Visita ai Kalash, ultimi superstiti di un’etnia non ancora islamizzata
Kafir, cafiro, parola araba (modificatasi in Gavur, Ghiaur, in turco) è un termine esteso quanto è esteso il mondo islamico, ed ha un preciso significato spregiativo: vuol dire pagano, infedele, idolatra. È il contrario esatto di Musulman, credente. Dal significato di infedele, la parola sconfina in senso lato a significare malvagità, disonestà, eccetera.
“Ma tu sei un musulmano o un cafiro?” domanderemo indignati al mercante che ci ha chiesto un prezzo esoso.
Anch’io, a rigor di logica, sono un Kafir per i miei conoscenti musulmani; ma non si permetterebbero mai di usare un simile termine con me, amico e ospite; ché sarebbe maleducazione grave.
Quanto ai Kafiri delle montagne, ne parlano con tollerante compatimento: gente strana, matta. E non capiscono proprio come io mi sia scomodato a venire da tanto lontano e mi accinga ad un viaggio ancora lungo e faticoso per andarli a vedere. Kafiristan è una piccola regione tra le montagne a sud del Pamir, a occidente del fiume Chitral, divisa in due dalla linea di confine tra Afghanistan e Pakistan, dove abita una misteriosa popolazione, una minuscola minoranza etnica che conserva immutata una propria religione politeista, che ha usi e costumi propri, una lingua propria, spesso molto diversi da quelli delle popolazioni confinanti.
Kafiristan: terra degli infedeli, terra dei pagani. E il primo motivo di meraviglia è proprio questo: che, circondati da popolazioni musulmane, abbiano potuto sopravvivere indisturbati con la loro religione politeista per circa un millennio.
La linea di confine tra Afghanistan e Pakistan, dicevamo, taglia il Kafiristan in due. È un confine puramente politico, la linea Mortimer Durand, risultato da un compromesso diplomatico tra gli Afghani e l’allora Impero Britannico in India. Tracciato nel 1893, è da ottant’anni sotto accusa per i problemi creati dalla sua drasticità salomonica; ma non si è trovato ancora il modo di proporne uno migliore.
Ad occidente della linea Durand il Kafiristan afghano è stato violentemente islamizzato nel 1896. Una conversione religiosa in massa, sulla punta delle baionette: una brillante operazione militare di quaranta giorni compiuta dall’Emiro Abdur Rahman, il primo sovrano creatore di uno stato veramente unitario nella storia dell’Afghanistan. Profondamente convinto dei suoi doveri di Difensore della Fede, oltre che dei suoi diritti di sovrano assoluto, Abdur Rahman cancellò persino il nome del Kafiristan trasformandolo in quello di Nuristan, paese della Luce; dove per Luce (Nur) si intende ovviamente quella della fede islamica portata tra quelle valli sperdute. Oggi il Nuristan, pur conservando ancora molti segni della cultura originale, soprattutto nell’architettura e nell’artigianato, ha perduto completamente il ricordo di quella che fu la sua religione; e con quella, si sono perduti interamente gli usi e i costumi, sostituiti dal costume islamico. E solo dall’altra parte del confine, in territorio pakistano, che sono rimasti gli ultimi veri Kafiri, gli ultimi pagani. Birir, Rumbur, Brumburet, sono i nomi delle tre valli dei Kafiri. Sembrano nomi scherzosi, inventati; starebbero bene nella geografia dei viaggi di Gulliver.
E anch’io mi sento un poco Gulliver, partendo da Ayoun il mattino di buon’ora con lo zaino in spalla, sul sentiero indicatomi da Mohammad Ali Jinnah.
Una giornata intera di marcia ci vuole tutta, per raggiungere la valle di Brumburet. Ma non è una marcia faticosa, perché il sentiero si snoda nel verde, a mezza costa, ombreggiato da alberi.
E’ incredibile il verde di queste valli, confrontato con le montagne brulle e i deserti del vicino Afghanistan. Le pendici dei monti sono ricoperte di boschi di conifere e di agrifoglio (il nostro pungitopo natalizio, esteso in dimensioni di foresta) mentre la terra è intensamente coltivata. Risaie, campi di grano e granoturco, e prati di un verde smagliante; l’acqua è fresca e abbondante, e l’uomo ha saputo utilizzarla con un lavoro di ingegneria idraulica sapiente e capillare: un complesso sistema di canaletti, mormoranti ruscelli che fanno compagnia al viaggiatore.
Nei villaggi e lungo i sentieri, alberi da frutta: meli, albicocchi e soprattutto gelsi e noci molto più sviluppati che da noi, grandi come quercie secolari, dispensatori di un’ombra generosa.
È un paesaggio che ricorda incredibilmente i verdi pascoli di Irlanda.
I villaggi Kafiri sono seminascosti nel verde, sotto il fogliame dei noci e dei gelsi; e a tutta prima deludono, perché in fondo hanno l’aria di villaggi come gli altri.
E i primi uomini che si incontrano sono vestiti, anche loro, come gli altri: con i larghi pantaloni di cotonata grigia e il camiciotto lungo sino al ginocchio, e con il berretto rotondo di panno, il Pacol, che è il copricapo universale in tutte le valli del Chitral. È solo entrando nei villaggi che si cominciano a scoprire le differenze, a vedere le cose inconsuete; come i Gundurik di Brum, ad esempio, feticci di legno di sapore vichingo, strane figure umane sedute su un tronetto, piantate ai lati del sentiero all’ingresso del villaggio.
È il primo incontro con gli idoli, ed è un incontro emozionante, che segna l’istante del mio ingresso nel paese dei pagani.
La prima parola che apprendo della lingua cafira è il saluto, Ispaàta: qui non si usa l’augurio “la pace sia con te”, Salaam Aleikum, valido in tutto il mondo musulmano dall’Atlantico all’India.
Poi, imparo il nome vero dei Kafiri: Kalash.
La vita del villaggio
Il Giastakan è il tempio del villaggio. E una costruzione di legno a un piano solo, come la maggior parte delle case, un po’ più ampio all’interno, con il soffitto retto da un ordine di colonne di legno tutte scolpite a figurazioni geometriche. Al centro della sala, un focolare in pietra al quale corrisponde un’ampia apertura quadrata sul soffitto.
“Tempio” è una designazione approssimativa per indicare il Giastakan, che in realtà non è la sede per il rito religioso vero e proprio, il sacrificio degli animali, ma è destinato a diverse altre funzioni rituali, tra cui quella di ospitare le danze d’inverno, quando il tempo è cattivo e non si può stare all’aperto.
Comunque, è il Giastakan che assolve la funzione di foresteria, ed è nel Giastakan che io vengo ospitato, autorizzato a sistemare in un angolo il mio zaino e a distendere il sacco a pelo per la notte.
Altro edificio importante del villaggio è il Bashalì, il gineceo, la casa dove le donne si ritirano nei periodi in cui sono considerate impure: durante le mestruazioni, e negli ultimi giorni della gravidanza. È nel Bashalì, dove nessun uomo può mai entrare, che le donne partoriscono.
A parte i brevi ritiri nel segreto del Bashalì, la condizione della donna presso i Kalash (chiamiamoli cosi, piuttosto che Kafiri) è completamente diversa da quella presso i Musulmani. La donna non è segregata, non è tenuta nascosta, è inserita nella vita del villaggio in tutte le manifestazioni. Le ragazze ridono e scherzano liberamente con i ragazzi, partecipano alle danze, e vi partecipano anche le spose.
E proprio qui tra i Kalash che possiamo comprendere meglio come la segregazione della donna abbia condizionato il mondo musulmano. L’Islam non è solo un fatto religioso, è anche un fatto di costume, tutto un modo di vita ben individuato, ben preciso; senza la segregazione della donna sarebbe molto diverso. Ed è diverso, per i Kalash. A cominciare dalla casa che, non più vincolata a custodire severamente la privatezza della famiglia, può fare a meno di tutto il dedalo di muraglie e muretti tipico del villaggio musulmano, può liberamente aprirsi verso l’esterno e verso le altre case.
Il villaggio Kalash generalmente si articola su per il pendio della montagna con un sistema a scalini dove il tetto di ogni casa, ricoperto in terra battuta, fa da aia e da piazzaletto alla casa che sta sopra.
Le case sono in legno, arricchite da eleganti decorazioni a intaglio sugli architravi, sugli stipiti, sulle porte; ed anche all’intemo c’è qualche suppellettile in legno, principalmente la seggiola, oggetto che sorprende per la sua esoticità in un mondo che ha sempre conosciuto solo il tappeto e il cuscino.
Si tratta di sgabellotti bassi, con il sedile in strisce intrecciate di pelle di capra e con iperbolici schienali alti ed elaborati.
Queste sedie, dove il gusto Kalash per intagliare il legno si sbizzarrisce liberamente, rispettano sempre un loro schema geometrico preciso, una forma non priva di solennità, quasi un tronetto.
Siedo anch’io su uno di questi tronetti, cenando, la sera, a casa di Bumbur, uomo di spirito intraprendente che si è specializzato nel dare ospitalità agli stranieri (ne arrivano abbastanza spesso, tra queste valli, spinti dalla curiosità di venire a vedere i Kafiri) e così si guadagna qualche rupia.
Si cena fuori, davanti a casa, sul piazzaletto-terrazza costruito sul tetto della casa sottostante. Dentro, le donne si danno un gran da fare, nella stanza tutta piena di fumo da far lacrimare gli occhi, a cuocere i Chapati, focaccette sottili e mollicce (il piatto base di quasi tutto il mondo indiano) fatte impastando senza lievito un po’ di farina integrale di grano o granoturco, e cuocendole all’istante su una piastra di ferro arroventata dal fuoco. Per condirle, una scodellina con un intingolo vegetale fortemente pepato.
Dalla differenza di età, le donne si direbbero madre e figlia; invece sono le due mogli di Bumbur. E questo, appunto, è l’uso: si prende una seconda moglie – se i mezzi economici lo consentono – quando la prima non è più giovane. Più avanti negli anni, magari, se ne prenderà una terza. Come compenso morale, la prima moglie conserva i privilegi e il rango di padrona di casa, e avrà diritto alla sottomissione ed alla obbedienza della nuova sposa. Le due donne, insomma, staranno fra di loro all’incirca come suocera e nuora, accettandosi reciprocamente con una “disciplina da necessità” che le donne dei popoli poligami devono avere imparato, per amore o per forza, attraverso i secoli.
La poligamia dei Kalash non è sostanzialmente diversa da quella dei musulmani. Quello che è diverso è che la donna è libera di muoversi, non sta nascosta; è cosi che anch’io le posso osservare, le mogli di Bumbur. Posso parlare con loro, ed anche scambiare qualche sorriso, senza commettere indiscrezione. Bibi è il nome con cui ci si rivolge ad una donna; come dire Madame, signora. Stranissimo è l’abito delle donne Kalash. Mentre gli uomini vestono sostanzialmente alla stessa maniera dei Musulmani (salvo per un piccolo particolare distintivo: un ornamento – fiore, nastrino, fiocco, o altra bagatella – che gli uomini Kalash portano sul Pacol, il berretto di panno) le donne hanno un loro costume rigorosamente uguale, quasi una uniforme, che è diversissimo da quello delle donne musulmane.
Vestono un robone monacale di ruvido panno marrone tessuto in casa, stretto in vita da una fascia colorata. A riscattarlo dalla sua severità, portano al collo una gran dovizia di collane e collanine, soprattutto di corallo; e in testa, portano un prezioso copricapo fatto dello stesso panno sul quale stanno cucite, in file fìtte una accanto all’altra, tante conchigliette.
Sono conchiglie del genere Ciprea, di dimensioni rigorosamente uguali (se appena più grosse, non sono buone, si scartano) di quella stessa specie che popoli primitivi in altre lontane parti del mondo usavano, e alcuni ancora usano, come moneta.
E doveva essere così anche per i Kalash, in un passato non lontanissimo, se ancora oggi la conchiglia ciprea assolve la funzione di cosa preziosa, e se le donne si ricordano con precisione la esatta misura necessaria perché la conchiglia abbia valore. Non diversamente le donne di molte tribù persiane o afghane portano monili fatti di monetine di argento o di rame cucite assieme in pesanti medaglieri.
Isolati vivono i Kalash nelle loro montagne, oggi. Ma ancora più isolati devono essere stati in passato; è la sola condizione che possa spiegare la loro sopravvivenza di pagani idolatri nel cuore di un mondo islamizzatosi più di mille anni fa. Le loro valli si penserebbero ancora più montuose, ancora più inaccessibili di quanto siano in realtà.
Ma le conchigliette del copricapo femminile celano annidato un interrogativo, un dubbio sottile che viene a turbare questa immagine dei Kafiri chiusi nel guscio di uno scontroso isolamento.
Perché le conchigliette vengono ovviamente dal mare, da Karachi, dall’Oceano Indiano distante centinaia di chilometri dai Monti del Chitral. Frutto, quindi, di scambi e commerci con i musulmani. Viene spontaneo cercare di calcolarne il valore in termini di capre, o galline, o ceste di noci, o staia di riso e granoturco…
Brum è il villaggio più importante della valle di Brumburet. Più a monte, risalendo il fiume, si incontra Batrik, e poi Krakal, e ancora più a monte Shekanandè.
Sono forse i ragazzi di Krakal, quelli che cantano. Hanno già cominciato le danze al primo calar della notte, prima ancora di quelli di Brum. Ma anche quelli di Brum non tardano, arrivano correndo, impazienti, ridendo.
Non c’è bisogno di una festa speciale, per le danze; è la stagione del raccolto, le notti sono dolci e tiepide, e danzare non costa nulla, basta trovarsi tutti sull’aia e cominciare a cantare.
Due o tre voci iniziano il coro, poi finiscono per venir dietro tutti; e chi sta terminando le ultime faccende cerca di sbrigarsi, preso dall’ansia di perdere momenti preziosi.
Arrivano correndo le ragazze tenendosi per mano, incepiscando nei sottanoni di panno, facendo tintinnare i sonagli dei berretti; e dietro a loro i ragazzi, a tirargli le trecce, ad allungargli nel buio qualche pizzicotto, subito ricambiato dal volar di uno schiaffone che moltiplica le risate, l’eccitazione, l’euforia.
Euforia come se stesse per succedere qualcosa di straordinario, come se qualcosa di meraviglioso fosse imminente nell’aria…
Per le danze, uomini e donne si prendono a braccetto a formare una catena, rompendola spesso e litigando alla ricerca del posto giusto, vicino al compagno o alla compagna voluta, o facendo le mosse di non voler questo o quella. Le baruffe scherzose si accendono anche quando il ballo è in movimento, la catena si è chiusa in circolo e gira tutto in tondo ondeggiando al ritmo del canto. Si canta tutti in coro, a molte voci; e si cerca di cantare forte, chè la voce volando sotto le stelle arrivi a farsi sentire lontano. A Batrik, a Krakal, e magari sino a Shekanandè.
Dev’essere vicino a mezzanotte quando si va a dormire. Gli ultimi canterini, rimasti ormai in pochi, cedono anche loro le armi e rientrano alle loro case alla spicciolata. Per rompere il buio nei punti più critici, basta la luce di un pezzetto di legno resinoso che brucia regolare come una candela; e anch’io mi arrangio facilmente a trovare la strada per il Giastakan, dove sono alloggiato.
Fantasmi nella foresta
Shekanandè, Batrik, Krakal… ognuno di questi villaggi ha in serbo qualcosa di particolare da andare a scoprire, nei giorni successivi, continuando con lo zaino in spalle il giro della valle. Ognuno presenta qualche tratto somatico nuovo, ed è mettendoli tutti assieme che mi si viene formando una fisionomia del mondo dei Kalash.
A Shekanandè ci sono case con bellissime decorazioni in legno scolpito; a Krakal c’è un cimitero nel bosco con numerosi Gandau, statue lignee con le figure dei morti, in grandezza naturale; vicino a Batrik c’è un Malash, una radura solitaria nel bosco dove sorge l’altare di Mahadeo; a Brum, l’altare di Mahadeo è in alto, su una roccia a picco sopra il villaggio.
In parallelo a queste scoperte, procede la graduale conoscenza dell’aspetto umano, la consuetudine con i Kalash, le loro facce, i loro nomi, il loro modo di parlare, di sorridere, di accogliere lo straniero.
I loro nomi, ad esempio, non hanno nulla a che vedere con i nomi musulmani. Tra i Kalash non c’è nessuno che si chiami Yussuf, Abdullah, Mohammad. Si chiamano: Baramoush, Tignole, Basmir, Malairum, Quyang, Bashok, Qughè, Maruk… Nomi, dei quali i musulmani ridono con compatimento. Come da noi a chiamarsi Filli, Amarilli, Titiro, o Melibeo, piuttosto che con nomi da cristiani.
I Kalash non mettono i loro morti sottoterra, ma li depongono in massicce bare di legno che rimangono fuori terra, all’aria; generalmente è nei boschi di agrifoglio che si trovano questi cimiteri. Una stessa bara serve più volte, per la famiglia.
Spesso i coperchi, fissati alla buona, col tempo e le intemperie si rompono, si aprono, e le bare rivelano allo sguardo il loro contenuto. Serenamente però, con innocenza, chè in genere si tratta di corpi rinsecchiti o mummificati, o già ridotti a scheletri e teschi: morti asciutti, puliti, che si possono guardare senza orrore, cosi come non provano orrore i merli e gli altri uccelletti che saltabeccano dentro e fuori le casse, cercando bacche tra le foglie secche.
Tra le bare, di dietro gli alberi, come sbucati silenziosamente dal bosco, gli occhi arcani dei Gandau, le statue dei morti.
Quello con i Gandau è forse l’incontro più emozionante in un viaggio nelle valli di Kalash.
I primi li vidi a Krakal; altri, assai più numerosi, li incontrai in seguito nella valle di Rumbur, in un bosco vicino al villaggio di Maladesh: Gandau più vecchi di quelli di Krakal, appartenenti ad un cimitero ormai abbandonato, sopravvissuti alle tombe.
Scomparse ormai le bare, rimasti i Gandau: solitari fantasmi in mezzo alla foresta, celati negli angoli più imprevisti, appoggiati agli alberi; in una radura, un personaggio in sella ad un cavallo con due teste, in un’altra, un consesso di personaggi tutti riuniti assieme come a tenere consiglio, all’ombra di un albero secolare. Non è per la bellezza della scultura che colpiscono, queste ingenue figure. E vero che spesso c’è una arcana espressività nei loro volti, nella incisività del taglio delle arcate orbitali nella cui ombra si intuiscono gli occhi; ma nel complesso sono fantocci goffi, rigidi, impalati.
Colpiscono proprio perché sono così primitivi; perché testimoniano una tradizione misteriosa e antichissima che per inspiegabili circostanze si è conservata in queste valli come ibernata, come in vitro, uguale a se stessa per mille anni.
Gli ultimi Gandau scolpiti qualche decennio fa sono uguali a quelli più antichi, conservati nei Musei di Peshawar e di Kabul, e portano in testa lo stesso strano copricapo a punta che sembra un elmo vichingo.
A tu per tu con lo Shaman
“L’ultima volta che ho visto Balumain è stato qualche anno fa. Era venuto sul suo cavallo bianco per andare a trovare Mahadeo, e mi ha parlato…”.
Così racconta il vecchio Shaman, seduto all’ombra di un noce mentre Peter ed io prendiamo appunti. E stata una ben fortunata circostanza che mi ha fatto incontrare tra queste montagne Peter Parkes, giovane etnologo inglese, e il suo interprete Abdul Samad che parla l’inglese altrettanto bene della lingua Kalash. Peter sta facendo uno studio sui Kalash per conto della Università di Cambridge; unendomi a lui posso partecipare al vivo delle interviste con la gente del posto, i notabili, gli anziani, gli shaman.
Come, ad esempio, il vecchio che ci sta ora raccontando la storia del suo incontro col dio Balumain.
Dotato di facoltà percettive extra- sensoriali o reali o presunte, lo shaman sta tra il sacerdote e il veggente. Non ha i poteri carismatici del sacerdote, ma assolve le funzioni di mediatore tra l’uomo e la divinità; è lui, quindi, che di volta in volta suggerisce quali sacrifici debbano essere fatti (quante capre, quanti agnelli) e quando per ingraziarsi le divinità nelle circostanze importanti come il matrimonio, l’attesa di un figlio, o l’imminenza del raccolto.
Ed è anche lo shaman a suggerire quale divinità sia più opportuno ingraziarsi in un caso, e quale nell’altro; perché le divinità dell’olimpo Kalash sono numerose.
Quali e quante siano non è facile capire, perché le notizie sono contraddittorie e confuse, e la conversazione procede – nonostante la abilità di Abdul Samad come interprete – tra le insidie di una logica che non è la nostra.
Si parla spesso di Mahadeo come della massima divinità. Il suo attributo sono i cavalli bianchi, e sono infatti quattro teste di cavallo che si trovano sempre sull’altare di Mahadeo, sfolgorante quadriga.
Ma il nome stesso Mahadeo non è un nome proprio; è un nome di origine Vedica in uso anche nella mitologia indiana col significato generico di “il grande dio”. E nei discorsi del nostro shaman, l’attributo di Mahadeo sembra cambiare spesso dall’una all’altra divinità.
È una teologia complessa, quella dei Kalash; e in luogo di faticare cercando di farla corrispondere a qualcuno dei nostri schemi (per esempio al modello di politeismo greco-romano) vale la pena di recepirla emotivamente, accettando immagini ed episodi senza tentare di organizzarli in un sistema.
Immagini, ad esempio, come quella del Malash di Batrik: l’altare di Mahadeo nella solitudine di una ombrosa radura nel bosco. O episodi come l’incontro del nostro vecchio shaman col dio Balumain.
Tutto rosso, ce lo descrive il vecchio. Non è chiaro se rossi erano gli abiti del dio, o anche la sua faccia, i capelli; il vecchio ignora le nostre domande di chiarimento e insiste nel ripetere che era tutto rosso, mentre il cavallo invece era bianco.
Fu l’ultima volta che il dio Balumain apparve sulla terra, e lo disse chiaramente allo shaman. Non intendeva tornare più nella valle di Brumburet perché gli uomini erano diventati cattivi, avevano preso l’abitudine di mangiare carne di pollo, animale impuro, e molti addirittura si erano fatti Musulmani. Aveva lasciato a lui, allo shaman, l’incarico di dirigere e consigliare gli uomini, cercando di farli ravvedere. Poi, era scomparso sul suo cavallo bianco, e da allora nessuno lo aveva più visto.
Sopravvivrà la loro cultura?
Chi sono dunque i Kalash, chi sono questi Kafiri? Ne discutiamo a lungo, Peter ed io, nelle nostre giornate nelle valli di Brumburet e di Rumbur. L’ipotesi della discendenza dai greci di Alessandro Magno, per quanto attraente, non è molto credibile. È vero che i soldati di Alessandro nella loro marcia verso la valle dell’indo passarono da queste montagne; ma, diversamente dalle orde mongole e tartare (i cui movimenti erano spesso vere migrazioni di popoli, con le tende, gli armenti, e le famiglie) i greci non si erano portati le loro donne dalla patria.
Se vi furono soldati greci che, isolati o anche a gruppi si fermarono qui, certamente si unirono con donne locali, e probabilmente la loro discendenza fu assorbita e amalgamata nel giro di poche generazioni. Non è facile credere alla conservazione attraverso i secoli, in un geloso isolamento, di un nucleo straniero formato all’origine di soli uomini.
D’altra parte, salvo il carattere genericamente politeista e i sacrifici di animali, non c’è nulla nella mitologia Kalash che ricordi quella greca, nessun nome che suoni anche alla lontana simile a quelli degli dei dell’Olimpo.
Quanto alla tradizione artistica, il contatto tra il mondo greco e quello asiatico ha lasciato una testimonianza molto valida e molto nota nella cosiddetta Arte del Gandhara. Nelle sculture provenienti da Taxila, da Moenjo Darò, e da tutti gli altri centri gandharici in Pakistan e in India, l’influsso greco salta all’occhio con sorprendente immediatezza: panneggi sinuosi, volti delicati su cui aleggia il sorriso, forme giovanili, proporzioni piene di armonia.
Nulla di tutto questo si ritrova nell’arte dei Kalash, che è pur tanto ricca e affascinante, ma con caratteristiche affatto diverse, tendente piuttosto alle linee dure e angolose, alle geometrie astratte, alla riduzione a schemi elementari.
Non è facile, quindi, accettare l’ipotesi della origine greca dei Kalash. Molto più convincente invece, e non meno suggestiva, è l’ipotesi che si tratti di un esemplare superstite della popolazione autoctona, gli Arii. Quegli stessi Arii, o Ariani, portatori della religione vedica, che migrando millenni or sono dai monti dell’Asia centrale scesero nelle pianure del sub-continente indiano, e mescolandosi con i preesistenti popoli dravidici diedero origine alle attuali popolazioni dell’India. Piccoli e scuri i Dravidi; alti, forti, e di pelle chiara gli Arii. Sono i due estremi etnici ancora evidenti oggi in India confrontando i Tamilli del sud con i Pungiabi del nord.
Geograficamente, la culla dei popoli ariani sembra essere stata proprio qui, nella parte orientale dell’altopiano iranico; l’ipotesi, quindi, è credibile. Rimane però misterioso il complesso di circostanze che ha tenuti i Kafiri isolati, estranei alle vicende storiche del mondo circostante, soprattutto a quella vicenda fondamentale che è stata la islamizzazione. Che cosa è che per più di mille anni ha tenuto i Kafiri uniti, attaccati al loro modo di vivere, alla loro religione? Che cos’è che li ha fatti perseverare e rimanere ostinatamente diversi dagli altri? Questo è l’interrogativo non risolto che rende misterioso questo popolo.
Essere diversi, è duro. Rimanere diversi è difficile, logorante. È vero per gli individui come per i popoli, ed è vero oggi per i Kafiri, per i quali sta accadendo nel nostro secolo quello che non è accaduto in mille anni. Ha cominciato ad accadere da quel 1895 in cui l’Emiro Abdur Rahaman decise di porre fine ad una tolleranza religiosa durata, secondo lui, troppo a lungo, e trasformò il Kafiristan in Nuristan.
Nel Kafiristan superstite il movimento di islamizzazione procede irreversibile; e non poi tanto lento, dati i crescenti mezzi di comunicazione e il rapido cadere dell’isolamento che ha protetto sin qui la civiltà dei Kafiri. A questo processo, contribuiamo anche Peter ed io, che lo vogliamo o no. L’islamizzazione dei Kafiri ha luogo non tanto per intolleranza religiosa da parte musulmana, quanto per motivi economici, pratici; per la infiltrazione nelle valli Kafire di elementi musulmani più ricchi e intraprendenti che comprano le terre e vi costruiscono le loro case e le loro moschee, e per il contemporaneo emigrare di giovani alla ricerca di mestieri nuovi. Oggi, i Kafiri superstiti sono valutabili a due o tremila. Quanti saranno tra vent’anni? Non è solo il censimento religioso che conta; cosa resterà tra vent’anni della civiltà dei Kafiri, questa è la domanda.
Come se da noi fosse rimasta viva per incanto una lucumonia di Etruschi, qui tra i monti del Pakistan si è conservata una piccola comunità degli antichi Arii. Solo un campione, tanto per vedere la differenza mille anni dopo; ma ormai non durerà più a lungo.
Gli uomini, dice lo shaman, sono diventati cattivi, mangiano la carne di pollo.
E Balumain, sul suo cavallo bianco, se ne è andato per sempre.