Dal 2012, Daniele Morandi Bonacossi, docente dell’Università di Udine, è a capo di un progetto archeologico unico nel suo genere chiamato “Land of Ninive” (Terra di Ninive) nel nord dell’Iraq, nel governatorato curdo di Dohuk, dove gli archeologi italiani operano in collaborazione con studiosi locali e il ministro curdo della Cultura.
Per un archeologo – racconta Bonacossi – questa regione dell’Iraq rappresenta “un laboratorio a cielo aperto dove le metodologie e le tecniche di ricerca archeologica più innovative vengono testate”.
Terra di Ninive, comunque, è solo una tra le innumerevoli missioni di ricerca attualmente condotte nel Kurdistan iracheno. Si tratta di un progetto di archeologia del paesaggio: la campagna di scavo interessa una vasta regione di oltre tremila chilometri quadrati nel governatorato di Dohuk. In particolare, negli ultimi anni Bonacossi e il suo team stanno lavorando nel Canale di Faida, localizzato dodici chilometri a sud di Dohuk, un territorio che è patrimonio culturale della popolazione locale; un sito che, come spiega Bonacossi, è stato “salvato dalla distruzione” grazie all’intervento della sua squadra.
Il progetto ha raggiunto un obiettivo importante il 16 ottobre scorso, quando è stato inaugurato il parco archeologico di Faida, ora aperto al pubblico locale e internazionale. L’obiettivo del parco è coinvolgere le comunità del luogo attraverso la conoscenza e l’appropriazione di questo loro pezzo di patrimonio culturale, così da “proteggerlo e trasmetterlo alle generazioni future”.
Il 9 giugno 2022, il governatorato curdo ha annunciato su Facebook che il team archeologico italiano dell’Università di Udine ha ottenuto una “licenza temporanea” per condurre i lavori sulla collina di Khatara nella provincia di Simele, guidata dal professor Bonacossi e in collaborazione con l’amministrazione di Dohuk. Gli scavi archeologici italo-curdi si espandono, dunque, anche intorno all’area di Simele, un villaggio non troppo distante, a nord di Faida, popolato da una delle comunità minoritarie dell’Iraq, quella degli assiri, i quali considerano Simele un luogo di profonda importanza per la loro storia identitaria moderna. Ed è da questa prospettiva, sconosciuta a molti, che vorrei raccontare la storia del nord dell’Iraq e di Simele.
Islamici contro cristiani
Per oltre un secolo, l’Iraq settentrionale è stato teatro di gravi persecuzioni da parte del governo centrale contro le comunità etniche minoritarie. Ricordiamo il famigerato genocidio dell’Anfal ai danni della popolazione curda durante il regime di Saddam Hussein.
Parimenti, esistono antiche tensioni tra le comunità minoritarie stesse all’interno del Paese. Uno dei conflitti che persiste fino a oggi è quello tra la comunità curda e la popolazione assira. Quest’ultima è stata fortemente segnata dal massacro di Simele del 1933 per mano dell’esercito iracheno e di paramilitari curdi: questa tragedia rappresenta un punto significativo per l’analisi storica del processo di costruzione della nazione irachena. Il fatto che il massacro di Simele venga costantemente negato in Iraq, nella regione circostante e in occidente, mette a fuoco le odierne dinamiche di potere nel Paese e la violenza epistemica che la storia assira sta soffrendo da oltre un secolo.
In questa parte del mondo, il patrimonio culturale è caduto preda degli sforzi di politicizzazione da parte delle comunità dominanti dei curdi e degli arabi iracheni, le quali cercano di rafforzare il controllo, rispettivamente, dell’autorità regionale e statale. Ecco, di conseguenza, la creazione e la diffusione di narrazioni storiche che hanno lo scopo di servire agende politiche e settarie a sfavore delle altre comunità coabitanti, come quelle assira o yazidi.
Dato ciò, è importante interrogarsi sul ruolo degli attori occidentali, e specialmente quello del mondo accademico, quando operano in un luogo come quello del Kurdistan iracheno, un teatro tutt’altro che neutrale e apolitico. E più che mai se gli scavi archeologici vengono condotti vicino alla zona di Simele: in questo villaggio si trova oggi una presunta fossa comune legata al massacro del 1933, e dal terreno fuoriescono ossa umane che indicano la presenza di centinaia di resti. Ma questa è una pagina di storia che è stata strappata e dimenticata dagli stessi storici e archeologi iracheni.
Per capire meglio la vicenda degli assiri nell’Iraq moderno, ho parlato con Sargon Donabed, professore di storia mediorientale alla Roger Williams University e autore del libro Reforging a Forgotten History, egli stesso di origine assira. Il professor Donabed descrive il massacro del 1933 come un momento critico dello sviluppo identitario della popolazione assira, spiegando che si può comprendere questa tragedia solo considerando anche il processo di costruzione nazionale in cui l’Iraq si è imbarcato alla fine del mandato britannico, agli inizi degli anni Trenta.
Nel 1931, la Società delle Nazioni approvò l’indipendenza dell’Iraq e il suo ingresso nella comunità internazionale. In seguito all’ONU si è discusso sulla questione degli sfollati assiri, un gruppo distintivo all’interno del cristianesimo, come conseguenza della costruzione dello Stato iracheno. Sebbene alcuni storici sostengano che l’Iraq abbia favorito la costruzione di un’identità nazionale inclusiva dal punto di vista etnico e religioso, altri affermano invece che i nazionalisti iracheni hanno per lo più promosso la maggioranza arabo-sunnita a scapito delle comunità sciite, curde e non-arabe. Come sottolinea il professor Donabed, quando si parla di identità etnica e di identità religiosa nel Medio Oriente, “tutto è intrinsecamente connesso”.
Il massacro ebbe luogo nel 1933 quando l’esercito iracheno circondò a attaccò Simele, credendo erroneamente che tra gli abitanti assiri ci fossero combattenti armati. Il villaggio di Simele fu solo uno dei circa cento luoghi popolati dalla comunità assira che vennero saccheggiati dall’esercito nazionale e da soldati irregolari curdi.
Gli studiosi assiri con cui ho parlato hanno espresso una grande preoccupazione riguardo all’esistenza di diverse fosse comuni a Simele e nell’area circostante, temendo una mancanza di riconoscimento e protezione di questo sito storico da parte delle autorità locali. In sostanza, le fosse comuni rappresentano il memoriale di una violenza che è iniziata con il massacro del 1933, ma che persiste tuttora a causa della continua negazione della storia assira moderna. Il massacro del 1933 è minimizzato negli studi accademici sia locali sia internazionali, basati su considerazioni storiche decisamente in linea con la narrativa dello Stato iracheno. Per questi motivi, il fatto che degli scavi archeologici siano stati avviati di recente nella zona di Simele – luogo dell’eccidio e delle fosse comuni – solleva svariate questioni etiche che vanno ben ponderate.
Mi sono rivolta a Helen Malko, ricercatrice associata al dipartimento di arte, storia, e archeologia della Columbia University, autrice di un articolo intitolato Heritage Wars: A cultural genocide in Iraq. Con la professoressa abbiamo discusso delle controversie riguardanti i documenti storici del massacro e la diffusione di narrative ingannevoli sugli eventi di Simele, e in particolare dei potenziali problemi a cui il progetto archeologico italo-curdo nella regione di Dohuk può condurre.
La professoressa Malko, anch’ella di origine assira, considera la fossa comune di Simele un “sito sacro” per la comunità assira locale e all’estero. Mi ha confermato che le autorità curde non sono affatto interessate a riportare alla luce il retaggio del massacro attraverso la preservazione del sito in cui si trova la fossa comune. Tuttavia – e qui sta il problema – siamo testimoni della stretta collaborazione tra la squadra archeologica italiana, e le autorità curde del governatorato di Dohuk e del ministero della Cultura: questi accademici occidentali in Iraq presteranno la giusta attenzione ai siti del massacro? Si interrogheranno sul loro ruolo nello sforzo curdo di “distruggere le prove” della moderna storia assira?
Domando alla professoressa Malko come dovrebbero operare gli archeologi nel rispetto etico di queste dinamiche etniche e politiche. La risposta è che a guidare il cammino della missione italiana dovrebbero essere l’impegno con la comunità assira locale e il rispetto della loro presenza storica nella regione, “che uno ci creda o no”. Inoltre, aggiunge la studiosa, una documentazione completa e un’analisi imparziale del materiale storico contemporaneo dei popoli locali sono la chiave per produrre un lavoro “equo e neutrale” in qualsiasi campo accademico.
Daniele Morandi Bonacossi non nasconde che, “come archeologi occidentali,” il team del Land of Ninive sta “navigando” attraverso la politica del patrimonio culturale della regione, che è “estremamente sensibile e complessa da gestire”. Bonacossi e il resto degli archeologi italiani a Dohuk “non vogliono schierarsi politicamente per poter essere considerati partner affidabili”, e fanno in modo che il loro “lavoro scientifico non interferisca con le politiche locali”. Tuttavia viene da chiedersi fino a che punto ciò sia possibile.
Nel maggio 2019, la comunità assira ha tagliato i ponti con la squadra del progetto archeologico dopo un incidente in uno dei siti archeologici nel canale di Faida, 12 km a sud di Dohuk. Come mi racconta Bonacossi, un archeologo assiro di Mosul e altri connazionali di Dohuk avevano effettuato uno “scavo clandestino”, per il quale erano stati poi arrestati e mandati a processo. All’indomani di questo scavo illecito, continua Bonacossi, dai canali televisivi assiri la comunità “ha scatenato una controversia contro il governo curdo accusandolo di mantenere nascosta questa parte del patrimonio culturale assiro”.
Bonacossi non è d’accordo con l’accusa, e ribadisce invece gli sforzi costanti e l’impegno delle autorità curde per proteggere e preservare i siti dalle minacce circostanti. Possiamo dedurre, quindi, che da quel momento in poi la campagna archeologica Terra di Ninive è proseguita facendo affidamento solo sul sostegno e la cooperazione con le autorità e il ministero della Cultura curdi.
Equidistanza difficile
Nel complesso, la presenza e il lavoro del team italiano di Terra di Ninive è controverso per due motivi. In primo luogo, le relazioni lavorative esistenti tra gli archeologi italiani e le autorità curde mettono in discussione il fatto che la squadra abbia una posizione rigidamente apolitica e disimpegnata dalle dinamiche locali. In secondo luogo, la vicinanza degli scavi archeologici alla zona di Simele dove si trovano le fosse comuni, ci fa chiedere se in qualche modo l’attività di scavo possa compromettere l’integrità di questi “luoghi sacri” per la comunità assira del Kurdistan iracheno. Quando ho posto la domanda sull’impatto concreto che il suo lavoro potrebbe avere sui siti delle fosse comuni, Bonacossi ha risposto dicendo che non crede che le procedure e lo sviluppo del progetto archeologico ne abbiano alcuno, poiché “il rapporto con la comunità assira non è sostanziale e permanente”.
Questa spiegazione, a mio parere, risulta confusa e spinge a indagare ulteriormente sul problema etico che coinvolge il team archeologico italiano di Terra di Ninive.
I legami tra il governo regionale del Kurdistan e la comunità assira sono visibilmente deboli e segnalano una sproporzionata dinamica di potere a favore del primo. Diventa allora importante chiedersi come qualsiasi tipo di cooperazione con questo attore dominante possa minare la posizione già storicamente e politicamente svantaggiata della comunità assira. Purtroppo, in questi casi, anche un progetto come quello di Terra di Ninive, che è di natura accademica e culturale, s’impiglia con la politica del luogo.
È comprensibile che il team italiano voglia continuare con successo la propria missione e contribuire a livello internazionale in campo archeologico. Tuttavia, a causa della lunga emarginazione della comunità assira, le controversie storiche irrisolte legate al massacro del 1933, oltre alla denigrazione degli studi assiri contemporanei, è importante mettere in discussione il ruolo di qualsiasi tipo di attore internazionale nella regione poiché, volente o nolente, esso finirà sempre per avere un peso politico e di parte.