Di fronte ai tragici eventi che avevano insanguinato l’Orissa con epicentro nel distretto di Kandhamal, prima nel 2006, poi nel dicembre del 2007 e nuovamente tra agosto e settembre 2008 (un centinaio di chiese e migliaia di case date alle fiamme, uccisioni e stupri ai danni della comunità cristiana, migliaia di sfollati), la scrittrice Arundhati Roy non era rimasta in silenzio. Già il 18 gennaio 2008, intervenendo a Istanbul alla commemorazione dello scrittore armeno Hrant Dink assassinato un anno prima, aveva tracciato un quadro drammatico del conflitto in atto. Ricordando anche alcuni precedenti.
Per esempio come già “nel 2002 nello Stato del Gujarat è stato commesso un genocidio contro la comunità musulmana”. A innescare quella tragica sequenza di uccisioni, l’incendio di un vagone ferroviario – senza che si potesse stabilire con certezza se casuale o doloso – in cui erano morti più di cinquanta pellegrini indù. Immediata era scattata la rappresaglia da parte delle milizie del Vishwa hindu parishad e del Bajrang dal.
Oltre duemila musulmani vennero massacrati. E circa centocinquantamila gli sfollati – ricordava la scrittrice – vivevano ancora in “ghetti senza acqua, né fognature, né illuminazione stradale, né assistenza medica, mentre i loro assassini, civili e poliziotti, sono stati ricompensati”.
Eppure, sosteneva Arundhati Roy, “questo stato di cose è considerato normale, tanto che nel 2004 sia Ratan Tata sia Mukesh Ambani [due tra i più potenti industriali indiani] hanno indicato il Gujarat come meta ideale degli investimenti finanziari”.
Naturalmente quello del Gujarat non era il primo massacro contro una minoranza religiosa commesso in India. Nel 1984, per esempio, a Delhi vennero uccisi impunemente oltre tremila sikh.
Per questo Roy si chiedeva: “L’India di oggi, apprezzata ovunque come un miracolo di progresso e di democrazia, sta forse per commettere un genocidio?”. L’uso del termine poteva apparire “ingiustificato”, “eccessivo”, come sostenevano alcuni commentatori, ma se si affermasse definitivamente l’idea che questo modello di progresso (quello che prevedeva per l’India un tasso annuo di crescita economica del 10%) non ha alternative “gli zar dello sviluppo, per attuarlo, saranno costretti a uccidere e su vasta scala”.
Aggiungendo che “a leggere le notizie, sembra che le uccisioni e le morti siano già cominciate”.
Esprimendo la medesima consapevolezza della gravità della situazione, nell’ottobre del 2007 circa ventimila dalit (la casta degli “intoccabili”) e adivasi (le popolazioni tribali), dopo un mese di marcia, avevano occupato pacificamente la città di Delhi. Avevano percorso centinaia di chilometri da quando erano partiti da Gwalior nel Madhya Pradesh e per tutto il percorso avevano scandito: “Hal karo, bhai, hal karo, zameen ki samasya hal karo” (risolvete, per favore, risolvete il problema delle terre).
Nonostante negli anni precedenti sia i dalit sia gli adivasi avessero usufruito di quote riservate negli impieghi pubblici e nelle università, una soluzione definitiva appariva ancora molto lontana. Anzi, la “discriminazione positiva” talvolta aveva fatto sorgere nuovi problemi e contraddizioni.
Per esempio con la casta dei servitori (sudra), numericamente maggioritaria e determinante a livello elettorale, raccolti sotto la denominazione OBC (Other Backward Class) come i powar e i kalar.
Addirittura, c’erano stati casi di suicidio tra i membri delle caste alte (che percepivano la riduzione di privilegi e “diritti acquisiti” come un’imprevista ingiustizia), e soprattutto nuove “guerre tra poveri” per stabilire gli aventi diritto. Era questo il caso del Rajasthan dove – ancora nel 2007 – negli scontri tra gujjare e meena si erano contati decine di morti.
Le quote dei gujjare, ex pastori, si erano sensibilmente ridotte dopo il declassamento dei piccoli proprietari jaat. Allora i gujjare avevano chiesto di potersi autodeclassare a scheduled tribe (tribù aborigena). Ma in tal modo si sarebbero ridotte le percentuali di meena e bhil. Da qui l’origine degli scontri violenti.
Atrocità contro i dalit
Secondo l’ufficio nazionale d’investigazione del ministero degli Interni, nel solo 2005 si erano verificati ben ventiseimila casi di atrocità contro le caste inferiori. In seguito le cose non devono essere cambiate di molto se ogni ora – mediamente – due dalit vengono ammazzati, due donne dalit violentate e due delle loro abitazioni date alle fiamme. Per non parlare delle semplici aggressioni. Quanto a quelli che possiamo classificare come massacri veri e propri di intere comunità, nel 1997, nello Stato del Bihar, la milizia Ravir Sena, sostenuta dai proprietari terrieri, aveva ucciso sessanta dalit nel villaggio di Laxmanput Bathe. Tra le vittime, ventinove donne e sedici bambini. Due anni dopo, nel 1999, la stessa milizia si rendeva responsabile dell’uccisione di 23 persone a Shanker Bigha e di altre 12 a Narayanpur.
Nel 1993 erano stati bruciati vivi 17 dalit a Kumber (Rajastan) mentre più recentemente, nel 2006, almeno dieci erano stati linciati a Khairlanji (Stato del Maharastra). Com’era prevedibile, entrambi i crimini sono rimasti impuniti.
Violenza anche contro i cristiani
Nel 2006 una nuova ondata di violenza si era rivolta soprattutto contro i cristiani e, dopo l’Orissa, si era estesa anche all’Utar Pradesh. I morti si contavano a decine, mentre a migliaia si erano rifugiati nei campi profughi o si erano nascosti nelle foreste.
A far da detonatore in questo caso era stata l’uccisione (23 agosto 2006) in un ashram di Swami Lakshmanananda, leader del movimento Vishwa hindu parishad. Insieme all’esponente religioso erano stati uccisi due suoi figli e tre fedeli indù. Molto probabilmente si trattava di una vendetta, di una ritorsione. Solo qualche mese prima (dicembre 2005) nella parte nord-orientale dell’India erano state bruciate più di cinquanta chiese e oltre 600 abitazioni, ed era apparso evidente che i responsabili appartenevano alla milizia induista Dharma Sena (“esercito della religione”).
Si ritiene che i cristiani in India non superino il 2,4% della popolazione, circa 30 milioni di persone di cui 18 milioni cattolici. Nell’Orissa, nel 1999 era stato assassinato insieme ai suoi due figli un missionario australiano, Graham Staines. Altri religiosi erano poi stati uccisi o rapiti negli anni successivi.
Tra i principali sostenitori del nazionalismo identitario indù troviamo il Rashtriya swayamsevak sangh (organizzazione nazionale dei volontari). L’RSS predica l’hindutva (la supremazia indù) e con oltre un milione di militanti sarebbe in grado di condizionare anche uno dei maggiori partiti indiani, il Bharatiya janatha party, ora al potere e che aveva già governato il Paese dal 1998 al 2004.
Ma gli attacchi contro i cristiani del 2007-2008 non sono quelli definitivi. Stando a quanto denunciava un rapporto del gennaio 2012 del Catholic Secular Forum, anche nel 2011 centinaia di cristiani (2141 i casi riportati) subivano persecuzioni e aggressioni, quasi sempre da parte degli estremisti indù. Così nel 2012 e più recentemente nel 2015, quando altre chiese venivano colpite a Delhi. In qualche caso, come quella di San Sebastiano, letteralmente distrutte.
Nel marzo 2015, nel Bengala occidentale una suora venne violentata e la cappella di una scuola cattolica saccheggiata. Nello stesso anno si verificarono ancora assalti contro le chiese sia nello Stato del Haryana sia a Bombay (con il ferimento di alcuni fedeli presi a bastonate) e nello Stato del Chhattisgarh.
Nel 2016 la media degli attacchi giornalieri contro persone o istituzioni cristiane risulta di circa 40.
“Persone superflue sedute su risorse preziose”
Negli ultimi decenni in India la retorica nazionalista è cresciuta in sintonia con l’ampliamento di un ceto medio benestante (i “nuovi ricchi”, favoriti dalla svendita ai privati delle risorse naturali e delle infrastrutture pubbliche) che spesso è anche sostenitore dell’hindutva. A colpi di sentenze, la Corte suprema ha permesso la realizzazione di enormi dighe e collegamenti tra fiumi con effetti devastanti per l’ambiente e con la distruzione dei sistemi idrici. La costruzione delle grandi dighe inoltre ha provocato l’allontanamento dalle loro case di oltre trenta milioni di persone. L’estrazione massiccia di minerali e la realizzazione di nuovi impianti industriali ha alimentato ulteriormente la deforestazione.
Risultato: un autentico e ripetuto ecocidio. 1)
“I nuovi ricchi”, scriveva con amara ironia Arundhati Roy, “vedono gli adivasi seduti sulle montagne dell’Orissa ricche di bauxite, sul minerale di ferro dello Jharkhand e del Chhattisgarth. Vedono gli abitanti di Nandigram (musulmani e dalit) seduti su terreni di prima qualità che sarebbe bello trasformare in un polo industriale chimico. Ma soprattutto vedono persone superflue sedute su risorse preziose”.
“Superflue” e “preziose” in base ai parametri del capitalismo, ovviamente.
Finora a essere emarginati sono stati soprattutto gli adivasi, i dalit e i musulmani. I dalit in particolare, “grazie” alla tecnologia, sono ormai diventati un grande esercito di riserva, mano d’opera superflua, esuberi.
L’RSS soffiava e ancora soffia sul fuoco alimentando i conflitti tra dalit e musulmani, tra adivasi e dalit, tra indù e cristiani. In molti casi, contro le popolazioni che si opponevano alla costruzione di dighe o di grandi impianti industriali sono intervenute, oltre alla polizia, anche le milizie filogovernative. Comprese talvolta quelle del partito comunista, fautore dell’industrializzazione a ogni costo (e qualche funzionario ha accusato maoisti e adivasi di “luddismo”).
Nel sottosuolo di Orissa, Ghhattisgrh e Jharkhand si trova il 40% delle risorse minerarie dell’India:
amianto, bauxite, rame, pirite, grafite, mica, manganese, uranio, oro, ferro e carbone di prima qualità. Migliaia di ettari di terra sono scomparsi, o sono destinati a scomparire, per fare posto a mega impianti industriali, dighe, centrali idroelettriche. E con le foreste e le colline, anche gli indigeni dovranno scomparire, andarsene.
Per il docente universitario Ram Dayal Munda, “un quinto della nostra popolazione indigena (circa 20 milioni su 60) è perso, in giro per le strade, inghiottito negli slum. Un patrimonio di culture e identità che non c’è più”.
Possiamo quindi dire – come sosteneva Arundhari Roy in tempi non sospetti – che i rischi di genocidio sono reali. Anche senza l’uso delle armi. È sufficiente sradicare le popolazioni dai loro territori ancestrali, deportarle in qualche “riserva” o in “campi protetti”, limitandone l’accesso al cibo e all’acqua. In parte è quello che è già capitato e sta accadendo.
Attualmente l’India ha una popolazione di “sfollati” (rifugiati interni) inferiore soltanto alla Cina. In passato nello Stato del Chhattisgarh, ricco di giacimenti di ferro, sono state evacuate oltre 40mila persone con il pretesto della presenza dei ribelli maoisti (i naxaliti). Deportati in campi gestiti dalla polizia, una parte degli sfollati veniva arruolata in una “milizia popolare di autodifesa” (Salwa judum).
E così “mentre i più poveri combattevano tra loro in una condizione simile alla guerra civile, i gruppi Essar e Tata negoziavano senza clamore i diritti di estrazione del ferro nel Chhattisgarh”.
Una ben orchestrata “strategia della tensione” (e sarebbe riduttivo definirla “a bassa intensità”) per riprendere il controllo della “tribal belt” e in particolare dell’Orissa, dove gli adivasi sono numerosi e, purtroppo per loro, “stanno seduti sulle montagne ricche di bauxite.
N O T E
1) Gli adivasi, le popolazioni indigene della “cintura delle foreste” dell’India centrale (detta anche “cintura tribale”) non rischiano di perdere soltanto linguaggio e identità. In gioco è la loro stessa sopravvivenza. Su questi territori infatti si è posata la cupidigia delle multinazionali, desiderose di impossessarsi dei ricchi giacimenti di minerali grazie ai Memorandun d’intesa (Mou) stipulati con il governo. Tra i casi più drammatici, le colline dell’Orissa abitate dai kondh e ricche di bauxite. E, come per la biodiversità e le lingue ancestrali, altre due mappe coincidono. Quella della “cintura tribale” si sovrappone al “corridoio rosso”.
Da decenni infatti la resistenza degli adivasi opera in sintonia con i guerriglieri maoisti del Pci-m, conosciuti come “naxaliti” dal nome di un villaggio dove negli anni sessanta iniziò la rivolta contadina.
Qualche tempo prima di essere ucciso dai paramilitari (il 24 novembre 2011 nel distretto di Purulia), il loro leader Koteswar Rao aveva chiesto alla scrittrice Arundhati Roy, molto attiva in difesa degli oppressi e delle minoranze, di svolgere un ruolo di mediatrice con il governo.
Contro naxaliti e tribali nel dicembre 2009 veniva avviata una campagna militare (rispettivamente di sterminio e di deportazione) denominata “Caccia Verde” con l’impiego di più di 75mila soldati.