Regionalismo, ma rispettando le rispettive origini e differenze etniche di un’Italia formata da tanti popoli. Lo sosteneva (inascoltato) nel 1914 il professore marchigiano Giovanni Crocioni in un libro, oggi quasi introvabile, dal titolo Le Regioni e la cultura nazionale, scritto per sostenere una trasformazione federalista delll’Italia in forme molto simili a quelle che oggi chiamiamo “autonomia differenziata”.
Nel dibattito politico dell’epoca, le proposte di sapore cattaneiano circolavano ampiamente, e si basavano sulle concrete necessità di un decentramento amministrativo o sulle esigenze economiche dei territori. Crocioni invece si distinse perché spiegò il suo regionalismo con motivi più profondi che oggi definiremmo identitari. Per questa ragione la sua opera merita uno studio più approfondito, tanto più che il professore di Arcevia sostenne per tutta la vita “la necessità del decentramento regionale, l’opportunità di rinsanguare la cultura nazionale per mezzo di quella regionale, l’utilità di strutturare una scuola più attenta agli aspetti regionali, ai dialetti, al folklore”. 1)
Oggi sepolto dalla polvere, il saggio di Crocioni all’epoca venne accolto con molto interesse anche perché era in piena consonanza con le idee riformatrici della scuola di Lombardo Radice; ma in seguito, le sue idee regionaliste furono bandite man mano che si affermava l’egemonia statocentrica gentiliana dell’istruzione.
Eppure, non é difficile concordare quando Crocioni affermava che

le diversità territoriali, etniche e storiche hanno creati e accentuati nelle singole regioni bisogni speciali, che uno stato moderno e provvido non trascura, convinto che l’averli negletti, potrebbe, a lungo andare, riuscir disastroso; li coordina, invece, per avviarli, col soddisfacimento di tutti e di ciascuno, al vantaggio complessivo dell’intera nazione, di cui le regioni sono le parti vitali.

È un fatto che

le regioni, in Italia, non sono, come in qualche altra nazione, aggruppamenti casuali ed avventizi di città e provincie, prodottisi in momenti di trambusto, soggetti, pertanto, a parziali e generali tramutamenti. No. Le nostre regioni, sebbene disgraziatamente trascurate, per evidenti ragioni politiche del momento, nel primo assetto amministrativo della nazione, si possono, in qualche modo, considerare come le compagini maggiori dello stato, in diritto di vivere e sopravvivere.
Godono esse, in fatti, di una lor vita propria, prodotta, in parte, e conservata in grazia delle condizioni geografiche, commerciali, industriali, e, sopra tutto, culturali, trasmessa dalle origini etniche, e consolidata dalla tradizione tenace, generatrice di tendenze omogenee e concordi.
[…]
La storia d’Italia è poco meno che storia di regioni largamente intese: furono le regioni che dettero coi loro prodotti spirituali, quasi con le loro anime, il soffio unificatore alla civiltà nazionale.

È la realtà che impone scelte differenti nei vari territori; e del resto

la diversa fisionomia delle regioni, risultante attraverso la storia, e confermata dalla corrispondente diversità delle vicende storiche cui andarono soggette, è convalidata e giustificata dalle condizioni naturali delle regioni. […] Le statistiche, che il nostro governo suole appunto, con provvedimento sagace, compilare per regioni, son lì ad attestare che, come variano da una regione all’altra i temperamenti personali, i caratteri, le tendenze, le attitudini, le costituzioni dogmatiche, la forza, l’intelligenza, la volontà, così variano la cultura, la laboriosità, la criminalità, le iniziative, le manifestazioni industriali, commerciali, artistiche, in poche parole, tutte le qualità del corpo e dello spirito, tutte le opere che ne derivano a tutte le regioni, indistintamente, l’identico programma nell’identico modo, trascurando i particolari diritti di ogni singola regione, nel rispetto della cultura, è ingiustizia grande e danno palese.
Ferme e indiscusse restando le basi della cultura generale, che si rende perciò, ed è ritenuta nazionale, nella coloritura conviene variare, sia pure non fondamentalmente, secondo le regioni, come variano le medicine secondo i malati, e non soltanto secondo le malattie. […] inteso come noi lo intendiamo, il regionalismo (saremmo tentati di chiamarlo, a scanso di equivoci, regionismo) propugnando ua giustizia distributiva nazioale, consolida e cementa l’unità, segnalando imparzialmente e serenamente, non i soli vanti di alcune regioni, ma i vanti e i demeriti di tutte.

La partita si giocava e si gioca soprattutto in campo scolastico, e Crociani proponeva una regionalizzazione dell’istruzione, convinto che

un deplorevole nocumento al civile progresso della nazione sarà evitato, quando tutte le regioni saranno egualmente conosciute, serenamente giudicate, quando agli attuali programmi, rigidi e chiusi, che fanno grave violenza ai diritti delle varie genti italiane, sarà consentita una qualche elasticità, intesa a favorire, specialmente, la conoscenza delle regioni fin d’ora maggiormente dimenticate. Per essa e con essa si invigorirà l’efficacia dell’istruzione, si renderà alle regioni una più piena e serena giustizia. […] Vorrà ancora la scuola italiana. ignorare la regionalità dell’arte?
Vorrà ai lombardi parlare lungamente dell’arte toscana, tacendo, o quasi della lombarda?

Fondamentale l’uso nella scuola e la valorizzazione nella vita civile della parlata locale:

Il dialetto. Studiato dai glottologi, coltivato dai poeti, il dialetto è quasi completamente trascurato quale sussidio allo studio della grammatica italiana. Lasciamo stare che il dialetto tanto disprezzato dalle colte persone (specialmente in alcune regioni) che lo evitano come si evitano gli errori di grammatica, è “l’idioma”, il dolce idioma “che pria li padri e le madri trastulla!”, quello che ci corre spotaneo alla bocca, nei momenti più sinceri della nostra vita spirituale, e possiede accenti di verità e di efficacia ignoti alla lingua. Lasciamo stare che il dialetto, coltivato dai poeti regionali, adoperato nei canti popolari, nelle fiabe, nelle novelline, nei proverbi conferisce ad ogni regione la gloria di una duplice lingua e di una duplice letteratura, che nessuno dovrebbe ignorare. Lasciamo stare che le poesie dialettali potrebbero fornire eccellente materia per esercizi di traduzione e per altri esperimenti scolastici, variabili da luogo a luogo. Lasciamo stare tutto questo. Il dialetto ha, benchè disconosciuta o negata una più alta funzione, e la esercita per sua virtù intrinseca a dispetto di tutti i pedagogisti avversari e incuranti.

In conclusione, secondo Crocioni,

la constatazione della diversa fisionomia delle regioni, prodotta dal suolo, dal clima, dalla razza, dalle vicende storiche, lungi dall’essere una trovata peregrina non è che la conferma e il chiarimento di una convinzione generale.

L’identità dei diversi Popoli dello Stato alla base delle Regioni giustifica in pieno le loro differenti facoltà e i diversi poteri. Ma i centralisti, rossi o neri che siano, non vogliono ammetterlo.

 

N O T E

1) Giuseppe Anceschi, Giovanni Crocioni nella cultura italiana fra positivismo e idealismo, in Il regionalismo di Giovanni Crocioni, Leo S. Olschki editore, 1972.
Tutte le successive citazioni da: G. Crocioni, Le Regioni e la cultura nazionale, Francesco Battiato editore, 1914.