Anche se oggi non è molto in uso, con il termine Ladinia si intende una regione storico-geografica di circa milleduecento chilometri quadrati in seno all’area alpina composta da cinque vallate dolomitiche. A cavallo tra le province di Trento, Bolzano e Belluno (la Val Badia e la Val Gardena nel Sudtirolo, la Val di Fassa in Trentino, la Valle di Fodóm e la Valle d’Ampezzo con parte del Cadore in Veneto), pur non rappresentando attualmente un’unità amministrativa specifica, queste valli conservano alcuni secolari retaggi storico-sociali e culturali comuni, a partire dalla lingua parlata in modo preminente dalla popolazione locale, il ladino, pur con una serie di varianti locali causate dalla esclusiva oralità che questa lingua ha avuto fino alla fine dell’800 nella trasmissione infra-generazionale.
Qualche cenno di storia
Il territorio di cui parliamo, come gran parte di quello alpino, fu abitato a partire dal VII millennio a.C. da varie tribù che parlavano una lingua pre-indoeuropea, fino a quando nell’anno 15 a.C., sotto Augusto, fu annesso dai romani che chiamarono i popoli stanziati sulle Alpi “reti”. Iniziò da quel momento la loro latinizzazione e spesso anche la necessità di isolarsi in quota lasciando le vallate più basse agli insediamenti permanenti dei romani. Ma l’allontanamento dalla pianura determinò anche la conservazione di una certa autonomia sul piano amministrativo e sociale.
Le migrazioni verso aree in quota continuarono a maggior ragione quando ebbe inizio l’insediamento delle popolazioni germaniche nell’arco alpino, mentre la loro cristianizzazione da parte del Patriarcato di Aquileia avvenne a rilento, spesso grazie a una progressiva metamorfosi degli antichi culti pagani e con la costruzione delle prime chiese esattamente nei luoghi sacri dove avvenivano le cerimonie pre-cristiane legate a culti naturalistici (peraltro rimasti in vita, quasi in parallelo, per alcuni secoli).
Non è stato facile, quindi, per i ladini sopravvivere e far sopravvivere la loro identità culturale nel corso dei secoli, dato che sempre più diventavano marginali proprio nel territorio che era storicamente appartenuto a loro. Parallelamente iniziò la diminuzione e il restringimento dei loro insediamenti e dei parlanti l’antica lingua retoromanza, d’altronde sopravvissuta agli eventi storici e alle migrazioni dei popoli germanici in quest’area alpina, una lingua divenuta del tutto minoritaria sia rispetto all’evoluzione delle parlate germaniche sia dell’italiano che andava insinuandosi nelle parlate locali.
Ancora più complessa diventò la loro sopravvivenza all’inizio del ‘900, quando il loro territorio divenne campo di battaglia tra i due popoli maggioritari dell’area, italiani e austriaci, che nelle trincee alpine li costrinsero persino a trasformarsi in soldati degli opposti schieramenti. Peggio ancora negli anni successivi, con la presa del potere del fascismo in Italia, che provò a italianizzare tutte le minoranze della penisola, e del nazismo in Germania e la successiva annessione dell’Austria, con i ladini schiacciati tra due assolutismi nazionalistici.

Nel 1939 Mussolini e Hitler dovettero venire a patti con la questione, irrisolta, del Sudtirolo, e i residenti della provincia di Bolzano ebbero la possibilità di scegliere se dichiararsi italiani o tedeschi. Né gli uni né gli altri diedero però spazio alla minoranza ladina, e la conseguenza fu la cancellazione della stessa esistenza giuridica del ladino come lingua (che aveva da poco iniziato a essere oggetto di studio da parte dei linguisti) e dei ladini come popolazione (seppur ormai di assoluta minoranza nell’area alpina), con il risultato di una loro ghettizzazione di fatto, dato che i “tedeschi” non capivano il ladino (non essendo una lingua germanica) e così avveniva per gli “italiani”, che consideravano quella strana lingua un dialetto germanico.
Dovettero passare ancora alcuni anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale perché anche in Italia ci si ponesse il problema delle varie minoranze presenti sul territorio nazionale – e quindi, di fatto, anche dei ladini – sebbene già nel luglio 1946 il movimento “Zent Ladina Dolomites” avesse organizzato al Passo Sella una manifestazione per l’unità ladina con la partecipazione di oltre tremila persone provenienti da tutte le vallate storiche. Nel corso della manifestazione erano state sottoposte all’attenzione del governo alcune precise rivendicazioni: dal riconoscimento giuridico dei ladini come gruppo etnico e della loro lingua come lingua minoritaria dell’Italia repubblicana, alla riunificazione amministrativa dei ladini all’interno di una sola provincia. Richieste che solo parzialmente troveranno reale attuazione negli anni successivi, ma comunque a rilento rispetto ai tempi attesi, mentre una parte delle rivendicazioni sono rimaste finora lettera morta.
Le dinamiche insediative e le viles
Non si può comprendere a fondo il senso della cultura e dei rapporti sociali dei ladini senza partire dalle dinamiche residenziali che hanno per secoli caratterizzato gli insediamenti di queste genti nelle valli alpine. Per certi versi ricordano quelle dei walser, l’altro popolo minoritario che è riuscito a popolare le pieghe del territorio alpino più settentrionale dove nessun altro insediamento umano si era spinto, seppur in un’area più occidentale. 1)
In entrambi i casi, infatti, ci si trova di fronte a un paesaggio variegato di montagna caratterizzato dall’estrema pendenza dei terreni ed equamente diviso tra campi coltivati, aree verdi adibite a pascolo e boschi, sui cui pendii si apre una costellazione di piccoli villaggi. Questi abitati, che i ladini chiamano les viles, sorgono vicino a torrenti e piccoli corsi d’acqua, e sono collegati tra loro originariamente da sentieri che si incuneavano tra gli angusti spazi di una geografia scandita dal ritmo di continui dossi e rari pianori.
Si tratta di un contesto geografico che vede le montagne strapiombare verticalmente verso le valli, ma che tanti secoli fa doveva apparire ancor più drammatico e sfidante: come afferma Giuseppe Sebesta, “fu la verticalità, l’isolamento, i silenzi totali che forzarono l’uomo a guardare in alto, selezionandolo ad architetto istintivo nella realizzazione di una sua casa; la reale ed autentica sua carta di identità”. 2)
È in questo contesto che si andarono inserendo i “villaggi agricoli” (le viles, per l’appunto) dei ladini, gruppi assai modesti di fattorie con al centro case in legno o a struttura mista, cioè in pietra e legno (i masi), oltre ai fienili (i tobià); edifici costruiti in modo assai compatto tra loro come per garantire agli occupanti quel senso di sicurezza e mutua solidarietà che le condizioni ambientali non sempre potevano garantire. Anche perché gli spazi residenziali dovevano coesistere necessariamente con quelli coltivati, oltre che con i pascoli per gli animali, al fine di consentire una sorta di autonomia di risorse minima alle famiglie che lì abitavano sia da un punto di vista economico che alimentare, quindi anche logistico e materiale in senso lato.
La struttura della vila ladina sembra abbia seguito un preciso canone costruttivo: piccoli spiazzi occupati tutt’attorno da strutture ad accesso e fruizione comuni, come granai, forni, talvolta anche legnaie, e poi al centro abbeveratoi per gli animali oltre a fontane e lavatoi per le persone, tutte strutture queste ultime di proprietà collettiva. Attorno agli spazi comuni, gli edifici agricoli e residenziali posti, come già detto, a minima distanza tra loro, di proprietà delle singole famiglie, costruiti abbarbicandoli ai pendii e sfruttando questi ultimi per fornire ai vari piani delle costruzioni altrettante vie di accesso dall’esterno.
Le abitazioni ladine, come tutte quelle di alta montagna, avevano infatti una struttura pressoché fissa: la base della costruzione era in pietra, usata sia per il basamento sia in genere per il primo piano. I massi venivano pazientemente posizionati a incastro, utilizzando pietre di varie dimensioni ottenute dallo sbancamento e dalla spezzatura delle aree pietrose del terreno. Si trattava della stessa pietra usata anche per costruire gli argini dei corsi d’acqua e i muretti di consolidamento dei declivi.

Sormontavano la base in pietra delle assi di legno che fungevano da struttura portante e perimetrale per i piani superiori (uno o due al massimo). Il legname era ottenuto dal disboscamento controllato dei vicini boschi di larice, dove i tronchi degli alberi venivano scelti sia badando a non rarefare eccessivamente le aree disboscate, sia pensando alla loro vicinanza ai fini di una più facile trasportabilità, sia infine perché la scelta del legno di larice teneva conto della sua proverbiale capacità di resistere all’umidità.
Tutte le costruzioni erano dotate di tetti a falde spioventi, costituite da scandole (una sorta di assicelle) di larice o di abete: tipologia necessaria non solo per combattere il freddo creando una camera d’aria superiore a mo’ di protezione, ma anche per permettere banalmente alla neve di scivolare giù quando cadeva copiosa senza accumularsi e ghiacciarsi, cosa che avrebbe appesantito il tetto rischiando di farlo crollare.
Due erano le tipologie di abitazione: le più semplici e povere costituivano un blocco unico tra la residenza abitativa e, in basso o accanto, il magazzino e la stalla degli animali; le più complesse avevano invece l’abitazione separata dall’edificio adibito a stalla e fienile mediante barcons o parincinch (ballatoi o ponticelli) che servivano anche a stendere al sole l’eventuale fieno ancora umido o per essiccare il raccolto.
In ogni caso, con l’andar del tempo le abitazioni iniziarono a essere comunque staccate dai fienili e dalle stalle, i quali spesso costituivano un’unica struttura accessoria con un piano terreno in pietra e/o muratura, dove venivano ricoverati gli animali, e un piano superiore in legno dove si depositava il fieno e talvolta anche la legna da ardere d’inverno. L’accesso avveniva da scale esterne e da un collegamento interno ridotto a una botola tra i due piani, utile per fornire gli animali (ricoverati in basso) il fieno occorrente per l’alimentazione invernale (immagazzinato in alto).
La combinazione dei due materiali per l’edilizia – la pietra e il legname ottenuto dai larici – era una scelta quasi ovvia sia per la disponibilità di entrambi in loco, sia perché la loro combinazione offriva una capacità senza uguali di mantenere abitazioni, fienili e stalle asciutti anche in inverno e insieme aerati.
I due o tre piani di questi edifici, anche di quelli residenziali, come già detto non erano spesso comunicanti tra loro per mezzo di una scala interna, ma l’accesso ai diversi piani avveniva dall’esterno, sfruttando la pendenza naturale del terreno sul quale si trovava quasi abbarbicata la costruzione.
Ma, in generale, la vivibilità di questi spazi alpini e la loro lenta trasformazione in spazi abitabili tutto l’anno è stata resa possibile, proprio come nel caso dei walser, da continue e a volte gigantesche opere di disboscamento e di dissodamento dei suoli per rendere coltivabili le superfici meglio esposte all’insolazione; per regolare il corso dei torrenti e delimitarlo affinché non tracimassero; per costruire e mantenere agibili in ogni stagione sentieri e mulattiere; e infine, ovviamente, per rendere sicuri gli insediamenti e le costruzioni evitando frane. Tutte operazioni condotte per secoli mettendo a frutto le esperienze accumulate di generazione in generazione e tenendo sempre presenti, da un lato la fragilità del contesto naturale d’origine, dall’altro le imprescindibili esigenze di un’antropizzazione comunque rispettosa di un paesaggio il quale, essendo formato per oltre la metà da boschi e terreni improduttivi, non poteva essere rivoluzionato ma reso solamente abitabile e produttivo nei suoi limiti, ossia sfruttabile “secondo natura”.
Anche per questa ragione nei pascoli più ad alta quota veniva spesso costruito un edificio rustico – la “baita” – che potesse fungere da ricovero temporaneo soprattutto nei mesi più caldi per pastori e animali, oltre che come ulteriore deposito per il fieno. E furono poi alcuni di questi edifici a trasformarsi durante il periodo estivo in strutture per la lavorazione dei prodotti caseari (le “malghe”).
È stata quindi la stessa morfologia dei suoli a dettare le regole della creazione di questi insediamenti e della realizzazione di tutte le continue e necessarie manutenzioni, trasformazioni ed evoluzioni che li hanno condotti fino ai nostri giorni, ponendoli al centro di quell’organizzazione verticale nell’uso dei suoli diffusasi poi in tutto l’arco alpino, dove spesso i vari fondivalle non avrebbero potuto garantire analoghe risorse per la poca insolazione diurna e per le conseguenti condizioni spesso malsane per gran parte dell’anno. Invece, le viles abbarbicate su pendii soleggiati in una fascia altimetrica attorno ai millecinquecento metri potevano garantire, pur nella difficoltà iniziale della loro realizzazione, condizioni di vita e potenzialità di risorse economiche ben maggiori, ovviamente se si fosse nel contempo costituita una rete di collegamenti tra l’alto e il basso.
Ecco perché le viles, con i loro masi, i loro fienili, le stalle per gli animali, i magazzini e persino gli antichi forni comuni nel cuore stesso del villaggio, sono ancora oggi al centro della storia e della cultura della valli ladine; in grado di caratterizzare un paesaggio finalmente sottoposto a tutela, anche se la nascita di nuovi centri abitati o l’espansione di quelli più antichi per il boom turistico degli ultimi decenni ha in parte modificato queste aree, dove comunque molti vincoli valgono non solo per le costruzioni più antiche, ma in parte anche per quelle di nuova realizzazione.
La verità è che comunque le antiche viles ladine sono state trasformate spesso in edifici di villeggiatura o case vacanze, perdendo gran parte delle logiche per le quali erano state costruite e abitate per tanto tempo. D’altronde, lo stesso abbandono dell’antica economia di sussistenza della cultura ladina ha fatto venir meno la necessità di risparmiare terreno, consentendo a molte frazioni e piccoli centri, sostanzialmente nati attorno alle storiche viles, di espandersi e di “spargersi” sul territorio circostante, perdendo oltre alla logica sociale ed economica anche il fascino di un tempo.
Gli antichi edifici in alcuni casi sono stati oggetto di un restauro rispettoso che ha consentito di conservarne quanto meno le forme e i colori tradizionali; ma in altri casi essi sono stati abbattuti o ricostruiti come edifici moderni che, se va bene, richiamano alcuni dei canoni antichi.
Nel contempo sono sorte costruzioni nuove completamente avulse dal panorama secolare che le circonda, per forma, dimensioni, materiali e colori, spesso adibiti a condomini o alberghi, legati all’aumento esponenziale del turismo alpino. E le norme di tutela entrate via via in vigore, come quella emanata dalla Provincia Autonoma di Bolzano nel 1984 e il Regolamento di esecuzione alla legge urbanistica provinciale n. 13/1997 della stessa Provincia, a volte sono state pensate e poste in esecuzione quando ormai il danno era già stato fatto e non si poteva tornare indietro.
Economia, risorse e tradizione
Anche se oggi gli abitati dell’area ladina dolomitica sono diventati nel loro complesso centri turistici di primaria importanza, sia per il turismo estivo sia per quello invernale (parallelamente alla realizzazione di varie stazioni sciistiche), non va comunque dimenticato come la vita del popolo ladino sia stata per secoli caratterizzata da quella che abbiamo già definito un’economia di pura sussistenza a causa delle difficili condizioni climatiche e geografiche; un’economia basata in modo prevalente sulle poche coltivazioni agricole possibili e sull’allevamento di ovini e bovini, e in via subordinata sul commercio di legname, di carni e di formaggi.
Tuttavia, va detto che con il tempo alcune attività accessorie, benché strettamente legate alla loro vita quotidiana, avevano iniziato a essere “esportate” insieme agli stessi ladini anche in altri territori alpini e subalpini vicini. Parliamo per esempio di quelle legate all’intaglio del legno e alla decorazione pittorica di alcune facciate dei masi, dove già dal ‘700 avevano cominciato a trovare posto immagini sacre o naturalistiche dipinte a fini religiosi o semplicemente decorativi.
Ancora oggi si possono ammirare alcuni affreschi originali su vari edifici storici, per esempio a Canazei e in altri piccoli centri della Val di Fassa: i più antichi presentano temi soprattutto religiosi mentre quelli risalenti alla fine dell’800 e all’inizio del ‘900 sono legati alle tradizioni della vita lavorativa e familiare. Le figure maggiormente rappresentate sono la Madonna del Soccorso e San Cristoforo, difensore dei viandanti, ma anche protettore dalle pestilenze e dalla morte improvvisa. Queste erano le immagini dipinte solitamente lungo le vie principali, dove peraltro si trovavano anche gli edifici delle famiglie più importanti. Altri edifici presentavano invece qualche immagine più modesta, come uno o più animali che pascolavano su un prato, o semplicemente delle decorazioni in legno soprattutto nel portale dell’ingresso alla parte abitativa della costruzione.

Questi lavori erano eseguiti dagli stessi ladini che inizialmente sapevano fare un po’ di tutto, trasformandosi al bisogno velocemente da contadini in pastori, da casari in falegnami, da muratori in scalpellini. Poi nel tempo si sviluppò una trasformazione del mondo del lavoro con la costituzione di figure sempre più specializzate nei vari settori.
Tuttavia molti ladini continuavano a vivere in condizioni disagiate nei loro villaggi, e questo iniziò a spingerli a forme di emigrazione stagionale o all’emigrazione definitiva, che a partire da inizio ’800 assunse livelli sempre più consistenti. E a essere esportate, soprattutto nei vari Paesi dell’intero arco alpino, insieme alle persone furono anche le loro tecniche lavorative e la loro cultura in generale. Così, per esempio, i pittori-decoratori (pitores) finirono col dilagare anche nei luoghi più ricchi al di là delle Alpi, caratterizzando pian piano con le loro decorazioni le facciate degli edifici nel Tirolo, nella Carinzia e nella Baviera come li conosciamo adesso.
Ma com’era la vita in questi masi e in queste viles? Se nel corso dei mesi più caldi essa si svolgeva prevalentemente all’aperto e un po’ tutti erano impegnati nella conduzione degli animali e nella coltivazione dei suoli (attività a cui partecipavano sia le donne sia gli uomini, sia i grandi sia in alcuni casi anche gli adolescenti), nei mesi invernali quasi tutto il tempo si passava invece in casa. La stüa, praticamente il soggiorno dell’abitazione, era l’unica stanza riscaldata dei vecchi masi (le camere da letto, senza una propria fonte autonoma di riscaldamento, si trovavano quasi sempre al piano superiore) e quindi le famiglie si riunivano intorno al fur, al focolare (detto anche mugún o fornèl), non solo per i pasti ma anche per svolgere tutti i lavori che si rendevano necessari e che la stagione del freddo consentiva.
Il focolare era costituito da una piccola struttura in muratura dentro la quale veniva acceso e alimentato il fuoco e da cui si alzava la canna di dispersione dei fumi che li portava fino al tetto. Attorno alla parte in muratura si costruiva abitualmente un’ulteriore struttura in legno con funzione di panca per sedersi o sdraiarsi ai lati, mentre una porticina posteriore, da dove si accendeva e si attizzava il fuoco, metteva in comunicazione la grande stufa con un locale adiacente che fungeva da dispensa e/o da legnaia. Attorno al focolare ognuno svolgeva i suoi compiti: alle donne toccava ricamare e filare la lana, oltre a rammendare i pochi abiti disponibili, mentre gli uomini passavano il tempo costruendo o aggiustando i loro attrezzi da lavoro per i campi, per la caseificazione, per la manutenzione delle costruzioni e dei suoli.

Pochi erano i mobili e gli arredi, spesso sintetizzabili in un tavolo, qualche sedia o un paio di panche e un armadio. Immancabile era invece la cassapanca (scrin), dove era stato trasmesso il corredo nuziale della sposa all’atto del matrimonio, che rimaneva il mobile più comune e comunque quello maggiormente in uso. A differenza di altri arredi ben più ricchi e decorati (come quelli bavaresi, tirolesi o veneti), gli artigiani che costruivano le cassapanche inizialmente le decoravano con stelle o altri semplici disegni eseguiti con l’aiuto di un compasso e di uno scalpello, disponendoli senza un apparente preciso ordine compositivo.
È però interessante osservare che, al di là di una certa rudimentalità, “tali decorazioni esprimevano significazioni di ordine religioso, di natura esistenziale, o propiziatorio come ad esempio la ruota, simbolo della continuazione della vita, della fecondità, e la più comune, il sole, stella a sei punte simbolo di esistenza, di vita, di calore e di luce”. 3)
In Val di Fassa nell’800 nacque addirittura una scuola-bottega di pittori-decoratori che – come avvenuto anche per gli operai che decoravano le abitazioni – durante i lunghi inverni si spostavano in altre zone delle Alpi e vi esplicavano la loro opera: ecco perché in Valle di Fiemme, di Cembra, di Badia, di Gardena, di Pusteria, eccetera, si trova una tipologia di decorazioni identica a quella dei mobili fassani.
Un altro strumento che non mancava mai nelle abitazioni ladine era il ròde da filàr, l’arcolaio utilizzato per dipanare le matasse di lana ottenuta dalla tosatura delle pecore che poi le donne lavoravano per ottenere gli indumenti della famiglia. In ogni valle ladina e talvolta in ogni località venivano costruiti arcolai con caratteristiche proprie delle forme, dei legni e degli intarsi, spesso con motivi geometrici, floreali o anche animali.
D’altronde la pastorizia era una delle attività principali degli uomini nelle valli ladine, e quindi la lana ricavata dalla tosatura delle pecore poteva trasformarsi per le loro donne in un’ulteriore fonte dei loro modesti guadagni nelle attività commerciali che si svolgevano con i valligiani, oltre a quella legata alle produzioni casearie. Le pecore, un tempo patrimonio inalienabile di ogni famiglia ladina, furono tuttavia a mano a mano sostituite dalle mucche, la cui produzione quotidiana di latte era ben maggiore e che ancora oggi costituiscono una risorsa primaria dell’economia agro-pastorale del luogo. Ma non cessò mai la necessità per ogni famiglia di disporre di un arcolaio.
Caratteristica dell’attività agro-pastorale ladina era (e rimane in gran parte anche oggi) la transumanza degli animali, i quali all’inizio della bella stagione venivano fatti uscire dalle stalle dopo il lungo inverno dolomitico e accompagnati nei pascoli più in quota, dove l’erba fresca di montagna non solo era più nutriente ma forniva un sapore più ricco al latte e quindi anche ai prodotti della caseificazione.
Mucche e pecore con i loro pastori rimanevano al pascolo generalmente dall’inizio di giugno alla fine di settembre, e quando il clima in quota iniziava a farsi più freddo e le precipitazioni più frequenti, prima che avessero inizio le prime nevicate avveniva il ritorno ai villaggi. Il rientro delle mandrie costituiva e continua a rappresentare un’occasione unica per festeggiare e celebrare il lavoro svolto in montagna, e pertanto era un’occasione di festa per tutta la comunità, conosciuta ancora oggi come desmontegade, festa della transumanza. Nel frattempo, nei mesi trascorsi nelle malghe d’alta quota, gli allevatori erano impegnati a produrre i formaggi sia per il consumo familiare del resto dell’anno sia per la commercializzazione.

La produzione casearia delle valli ladine è sempre stata di estrema importanza per l’economia di queste famiglie, anche se le tecniche di caseificazione si sono affinate con l’andar del tempo: alcuni dei formaggi oggi più famosi della produzione delle valli ladine (come lo spretz tzaori di Moena, che vuol dire letteralmente “formaggio saporito”, ma che è ben più noto come “puzzone”) sono in realtà il prodotto di una tecnica casearia abbastanza recente, che risale storicamente solo all’inizio del ‘900. Ciò è spiegabile anche con il fatto che, come già accennavamo, le pecore che erano state per tanto tempo l’animale di base della pastorizia ladina furono pian piano sostituite proprio all’inizio del secolo scorso con capi di bestiame bovino, il cui numero, seppur inferiore, era in grado di produrre quantità maggiori di latte, e quindi potenzialmente di formaggi. Oggi quasi tutta la produzione casearia delle valli ladine è quindi a base di latte vaccino, tranne modeste eccezioni in cui al latte di mucca si mescola latte ovino o caprino.
Quanto all’agricoltura, va detto che le tecniche di coltivazione hanno dovuto tener conto nel tempo non soltanto delle limitazioni imposte dal livello altimetrico, ma soprattutto delle poche superfici coltivabili e del loro sviluppo in pendii spesso difficilmente accessibili anche con le opere di antropizzazione dei suoli portate avanti fin dall’inizio per agevolarne lo sfruttamento.
Il duro lavoro dei contadini doveva pertanto essere preceduto da un ancor più duro lavoro di sistemazione di muretti di contenimento per rendere agibili i terreni a coltivazioni di alta quota come patate e fave. Legati proprio alla coltura delle fave sono rimasti i vecchi faees, gli antichi tralicci su cui esse venivano fatte seccare per il consumo nelle zuppe invernali. Si coltivavano anche le rape, le cipolle e il cavolo, prodotti che facevano parte in modo significativo dell’alimentazione quotidiana delle famiglie ladine, mentre la carne degli animali era riservata ai giorni di festa e in particolare alle ricorrenze religiose e ai matrimoni.
Tra le coltivazioni d’uso più comune, oltre al poco frumento coltivabile nei campi più a valle, a partire dall’800 iniziarono quelle della canapa e del lino per fare tessuti per la casa e per gli indumenti personali, dopo averne filato e lavorato a mano con l’arcolaio, sempre artigianalmente, le relative fibre, come avveniva per la lana. Questa è la ragione per cui, anche quando la produzione della lana di pecora iniziò a diminuire e quindi venne meno l’uso dell’arcolaio per tessere i fili di lana, in ogni famiglia ladina rimase sempre l’esigenza di poter disporre di un arcolaio che le donne imparavano a usare fin da giovani nell’ottica di un’economia familiare autonoma anche per la produzione tessile.

Non erano solo gli uomini, quindi, a dover sopportare le fatiche di un lavoro spesso difficile e complesso, ma anche le donne che dovevano prestarsi pure a sostituire i loro uomini quando si allontanavano periodicamente per gli alpeggi in alta quota o per le attività commerciali nelle vallate più in basso, o perché per alcuni mesi all’anno si sforzavano di trovare lavori alternativi presso altre comunità alpine. Alle donne toccava così occuparsi degli animali e di altre incombenze in aggiunta a quelle familiari e alla cura dei figli più piccoli.
La saggezza degli antichi proverbi
E a proposito di vita familiare, dato che questa aveva il suo clou durante le lunghe giornate invernali attorno al focolare della stüa, è ovvio che qui avesse luogo anche la trasmissione della cultura infra-generazionale, dal momento che i più giovani, stretti attorno al caldo del fuoco, imparavano dagli adulti le tecniche del lavoro e i primi rudimenti dell’artigianato, mentre nel contempo ascoltavano i racconti degli anziani (contìes) che reiteravano alcune antiche leggende, oltre ai ricordi tipici della propria storia personale e della tradizione familiare.
Tra le altre cose, quando la famiglia la sera si riuniva attorno al fuoco vi era la consuetudine di commentare i fatti accaduti nel corso della giornata con detti e proverbi che sintetizzavano, come in ogni cultura popolare, il senso morale e le norme sociali del gruppo, fornendo ai più giovani altresì una serie di modelli atti a costruire quelle fondamenta filosofiche ed etiche su cui ancorare saldamente negli anni a venire i loro comportamenti. 4) La citazione di alcuni di questi proverbi, ancora oggi in uso soprattutto tra le persone anziane delle valli, può quindi servire a comprendere meglio il senso di molte scelte che anche ai nostri giorni caratterizzano per molti versi la cultura e la società ladina, oltre alla filosofia di vita che ne regola i comportamenti e contribuisce a svelarne l’identità.
I ladini, per esempio, sono gente di montagna, e come ogni gente di montagna si evidenzia subito che parlano poco. Un proverbio che riguarda le ragazze, per evitare che crescano spettegolando, ammonisce al riguardo: La lènga dia dundéla a da sta zla zéla (la lingua della ragazze deve restare nella cella), cioè le giovani devono rimanere in silenzio e mantenere un giusto riserbo davanti agli altri. Tuttavia, la parola del capofamiglia è considerata il segno del suo carisma e del suo potere rispetto agli altri componenti della famiglia; per cui, se tutti devono parlare con parsimonia, lui al contrario deve sempre manifestare il proprio pensiero sulle varie questioni che si presentano: N čó zénza lènga n val nénti (un capo senza lingua non vale niente).
L’affidarsi al destino e accettare le situazioni faceva poi parte della filosofia di vita di tutti: Òni pan à la sò krósta (ogni pane ha la sua crosta), ossia bisogna accettare ogni cosa perché ogni cosa ha insieme gioie e pene. I componenti della famiglia, e in modo particolare i giovani, non dovevano scherzare sulle preoccupazioni o sulle disgrazie altrui poiché, si osservava, E davòi la pòrta ank par vuiétar (dietro la porta [il destino bussa] anche per voi).
L’alternanza delle stagioni è un altro dei contenuti tipici dei detti ladini, dato il legame che unisce le rare colture agricole possibili nelle valli alpine alle difficili condizioni climatologiche dell’area. Per esempio, la pioggia di febbraio è considerata foriera di buoni raccolti, probabilmente perché il fenomeno è raro in un contesto in cui generalmente nevica persino in primavera avanzata, e dunque rappresenta il segnale di un anno mite: Forá mol, slunfa le fol (febbraio bagnato, gonfia il sacco).
È ovvio che il contadino sa che si alternano nell’arco dell’anno periodi più caldi e periodi più freddi con piogge e nevicate; a febbraio sulle Alpi, infatti, abitualmente nevica, e anche questo alla fine è considerato un segno della natura benigna: Canche l fioca de firé, l bacan l’é content perché l fa l ledamé (quando nevica a febbraio, il contadino è contento perché il letame si stagiona). Ma l’affidarsi al destino e aver fiducia nel carattere benigno della natura è confermato da un altro proverbio: Aurí mol y merz süt, por le paur él düt (aprile umido e marzo asciutto, per il contadino è tutto). Qui il pensiero va in particolare ai pascoli degli animali e al fieno che se ne ricava per il loro nutrimento invernale, elementi centrali di un redditizio allevamento delle modeste mandrie di ogni famiglia, fattori essenziali nell’economia delle valli ladine.
Un altro proverbio della Val di Fassa recita: Un bel sèn Piere, un bel fen da cèsa; un bel sèn Giacun, un bel fen da mont (un bel San Pietro [29 giugno], un bel fieno a casa; un bel San Giacomo [25 luglio], un bel fieno di montagna). Quanto agli estremi dell’anno, il saggio ricorderebbe che San Bastian lia gran fardura, san Lurénziu dla gran kalura, l un é I àuter pék dura (San Sebastiano [20 gennaio] dal gran freddo e san Lorenzo [10 agosto] dal gran caldo durano poco). Questi ultimi proverbi attestano tra l’altro anche il legame dei ladini con le festività religiose, nel senso che i santi del calendario sono il loro punto di riferimento più importante nel susseguirsi dei giorni e nell’alternarsi delle stagioni nell’arco dell’anno.
Invece una preoccupazione che affliggeva le famiglie era spesso il destino delle figlie, le quali dovevano essere al più presto “accasate” quasi a ogni costo, per evitare che crescendo fossero solo un peso (anche economico) per gli altri parenti. Nella società ladina, peraltro, la donna che non trovava marito avrebbe rischiato di diventare la domestica di un fratello o di un cognato; da qui il detto: Na tóda é méiu mal duda k bèn stada (una ragazza è meglio che sia mal sposata piuttosto che rimanga a casa). Era anche consigliabile contrarre matrimonio con un uomo non troppo giovane, che avesse una certa maturità: É méiu n òn fatu ke n puliér matu (meglio un uomo maturo che un puledro, cioè un ragazzo scapestrato).
In ogni caso si auspicava che il futuro marito avesse voglia di lavorare, fosse sano, non bestemmiasse e non eccedesse nel bere, come attestano i due seguenti proverbi: L òm basta k l ébia n pan, k al sèia san e k al sèia n bón kristiàn (l‘uomo basta che abbia un pane, che sia sano e che sia un buon cristiano); e L òm basta k l ébia vòia da lurà, k n al faza čòka e k n al bastèmi (basta che l’uomo abbia voglia di lavorare, che non si ubriachi e che non bestemmi).
La dote era importante affinché una ragazza potesse aspirare a un buon matrimonio, ma la povertà e la vita modesta delle famiglie facevano sì che ciascuna dovesse essere artefice della propria sorte più che portare ricchezze: La dòta dli tódi da sta zi kómdi (la dote delle ragazze sta nei gomiti). Nonostante la sua inferiorità sociale rispetto all’uomo, la sua figura, come abbiamo visto, era comunque fondamentale e quindi una buona moglie era valorizzata anche dalla saggezza popolare: La fèmna za čèda fa par tre kulòndi e l òm par una sola (la donna, a casa, fa per tre colonne e l’uomo per una sola). La donna appare come il vero fondamento della famiglia, soprattutto quando la figura del marito non è sufficiente a gestire gli affetti e l’economia domestica: A n n-òn ke n val nènti vé na fèmna k vala tantu (per un uomo che non vale nulla ci vuole una donna che valga tanto).
Ma ovviamente esiste anche un proverbio per le mogli inadatte al loro ruolo e sprecone dal punto di vista economico; in tal caso a nulla serve che il marito lavori e si affatichi se la moglie dissipa i suoi guadagni: N n-òn n fa a d’ora purtà inzi kul čar kan k la fèmna porta fora kul garmàl (un uomo non fa in tempo a portar dentro col carro, quando la donna porta fuori col grembiule).
In queste famiglie i figli erano tutto; un proverbio recita al riguardo: kanài e biankarìa n è mai d masa (figli e biancheria non sono mai di troppo); un altro: e fin k n s kuatrèia, n fior su na rèia (finché i figli non sono quattro, è come avere un fiore all’orecchio… nel senso che si rimane senza pensieri).
Ovviamente i figli vanno pure educati, ed educati bene. Le difficoltà in questo compito devono essere condivise dal padre e dalla madre e quindi entrambi i genitori devono savè tamunà, cioè saper guidare, ma anche fornire regole e discipline ai kanài, ai figli. A tale proposito la saggezza di un proverbio sottolineava: A fèi kanài fazili, a arlevà difìzal (facile è fare figli, difficile allevarli). D’altronde, a arlvà i kanài vé pan e pazénzia (per allevare i figli ci vuole pane e pazienza). Ma non deve nemmeno stupire se c’è un altro detto il quale, riferendosi alla necessità di educare bene i figli e di guidarli al meglio nell’infanzia e nell’adolescenza verso l’età adulta, li accomuna agli animali che fanno parte anch’essi in un certo senso della famiglia stessa, cioè i bovini: S kapìs da udél ke bò k pé nì (si capisce dal vitello che bue promette di diventare).
A ricordare ai ladini come convenga vivere del poco ed essere quindi parsimoniosi, provvede un altro proverbio che riferendosi al denaro recita: N ión miga du par la čadèna (il denaro non viene mica giù dalla catena del focolare). La miseria e lo stato economico disagiato inducevano altresì i valligiani a guardarsi o addirittura a diffidare delle persone che esibivano la loro ricchezza: Al butìn pasu n kunósi al butìn finò (il ventre pieno non capisce quello vuoto).
Ma forse vien da pensare che quest’ultimo proverbio oggi l’abbiano dimenticato in tanti…

N O T E
1) Cfr. sull’argomento il mio libro I walser, Palermo 2024.
2) Cause ed effetti di una scelta silvo-pastorale. Carta d’identità di un gruppo umano e perdita della stessa, da “Mondo ladino” n. 1, 1977.
3) Bruno Fanton, Aspetti dell’arte popolare fassana: l’arcolaio, da “Mondo ladino” n. 1, 1977.
4) In Val Badia, Jan Batista Alton nella seconda metà dell’800 raccolse i proverbi della sua valle e quelli della Val Gardena e della Val di Fassa in un volumetto stampato a Innsbruck nel 1881 (Proverbi, tradizioni ed aneddoti delle valli ladine orientali, con versione italiana; il libro è stato ristampato in maniera anastatica a Sala Bolognese nel 1974). Lo stesso fece, quasi mezzo secolo dopo, Angelo Majoni nell’àmbito del territorio ampezzano (Cortina D’Ampezzo nella sua parlata. Vocabolario ampezzano con una raccolta di proverbi e detti dialettali usati nella valle, Forlì 1929.
A chi volesse approfondire le tematiche di questo articolo consigliamo la lettura del libro I ladini, i superstiti della cultura retoromanza, dello stesso autore, recentemente pubblicato dalla casa editrice Fotograf.