Che il narcisismo possa non essere letto solamente in chiave psicoanalitica ma anche in una sua dimensione socio-antropologica, comincia a convincere un certo numero di antropologi per i quali la stessa antropologia deve avere oggi il compito di fornire un approccio metodologico nuovo alla conoscenza e all’interpretazione della totalità del mondo in cui l’umanità e il singolo individuo sono immersi.
Il cambio di scenario appare chiaro: se all’inizio l’antropologo era interessato alle diversità che caratterizzavano i popoli lontani, e successivamente alle diversità di chi vive accanto a noi, oggi il suo sguardo tende a osservare anche noi occidentali utilizzando una sorta di specchio dal quale la nostra stessa realtà esce trasformata e semmai diversa da come siamo abituati a vederla per consuetudine. In altre parole, l’antropologia ha iniziato a esaminare non più necessariamente il mondo degli altri, ma lo stesso mondo in cui vivono e operano gli antropologi; non “l’altro” ma il “sé”, rivolgendo i propri interessi anche alle trasformazioni culturali che i contesti in cui viviamo e le nostra stesse città stanno subendo in seguito a una molteplicità di fattori.
Per questo anche un fenomeno come il narcisismo può essere studiato e interpretato non solo in chiave psicoanalitica, guardando al singolo, ma anche in chiave socio-antropologica, guardando al fenomeno sociale nella sua interezza. Lo hanno testimoniato in un volume pubblicato una dozzina di anni fa Vincenzo Cesareo e Italo Vaccarini: nel loro studio gli autori sostenevano già allora la tesi che la società occidentale viva in una sorta di “èra del narcisismo”, capace di soppiantare anche le ideologiche umanistiche che l’hanno preceduta nel corso del ‘900. 1)
In termini di società, infatti, vasti strati della popolazione oggi evidenziano fenomeni narcisistici e autoreferenziali vivendo in un eterno presente carente di coscienza storica e incapace di riconoscere il senso delle relazioni sociali, fisiche, materiali. Semmai, accade anche che vasti strati di popolazione occidentale, per salvaguardare la propria vitalità e una sorta di vita tendente a un’idealistica giovinezza perenne, provino persino a cancellare il passato, personale e storico, per provare a vivere in un presente continuo costruito al di fuori della storia (di sé e degli altri), delle radici e delle tradizioni. Il fine è di esorcizzare i propri e gli altrui mali, così come la vecchiaia a cui si è destinati, o le brutture del mondo che pure affiorano quasi fossero storture di una realtà che si vorrebbe diversa e che quindi si tende a “correggere”. Proprio come la cancel culture prova a fare con le brutture del passato o con ciò che oggi è – a differenza del passato – politicamente non corretto, scaricando in tal modo in una rappresentazione storica distorta il male di cui patisce l’oggi.
Una delle forme in cui prende corpo questa distorsione della realtà si avvale del contributo sempre più significativo del mondo dei social in cui molti si sentono assorbiti, staccando le loro esistenze dalla vita reale che li circonda e affidandole alla virtualità della rete. Una vera e propria deriva identitaria che non riguarda a questo punto solo i singoli individui, circoscritti in un loro specifico narcisismo comportamentale (e quindi in una eventuale patologia identitaria), configurandosi sempre più come fenomeno sociale con chiare e rilevanti implicazioni per la società e la vita collettiva grazie all’effetto della sua crescente espansione.
Questa prospettiva socio-antropologica permette di leggere tali atteggiamenti e comportamenti su un binario storico che evidentemente interessa in misura variegata tutte le società, ma in particolare quelle occidentali, al di là delle generazioni; anche se quella dei millennials e dei nativi digitali appare chiaramente assai più coinvolta, incapace spesso di comprendere le differenze tra vita reale e vita digitale, come se vivesse all’interno di un macroscopico videogioco o di una realtà allargata e alternativa. Questo fenomeno, che potrebbe essere definito “narcisismo di massa”, si configura così come un tratto culturale della nostra età contemporanea ben al di là del disturbo clinico associato nei singoli, risultando innegabile quella “vetrinizzazione sociale” del proprio sé in una gara spesso perdente con il mondo dei tanti altri sé vicini e lontani.
È come se tanti Dorian Gray provassero, attraverso i loro profili social (novelli romanzi esistenziali in cui sicuramente si sarebbe buttato a capofitto anche Oscar Wilde se vivesse nel nostro mondo), a specchiarsi in modo ideale in un ritratto dal quale nascondono, insieme alla realtà vera, anche esperienze negative o traumatiche, come la sofferenza, la solitudine, la povertà ideologica (e pure materiale), l’incapacità di riflessione. Ma anche la paura dell’invecchiamento e della propria corruzione estetica e morale, ancorché in giovane età, deviando nell’immagine riflessa sul proprio profilo quel che si presuppone gli altri vogliano vedere, e non ciò che la realtà farebbe vedere affidandosi solo alla materialità e alla fisicità del proprio sé, il cui standard appare in tali casi insufficiente o inopportuno da mostrare.
Ma a risentirne non è soltanto l’immagine reale del proprio sé, ma la propria interazione nella vita pubblica e privata, la propria rappresentazione corporale che è sempre più affidata a forme esteriori nelle quali un posto di primo piano hanno fitness, diete e apparenze comunicative implicite nei modi di presentarsi agli altri; senza contare il ricorso, in alcuni casi davvero patologico, alla chirurgia estetica per inseguire ideali di fisicità corporale che nella propria realtà naturale sono considerati lontani e insufficienti.
Per di più, attraverso la costante presenza sui social si finisce per mettersi più o meno volontariamente in vetrina in modo costante e totale, esibendo se stessi in cerca di una notorietà e di un pugno di “like” che consentono di dare corpo e sostanza alla percezione della propria immagine: un’ossessiva ricerca di una centralità e di una notorietà che nasconde i lati oscuri della propria identità e del proprio essere fisico, se ritenuto appunto non all’altezza di uno standard ideale.
Sempre nell’àmbito della vita che si espande sui social, come sottolinea Lorenzo Denicolai,
la maggior parte degli utenti on-line non si interroga su quale sia il proprio stato in rete, ossia se abbia consapevolezza del poter esistere on-line, ma più semplicemente vive inconsapevolmente la condizione interattiva; mi pare che tale considerazione possa essere anche dimostrazione dell’alto grado di penetrazione che l’interattività e questa condizione esistenziale hanno nei confronti dei suoi utilizzatori. Mi sembra più consono, quindi, parlare di una ricerca di “consapevolezza online” piuttosto che di esclusiva costruzione d’identità, partendo dal presupposto che, esattamente come per il processo identitario reale, l’individuo necessita di uno spazio di riconoscimento e di rappresentazione del sé in rete. 2)
Il problema non sono certamente i social media, ma questi rappresentano un problema nel momento stesso in cui si trasformano da semplici strumenti di comunicazione, come sono le e-mail (che hanno sostituito le lettere cartacee) o WhatsApp o altri canali di messaggistica (che hanno sostituito i vecchi sms o le telefonate in viva voce), in vetrine di condivisione della propria vita, delle proprie azioni, delle proprie emozioni, eccetera.
Capita spesso di vedere persone, soprattutto giovani, che maneggiano freneticamente ciascuno il proprio smartphone anche se camminano in gruppo o si trovano tutti insieme in uno stesso luogo, anziché dialogare tra loro e “socializzare” di persona parlandosi in modo reale e scambiandosi così emozioni, sensazioni, pensieri, commenti con il linguaggio della parola e con quello, altrettanto basilare, del corpo. Magari si scambiano messaggi, like, immagini, emoticon l’un con l’altro, pur essendo a pochi metri di distanza, come se soltanto fissando su un canale social una parola, un’espressione, un’icona possano essere sicuri di affermare la loro esistenza, fissando così narcisisticamente il proprio io. È come se il mondo si fosse inspiegabilmente capovolto, facendo sì che sia reale ciò che trova spazio in rete, mentre l’accaduto concreto non diventa reale se non è certificato e bollinato dalla sua presenza in almeno uno spazio social.
Questa nostra attualità tecnologica ha quindi di fatto generato una nuova divisione dell’umanità sulla base della capacità dei singoli di esserne parte o no. Lo stesso era accaduto in passato quando le persone erano divise in due grandi categorie: coloro che sapevano leggere e scrivere e gli analfabeti. Ebbene, ora questa nuova “alfabetizzazione digitale” non consiste solo nella capacità di utilizzo degli strumenti informatici e di internet, ma passa anche attraverso il possesso e il continuo uso di uno o più account e profili per accedere e partecipare ai nuovi linguaggi dei network digitali, senza i quali “non si è nessuno”, come dicono coralmente tanti giovani, dato che sono proprio le persone più giovani percentualmente gli utenti più numerosi della rete e i possessori di più account.
Non è casuale, concordiamo con Denicolai, se
l’esigenza di riconoscimento sociale in rete occupa oggi un posto preponderante nei desideri del singolo utente, che sovente si riversa nel web alla ricerca di uno spazio “altro” in cui potersi esprimere, mostrare e ri-vedere, ossia ri-conoscere. 3)
La rete diventa una sorta di teatro della propria evidenza di sé: è solo una forma di narcisismo in cui la dialettica della comunicazione non dà spazio a introspezioni, ma solo a parvenze, esteriorità, momenti effimeri che non riescono a dilatarsi poiché spesso non hanno nessuno spessore che vada al di là di un emoticon o di un like, atti a testimoniare, tuttavia, solo una presenza assente.
Nondimeno è chiaro che, in questa rivoluzione, dal web esce rafforzato ed esaltato l’apparato sensoriale visivo dell’umanità: oggi grazie ai social e a internet “vediamo” qualunque cosa, anche oggetti, fatti, frame di vita vissuta distanti geograficamente da noi ma che ci giungono in tempo reale, scissi dalla dimensione spazio-temporale della loro lontananza; momenti di vita che per la loro natura dovrebbero essere percepiti e recepiti anche o solamente con altri sensi, come la voce e il suono.
Ed è certamente vero che, lasciandosi coinvolgere completamente da internet e da questo suo sviluppo, si può perdere qualcosa della realtà, ma è anche vero che su internet si può “realizzare” e “vivere” qualcosa di reale: è l’aspirazione di tanti che fanno uso intensivo dei social, e con la rivoluzione dell’intelligenza artificiale la questione tende ancor più a complicarsi.
Il problema, semmai, è comprendere come sia possibile compiere azioni in rete che abbiano una ricaduta sulla realtà, e come acquisire una consapevolezza che la vita e l’identità online possono essere solo un rispecchiamento dell’identità fisica, un’esistenza secondaria, a volte perfino una rappresentazione fallace di quella che invece è e rimane la vera vita reale. E senza la vita reale non potrebbe nemmeno esistere il web come è stato fisicamente costruito, con le sue linee di programmazione, i suoi computer e i suoi server che lo tengono in vita, le sue reti che lo interconnettono e le sue varie sfaccettature che ce lo rendono familiare. Né potrebbero esistere gli account ai social, se a monte non ci fossero le vite reali delle persone che hanno creato tutto ciò e che quotidianamente alimentano il mondo virtuale, sapendo o magari anche ignorando che si tratta di un mondo parallelo, ma non sostitutivo di quello reale.
A questo proposito, Sherry Turkle in uno studio sulla gioventù americana scriveva già nel 2012, quando ancora l’impero dei social non aveva conquistato tutte le menti della popolazione, quanto meno nelle società tecnologicamente avanzate (e non solo in occidente):
Creare un avatar, magari di genere diverso, con un’età diversa e di carattere opposto, è un modo di esplorare il sé. Ma se trascorrete tre, quattro o cinque ore al giorno in un gioco online o un mondo virtuale (un impegno di tempo non raro) deve esserci qualcosa che vi perdete. E spesso questo qualcosa è la compagnia di familiari e amici […] Potreste aver cominciato la vostra vita online in un’ottica di compensazione: eravate soli e isolati, sembrava meglio di niente […] Non sorprende quindi che qualcuno racconti di sentirsi deluso quando passa dal mondo virtuale a quello reale, cercando luoghi virtuali dove potrebbe esserci anche di più. 4)
La verità, anche sul piano psicoanalitico, è che grazie alla rete e alla presenza, spesso ossessiva, sui canali social, noi dimostriamo di esistere e di vivere, “siamo e contemporaneamente siamo rappresentazione, in un continuo andirivieni di condizioni esistenziali”, come evidenzia sempre Lorenzo Denicolai. 5) Il passo decisivo è compiuto dal fatto che con gli ambienti social possiamo agire sul web e, contemporaneamente, nella realtà fisica. E possiamo fare questo essenzialmente attraverso il linguaggio, con cui riusciamo a dare una definizione di noi stessi e a costruire (o ri-costruire) la nostra identità online. Il raggiungimento di questo obiettivo è legato, tuttavia, alla nostra capacità di suscitare emozioni anche negli altri: noi esistiamo se gli altri ci consentono di esistere offrendoci un contesto spazio-temporale anche effimero, quello di un like o di una condivisione, offrendo alla nostra misera consapevolezza delle vita reale una scialuppa di salvataggio per una conseguente esistenza “altra”, evidentemente più appagante di quella reale, più connotativa in base al numero delle interrelazioni che essa provoca.
Per questo alla fine i social sono il teatro degli antipodi: in vari studi delle interrelazioni sociali attraverso la rete si evidenzia che nessuna scala di grigi può servire a fornire o corroborare un’esistenza espressa attraverso un tweet o una chat, ma solo bianchi e neri, pollici recti o pollici versi. La condivisione è il vero lasciapassare della nostra continua iniziazione all’esistenza, l’unica possibilità di lasciare una traccia della nostra vita rendendola condivisa socialmente con altri “amici”, “follower” o “utenti” che si accorgeranno di essa leggendo un nostro post, vedendo un’immagine o un video e lasciando a loro volta traccia del loro passaggio nel corpus della nostra esistenza solo grazie a quei like espressi in varie forme.
Comunico ergo sum, verrebbe da dire parafrasando Cartesio, se non fosse che adesso l’interazione non passa nemmeno più dal piano della comunicazione (cioè dei contenuti), ma già da quello della semplice ed elementare trasmissione (cioè del contenitore). Il riconoscimento è un bisogno così sentito che si è sviluppata una nuova necessità, sintetizzabile con una frase di Bauman: “Si parla di me, dunque sono”. 6)
In questa dimensione chiaramente narcisistica, la vita dell’avatar che abbiamo creato sui social trova quindi alimento unicamente dalla condivisione degli altri: noi esistiamo solo se gli altri si accorgono di noi e magari approvano ciò che postiamo. Quindi, dalla consapevolezza della nostra esistenza attraverso i sensi della nostra naturale corporeità, siamo ormai arrivati a ri-pensare a noi stessi solo attraverso la continua sperimentazione dell’accettazione degli altri: più sono questi altri, più reale appare la nostra esistenza nella logica della community, nella quale immediatamente ci fondiamo e ci con-fondiamo con l’esistenza degli altri utenti in un continuum che tende all’infinito. Ma questa realtà rimane virtuale nel momento stesso in cui nasconde la doppia possibilità del nostro “essere” con il “poter essere”.
Ma creare o fare parte di un gruppo significa condividerne le finalità e le regole; significa anche pensare come gli altri o in maniera simile a quell’insieme di altri di cui chiediamo narcisisticamente l’approvazione e la condivisione, e a cui diamo analoga approvazione e condivisione; significa avere un pensiero collettivo che accumuna tutti i suoi membri, grazie ai quali le esistenze parallele trovano la forza di diventare esistenza collettiva, quindi gruppo sociale, seppur virtuale, ma con una forza espressiva come se si trattasse di una tribù o di un clan reale: l’intenzione del gruppo di comunicare (e di realizzare) qualcosa spinge a sua volta un individuo a compiere delle azioni collettive e collettivizzanti. Pensando tutti nello stesso modo è più facile agire per l’interesse del gruppo, mentre pensando in maniera diversa si è fuori, spesso irrimediabilmente e definitivamente. Si è soli: quindi non si è.
L’importante è appartenere
Al di là dell’ossessione narcisistica, la questione dell’identità va a questo punto esplorata nella dinamica collettiva, ossia nel rapporto che il sé ha con il gruppo sociale di cui fa parte. Nei social network avviene proprio questo continuo raffronto tra un mondo personale (quello del proprio diario) e un mondo collettivo (quello della rete sociale in cui l’utente si esprime e compie le azioni). Esattamente come nella realtà fisica, anche nella virtualità ibrida l’io proietta il proprio sé in un insieme, un “altro generalizzato”, ossia in una “forma [con cui] la comunità esercita il suo controllo sulla condotta dei singoli membri; perciò è in questo modo che il processo sociale o la comunità si inseriscono come fattore determinante nel modo di pensare dell’individuo”, come aveva chiaramente evidenziato nella società reale già prima della metà del ‘900 uno dei padri della psicologia sociale, George Herbert Mead. 7)
Esiste, quindi, una relazione dialettica tra l’individuo e il gruppo sociale di cui egli è parte, anche se virtuale, che consente al primo di modellarsi e di modificarsi a seconda del ruolo e delle esigenze espresse dalla comunità, anche se questa è a sua volta virtuale, ma espressione di un insieme di individui reali. In pratica, l’individuo vede se stesso tramite il suo riflesso negli altri, avendo quindi la percezione e la visione di un suo doppio, e così spesso si adegua a ciò che gli altri si aspettano dai membri della comunità di cui egli stesso fa parte per non rimanerne escluso e tornare “invisibile”.
I social network, nell’àmbito di personalità con patologie narcisistiche complesse, sembrano avere quindi lo scopo di operare un processo adattivo creando, di fatto, una riflessione in più sul proprio sé: il profilo di una persona che opera nel mondo social, di fatto, è un’immagine di sé che il soggetto cura continuamente e che cerca di migliorare e arricchire ogni volta che accede alla rete. Questo medium agevola per certi versi la costruzione identitaria, poiché, a differenza della realtà, l’individuo può vedere il suo sé modificandolo continuamente (e a suo piacimento), fino a quando ritiene che sia il più vicino possibile all’ideale che ha in mente o che ritiene che gli altri si aspettino.
Il mondo virtuale permette di operare un continuo rimbalzo che media, a sua volta, tra il sé percepito e il sé reale (e virtuale) emanando o ricostruendo un’immagine-rappresentazione di sé come altro sé ideale.
Il processo di rispecchiamento, quindi, avviene non dal vero, ma attraverso il filtro della ricostruzione e del rimando della ri-mediazione tecnologica. Il medium raddoppia per così dire il mio sé, poiché il profilo (di Facebook, X, eccetera) è, al contempo, un io che modello e completo di volta in volta, come un puzzle in divenire, e un me che mi rappresenta nel social network stesso di cui faccio parte; ma di cui faccio parte proprio come elemento di un gruppo sociale in cui mi riconosco e in cui vengo riconosciuto, pena l’oblio, anticamera della morte virtuale (che potrebbe poi spingere il singolo perfino al proprio suicidio reale).
A livello sociale il contributo che può quindi offrire l’analisi antropologica si caratterizza nel riconoscimento di una fragilità narcisistica di fondo della società o di un determinato gruppo sociale. Una fragilità che genera nei singoli la paura di restare soli, di non essere apprezzati o riconosciuti perché non sono o non si ritengono all’altezza delle aspettative degli altri, siano essi i propri familiari, gli amici, i compagni di scuola o comunque gli altri in generale facenti parte dell’universo della rete davanti alla quale si espongono come in una vetrina, il cui scopo è quello di invitare gli altri a essere in qualche modo “ammirati”.
Né va dimenticato che l’ambiente post-moderno dell’occidente ci porta a stare in metropoli dove si vive spalla a spalla con decine di migliaia di sconosciuti, sovraffollato di individui senza volto come i tanti personaggi che popolano i dipinti di René Magritte. L’individuo vive anche nell’angoscia di perdere continuamente (o di aver già perso) la speranza di fare la differenza rispetto agli altri, sempre che gli altri non siano visti addirittura come nemici. Evidentemente è in quest’ottica che i social rappresentano, non solo per le nuove generazioni, un’opportunità, inesistente nel passato, anche di sperimentarsi perfino in diversi ruoli e in identità molteplici, e di essere riconosciuti come soggetti autonomi o guide di gruppi sociali che ne imitano le azioni e i pensieri, o più banalmente ne approvano i post.
Varie ricerche sociologiche condotte sui nuovi media hanno messo in evidenza che sono proprio le persone più sensibili al giudizio altrui, bisognose di approvazione, con un’autostima più fragile e quindi di fatto più narcisiste perché psicologicamente più vulnerabili, a passare più tempo sul social: una conferma, questa, del fatto che la personalità condiziona il comportamento non solo nella vita reale ma anche in quella virtuale.
L’interazione tra mondo reale e mondo virtuale coinvolge, come già detto, il bisogno di approvazione. Per una persona che si considera esteticamente piacevole o bella (o che ricorre anche a lifting e chirurgia estetica per raggiungere tale scopo) sembra questo l’ago della bilancia che fa propendere per sottoporre il proprio corpo al giudizio altrui, pubblicando continuamente immagini di sé. Al contrario, la scelta di isolarsi, restando a guardare senza pubblicare alcuna foto, è da intendersi come un ulteriore sintomo di una non accettazione della propria fisicità corporale.
Appare chiaro che ci troviamo quindi di fronte a un ampio e veloce proliferare di nuove situazioni di patologia psicologica, che talvolta creano legami anche con patologie sul piano prettamente sociale e medico, con autolesionismi corporali, disturbi dell’alimentazione o della personalità che non sono più curabili soltanto sul piano della clinica psicoterapeutica, ma che investono àmbiti psichiatrici, neurologici, e persino oculistici, cardiocircolatori, gastroenterologici, eccetera.
Nelle situazioni più gravi, quindi, è anche il corpo fisico a subire gli effetti delle nuove forme di narcisismo, e persino delle forme di una nuova bipolarità, inesistente fino a pochi anni fa, che ha costretto le scienze della salute a rinnovare ulteriormente il quadro dei propri interessi e dei propri interventi per trovare rimedi per la salute fisica oltre che mentale degli individui. Tutto ciò rende ancora più chiaro lo stretto legame tra l’individuo e il gruppo sociale (reale e/o virtuale) con il quale egli vive nella realtà effettiva e materiale o in quella digitale, soprattutto quando il soggetto acquisisce quest’ultima come preponderante del sé e dell’altro-da-sé.
Non deve quindi meravigliare se, insieme alle terapie mediche e alla psicoterapia, anche l’analisi antropologica sia stata costretta a tessere in tutta fretta un nuovo ordito di interazioni intervenendo nel nuovo scenario: dietro il modello narcisistico dei moderni Dorian Gray sta uno stuolo di pazienti vulnerabili affidati alla psicologia e alla psichiatria, soprattutto laddove gli stessi pazienti non si riconoscono in tale ruolo, cioè non avvertono il loro stato di precarietà e di “malattia”, avvertito invece da genitori e altri familiari o da amici e conoscenti che hanno perso con tali persone i loro contatti abituali.
Ma dietro la parabola di Dorian Gray c’è, in seno all’analisi dell’antropologia sociale, una più grande ed evidente parabola di decadimento di una civiltà forse inconsapevole di questa sua decadenza, che in certi casi sembra aver affidato alle figure degli e delle “influencer” persino le sue sorti reali.
Tuttavia, separare narcisisticamente la propria vita reale dalla vita apparente costruita ad arte non è affatto una soluzione, dato che si rischia di inabissarsi in essa, annegando nel proprio declino (e di esempi reali ne abbiamo di recenti!): un declino che, però, non è solo di tipo personale e individuale, ma anche e soprattutto sociale e culturale, e che investe sempre più in modo preoccupante il nostro mondo. Un occidente sempre più in crisi di identità e di valori che sembra vergognarsi del proprio passato e delle proprie peculiarità e diversità (che ne costituirebbero nella realtà la storica forza propulsiva), ancora convinto ideologicamente della propria superiorità morale rispetto alle altre culture e alle altre aree geopolitiche mondiali, ma destinato invece lentamente a decadere ineluttabilmente, annullandosi eppur mostrandosi felice della propria progressiva perdita di identità.
N O T E
1) L’era del narcisismo, Milano 2012.
2) Riflessioni del sé. Esistenza, identità e social network, “Media Education”, vol.5, n.2, anno 2014.
3) Ibidem.
4) Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre di più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Milano 2012.
5) Op. cit.
6) Modernità liquida, Cambridge 2000.
7) Mente, sé e società, Chicago 1934.