem Doğu altrettanto priva di senso sarebbe “l’idea dell’integrazione delle fds nell’esercito siriano”. In quanto semplicemente “oggi non esiste un vero esercito siriano, ma soltanto varie gang. Gruppi sanguinari che conducono attacchi contro le diverse identità nazionali, etniche e religiose”.
“Qui le persone”, aveva proseguito, “hanno combattuto per anni, contando decine di migliaia di caduti e di feriti e ottenendo grandi risultati. In particolare le donne che con la rivoluzione hanno conquistato il diritto di vivere in libertà”. Ricordando che le ypj, le unità di difesa delle donne, “sono un’organizzazione combattente e non possono cedere le armi”, in quanto con le ypg rappresentano una garanzia per “armeni, arabi, curdi, siriaci, di poter continuare a vivere pacificamente insieme, senza che nessuno si senta autorizzato a parlare a nome loro”. Per cui la soluzione della crisi siriana comporta “la decentralizzazione e lo sviluppo di un sistema che consenta alle comunità di autogestirsi democraticamente”.
La recente (8 agosto) “Conferenza sull’unità delle componenti del nord e dell’est della Siria” di Hassaké, a cui oltre ai curdi hanno preso parte alawiti, drusi e sunniti, va considerata un’importante riflessione sull’idea di una “repubblica siriana democratica”. In cui ciascuna componente potrà partecipare democraticamente, difendendosi e combattendo se necessario. Preservare la rivoluzione delle donne e la rivoluzione democratica dei popoli costituirà “un esempio sia per la Turchia che per tutto il Medioriente”.
Tale presa di posizione, in particolare la decisione delle ypj (Yekîneyên Parastina Jin, unità di difesa delle donne) di non deporre le armi, non nasce dal nulla, naturalmente. Ci sono stati dei precedenti.
Tra gli episodi più controversi e inquietanti quello accaduto il 28 maggio ad Aleppo. Quando un previsto scambio di prigionieri tra il regime di Damasco (comunque sotto la supervisione turca) e le autorità curde del Rojava è andato a vuoto in quanto le prigioniere di guerra curde ypj non erano state liberate. Non solo. Sembra siano state trasferite direttamente nelle prigioni turche.
Inevitabile ripensare ancora all’analogo destino subito da Çiçek Kobane uikionlus.org/siamo-tutti-cicek-kobane/ (Dozgin Temo). Ferita alle gambe e catturata in Rojava nell’ottobre 2019 dalla banda jihadista Ahrar al-Sham, veniva trasferita in Turchia per essere condannata all’ergastolo in quanto avrebbe “distrutto l’unità e l’integrità dello Stato turco”. Nientemeno.
Da quando è al potere Aḥmad Ḥusayn al-Shara (al-Jolani), la situazione delle donne in Siria – non solo di quelle appartenenti alle minoranze curde, druse e alawite – è andata peggiorando: almeno 635 sono state uccise in Siria dall’inizio del 2025, secondo dati (per difetto) dell’agenzia curda anf risalenti alla fine di luglio, e in seguito le cose non sono certo cambiate.
Per non parlare della loro sistematica esclusione dai processi decisionali in corso per definire il futuro del Paese.
Uccisioni, stupri, rapimenti e aggressioni sono ordinaria amministrazione in particolare nelle zone costiere e a Soueïda (Suwayda). Dove le vittime civili delle milizie sunnite filogovernative si sono contate a migliaia, tanto che l’Alto Commissariato onu per i rifugiati ha ripetutamente denunciato gli abusi contro le donne alawite.
E resta grave anche la situazione complessiva della Siria. Soltanto nelle ultime settimane almeno cinque persone sono morte sono tortura per mano dei servizi di sicurezza della nuova amministrazione: Abdulrahman Jaaloul ad Aleppo, Youssef al-Ali e Ghassan al-Naaman a Homs, Ahmed Kaddour e Youssef al-Labbad a Tartous. Presumibilmente per difetto, numerosi rapporti di ong denunciano che almeno 17 persone sono decedute sotto tortura nel primo semestre del 2025.