Risale al luglio scorso un preoccupato aggiornamento di Amnesty International sulla situazione nello Stato di Manipur (3,2 milioni di abitanti, estremo nord-est dell’India) dove da oltre un anno (all’epoca del comunicato circa 400 giorni) non davano segno di attenuarsi le violenze interetniche, le reciproche rappresaglie, principalmente tra meitei (maggioritari) e kuki (minoritari), ma che avevano coinvolto anche altre comunità tribali.
Al momento questa sarebbe la situazione, di stampo quasi coreano. Il Manipur risulta diviso in due distinte enclave etniche con una pianura controllata dai meitei e le colline in mano ai kuki, con una zona “smilitarizzata” (no mans land) sotto l’ipotetico controllo dell’esercito federale.
Confinante con la Birmania, il Manipur è abitato dalla comunità kuki (16% della popolazione), in maggioranza cristiana e dedita all’agricoltura, riconosciuta dalla costituzione indiana come “tribù” socialmente ed economicamante svantaggita per gui gode di quote sia d’impiego nel settore pubblico che nell’accesso agli studi universitari (discriminazione positiva). Per evidenti ragioni si oppongono alla rivendicazione dell’altra comunità, i meitei (in maggioranza induisti e urbanizzati che costituicono il 50% della popolazione) i quali vorrebbero poter accedere alle stesse misure. Dai meitei provengono la maggior parte degli eletti all’assemblea legislativa locale (dominata dal Bharatiya Janatha Party).
Tra i fattori scatenanti delle violenze – ma le braci covavano da tempo sotto la cenere – appunto la richiesta di un tribunale al governo locale di estendere ai meitei le tutele economiche speciali, la “discriminazione positiva” di cui usufruiscono i kuki. Alimentando una serie impressionante di violazioni dei diritti umani compiute nella quasi totale impunità da milizie, comitati e vigilantes.
Con la sistematica intimidazione – anche da parte delle autorità locali – nei confronti di giornalisti, attivisti e cittadini che cercavano di documentare e denunciare gli efferati delitti.
In luglio la conta delle vittime accertate dal maggio 2023 era di almeno 250 persone assassinate e di oltre 60mila sfollati (profughi interni). Senza contare la lunga lista di abitazioni, negozi, luoghi di culto e interi villaggi saccheggiati e dati alle fiamme. Oltre ai depositi militari di armi presi d’assalto dai miliziani.
Da allora le cose non sono certo migliorate. Solo in novembre le vittime sarebbero già più di venti.
Una conferma di quello che Aakar Patel, presidente del consiglio esecutivo di Amnesty India, definiva “l’evidente fallimento dello Stato di Manipur e del governo centrale indiano”. Incapaci di “mettere fine alle violazioni dei diritti umani (donne violentate, villaggi incendiati, persone massacrate…). Egli denunciava in particolare l’operato dei omitati di vigilanza della comunità meitei (Arambai Tenggol e Meitei Lippun costituiti da migliaia di volontari armati) resisi responsabili di numerose violenze senza che le autorità abbiano consegnato qualche responsabile alla giustizia. Lamentando – e documentando – le decine di stupri perpetrati ai danni delle donne tribali, le uccisioni (con video in cui si vedono persone decapite pubblicamente) e alcuni rapimenti (in qualche caso avvenuti sotto lo sguardo indifferente delle forze dell’ordine). Tutti reati rimasti ancora impuniti.
Come appunto riportavano alcune fonti giornalistiche indipendenti secondo cui le milizie Arambai Tenggol avrebbero “portato centinaia di persone nei villaggi kuki poi dati alle fiamme compiendovi uccisioni, stupri e veri e propri massacri”. Inoltre tali milizie della comunità maggioritaria applicano una sistematica discriminazione nei confronti delle altri gruppi etnici tribali qualificandoli come “stranieri” e “illegali”, auspicandone nientemeno che “l’annientamento”.
Nel gennaio di quest’anno Arambai Tenggol aveva convocato un raduno di rappresentanti della comunità meitei eletti negli organi legislativi locali (compreso il primo ministro del Manipur) ottenendone – pare – la promessa di applicare norme discriminatorie nei confronti delle comunità tribali. Aggiornando la situazione ai primi di novembre 2024, va riportato l’episodio in cui una decina di persone armate (presumibilmente tribali kuki) avevano perso al vita in uno scontro a fuoco nel corso dell’attacco a un commissariato. Con ogni pobabilità una rappresaglia per un grave fatto risalente alla settimana precedente, quando una donna tribale di 31 anni era stata violentata e bruciata viva da esponenti di qualche milizia avversaria.
La situazione rischiava poi di peggiorare ultriormente il 16 novembre con il ritrovamento dei cadaveri di tre donne e tre bambini appartenenti alla comunità meitei. Ovviamente i sospetti cadevano sui kuki e le cicliche rappresaglie si riaccendevano. Per ora risultano assaliti e incendiati gli uffici di alcuni esponenti politici legati al Bharatiya Janata Party (bjp), il partito indù al potere sia al governo centrale che in Manipur. Con la conseguenza di un numero imprecisato di vittime (inferiore comunque a quanto era lecito aspettarsi), una trentina di arresti, il dispiegamento di qualche altro migliaio di forze speciali. Oltre all’imposizione del coprifuoco nella capitale Imphal e in diversi distretti classificati come “perturbati”. In particolare quello di Jiribam, già in gran parte svuotato dai suoi abitanti.
Nel frattempo il conflitto non si placa e l’eco delle sparatorie si estende. Mentre il potere accentratore del governo si va instaurando ulteriormente.