La notizia è di qualche ora fa e Ibrahim Kane Annour mi manda un messaggio di gioia: finalmente buone notizie dal Niger. Controllo sul sito di Al Jazeera: “Il blocco regionale dell’Africa occidentale sta revocando la maggior parte delle sanzioni imposte al Niger in seguito al colpo di stato del luglio dello scorso anno, in una nuova spinta al dialogo a seguito di una serie di crisi politiche e umanitarie che hanno scosso la regione negli ultimi mesi. Una no-fly zone e la chiusura delle frontiere sono tra le sanzioni revocate ‘con effetto immediato’, ha detto sabato 24 febbraio il presidente della Commissione della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ecowas), Omar Alieu Touray”. Una decisione importante spinta anche dall’approssimarsi del Ramadan che inizia il 10 marzo, come osservano alcuni addetti ai lavori.
Sono felice, amo la cultura Tuareg e rispetto molto questo popolo orgoglioso e libero come il vento del deserto che lo rappresenta.
Quando alcuni anni fa conobbi Ibrahim, avevamo entrambi due ottime ragioni per viaggiare in Niger: io, per le mie ricerche antropologiche, ero fermamente decisa a partecipare al Festival Tuareg di Iferouane, nella regione dell’Air; lui era fermamente deciso a riprendere il suo lavoro di guida turistica in proprio, dopo anni di difficoltà a causa degli attacchi terroristici degli integralisti islamici che terrorizzavano soprattutto il nord-est del Paese; e naturalmente sentiva fortissimo il desiderio di rivedere i genitori e i fratelli, e la nostalgia del magico deserto del Ténéré, che gli rubava il sonno.
Partimmo, con la scorta armata fino ai denti e molti timori nel cuore, e fu un’esperienza indimenticabile che mi fece comprendere cosa significhi essere figli del deserto: uno struggimento che ti accompagna tutta la vita.
La comunità tuareg nigerina di Pordenone, in Friuli, poco distante da Conegliano Veneto dove vivo, è la più grande d’Europa come numero di persone stanziate in una città: sono una cinquantina, trasferitisi qui dal 2000 con le famiglie in seguito a necessità economiche ma anche politiche. Con grande fatica e forza di volontà hanno tessuto una rete sociale che non si ferma dentro i confini etnici, ma coinvolge altre comunità africane e si integra con organizzazioni locali e l’amministrazione comunale.
Hanno fondato una associazione no profit, Mondo Tuareg – di cui Ibrahim è portavoce – che in Italia si impegna a diffondere una delle più antiche culture attraverso l’organizzazione di cene, mostre fotografiche, proiezioni di filmati, seminari e percorsi didattici nelle scuole secondarie volti a favorire l’integrazione attraverso la reciproca conoscenza, e in Niger realizza interventi nel settore dell’istruzione, dell’agricoltura, dello sviluppo economico e idrico anche in collaborazione con ong-onlus italiane attive nel Paese.
Ma la gioia di Ibrahim e della sua famiglia è ancora più profonda: sabato 17 febbraio si è sposata la figlia primogenita, Umalher, che in lingua tamasheq significa “stella della pace”. Un nome scelto dal nonno, il padre di Ibrahim, come buon auspicio per il futuro del popolo tuareg che tanto ha lottato e lotta per la democrazia e per il diritto a un ruolo decisionale all’interno del governo centrale di Niamey.

Quando arrivo al luogo della cerimonia, presso la “Chiesa cristiana di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni”, di fronte all’edificio campeggia una vera tenda tuareg: la copertura con pelli di capra e muflone, il pavimento ricoperto di colorati tappeti, il braciere acceso e la teiera bollente con il celebre tè, da gustare in piccoli bicchieri di vetro decorati, pronto ad accogliere gli ospiti, con la ritualità che racchiude il senso della vita e unisce le persone. Si gusta tre volte, come da tradizione del deserto: il primo sarà forte e amaro come la vita, il secondo dolce come l’amore, il terzo soave come il soffio della morte.
Gli ospiti cominciano ad affluire numerosi: giovani donne tuareg con i loro splendidi vestiti, donne di etnia hausa con i costumi tradizionali, in un tripudio di colori sui quali dominano il verde, il viola, l’indaco, l’oro e il nero, la pelle ricamata con raffinati tatuaggi dedicati all’evento. All’interno, a pianterreno, c’è un’ampia stanza dedicata alle donne e un’altra riservata agli uomini, dove vengono serviti dolci deliziosi, tè e caffè, in attesa dell’arrivo della sposa. Lateralmente, situate in una zona riservata, ci sono una stanza per la preghiera e una addobbata per ricevere la sposa e le amiche, che pranzeranno appartate avvolte da discrezione e al riparo dallo sguardo dei presenti. Vige infatti il divieto di vedere il volto della sposa, che rimarrà coperto da un velo per tutta la cerimonia. Al primo piano, la sala delle cerimonie finemente decorata con fiocchi e fiori, e una vasta sala per il pranzo, che accoglierà più di 200 persone.

In attesa della sposa.

L’atmosfera è festosa ma al tempo stesso intensa, non si tratta solo di celebrare un matrimonio, un evento privato, ma anche di vivere un momento di aggregazione culturale e di arricchimento personale: incontro fotografi, antropologi, viaggiatori, ognuno dei quali ha aneddoti e ricordi da condividere, un piacere per l’anima.
Mi trattengo in chiacchiere con Sidi, il fratello più giovane di Umalher. È un ragazzo di rara bellezza, elegante e molto garbato. Studia Relazioni Internazionali all’università di Padova, comprendo che ha l’intelligenza e la sensibilità di chi desidera conoscere a fondo le dinamiche politiche e legali per poter essere protagonista dei cambiamenti sociali, e non succube. Parliamo di politica, italiana ma anche nigerina, e mi colpisce una sua frase: “La democrazia non è commestibile, solo chi è a stomaco pieno può tranquillamente filosofare sui concetti della democrazia e della giustizia”.
Concordo pienamente. Sarebbe inutile ricordare quanto il popolo del Niger, e ancor di più la minoranza tuareg, abbia sempre dovuto subire poteri accentrati a Niamey totalmente indifferenti alle problematiche sociali, ambientali e climatiche del vasto territorio nigerino. E peggio ancora la supremazia della Francia, con la quale esisteva dagli anni ‘60 un infelice accordo per la vendita esclusiva dell’uranio a prezzi ridicoli, un’autentica forma di sfruttamento colonialistico di un ricco sottosuolo in cambio della quale si offriva tutela e sicurezza del territorio tramite la presenza della milizia francese.
Con il colpo di stato da parte dei militari i francesi sono stati cacciati, ma c’è l’ombra della russa Wagner già presente in Mali. La sicurezza era e rimane precaria, non solo per gli attacchi terroristici dei gruppi di integralisti islamici già presenti in Mali, ma anche per le incursioni di bande tebu provenienti dalla Libia, trafficanti di droga e armi. Al confine con il Burkina Fasu, sempre per le stesse ragioni, sono state chiuse più di 9000 scuole, ed è facile dedurre che troppi bambini e ragazzi, che non possono andare a scuola, sono potenzialmente pronti ad abbracciare le armi. Tutto questo non è certo un buon punto di partenza per riportare pace e stabilità.
Chiedo a Sidi notizie dello sposo, che non vedo. Con mia grande sorpresa ride e mi dice che non è presente: in realtà il matrimonio è già stato celebrato a Niamey, in Niger, tra il padre della sposa e dello sposo, alla presenza di testimoni e di fronte a un marabutto, autorità religiosa di fede islamica. I genitori dello sposo vivono in Arabia Saudita e lo sposo lavora a Doha. Dopo la cerimonia tuareg di oggi, Umalher discuterà la sua tesi di laurea in Scienze e Tecnologie Multimediali e poi volerà a Doha per congiungersi al marito e iniziare una vita insieme. Le famiglie celebreranno una festa a Gedda presso i genitori dello sposo e a Doha, in Qatar.
Sono sorpresa e molto divertita; “siamo di fronte al nuovo nomadismo!”, esclama Sidi, gli occhi che ridono. I tempi cambiano e con loro le dinamiche sociali, vecchi confini spariscono e nuovi confini si delineano; il lavoro non mancherà certamente né a sociologi e neppure ad antropologi, la curiosità e la fame di conoscenza ci salveranno ancora una volta. I cambiamenti, nel bene e nel male sono importanti, e importante è tradurli nelle nostre coscienze. Mi sento felice.
All’ingresso della chiesa si è radunato un folto gruppo di donne, raggianti e bellissime mentre accolgono la sposa gridando a gran voce lo you you.

Umalher.

La sposa avanza lentamente tra uno stuolo di amiche, parenti, conoscenti, al braccio dell’amica del cuore e della madre, Maria Zenabou. È completamente coperta dal velo bianco ricamato ai lati con disegni geometrici di colore rosso e nero. Si intravedono lunghe trecce nere ricadere dal viso chinato verso il basso, così come il tipico gris gris custodito in un borsello di pelle e ricami. Sulle dita delle giovani mani si intrecciano eleganti gioielli e monili, un incanto per gli occhi.

Con Maria Zenabou, madre della sposa.

Tutti i presenti si spostano nella sala delle cerimonie, ed è un momento di grande commozione: Ibrahim, padre della sposa, pronuncia parole di gratitudine e gioia per questo evento così importante per la sua famiglia, e auspica un futuro radioso e felice per gli sposi; non manca però di ringraziare a uno a uno le persone presenti che hanno contribuito in vari modi alla sua realizzazione personale. Piero e Rocco Rava, titolari di un famoso tour operator, da cinquanta anni presenti in Niger e primi datori di lavoro di Ibrahim, ora preziosi amici di famiglia; l’assessore alle politiche sociali di Pordenone, il direttivo della onlus Mondo Tuareg, la comunità nigerina d’Italia, la comunità ghanese, la comunità senegalese di Pordenone, le comunità di Bangladesh, Pakistan, Marocco e Sudan, e non ultime le donne della comunità Donne Tuareg che da 24 ore stavano ai fornelli per la preparazione del pranzo nuziale… Si vive anche di buon cibo!

I momenti che seguono sono di grande condivisione: il cibo è aggregazione, è confidenze, chiacchiere, risate, canti e ricordi; ognuno riceve la sua porzione di cous cous, di carne di montone, di pane, verdure, frittelle, bevande: bravissime queste cuoche! Piatti di tradizione tuareg e maghrebina. Non manca la musica: Sidi dirige l’angolo dj e le donne ballano al ritmo dei pezzi di Bombino, il Jimi Hendrix del deserto, classe 1980, il più famoso compositore e chitarrista berbero tuareg di Agadez, amico di Ibrahim.
Ripercorro con la mente le tappe della vita di Ibrahim, sapientemente raccolte nel libro biografico Il deserto negli occhi, scritto a quattro mani da Elisa Cozzarini e Ibrahim Kane Annour. Ricordo di averlo letto in un lampo, tanta era la curiosità di capire e conoscere la trama di una vita che assomiglia a un romanzo, con le sue gioie e le sue tragedie. “Un tributo alla vita nomade ma anche un ponte tra mondi, gettato con rara sensibilità”, è il commento di Lara Crinò in quarta di copertina.
Non ne rovinerò la lettura a coloro che avranno il desiderio di leggerlo svelando l’ultimo pensiero di Ibrahim, citato alla fine del libro, troppo bello per non pronunciarlo come un mantra: “Ai miei figli dico che la cosa più importante è preservare la dignità, rispettare noi stessi e gli altri. I tuareg, come popolo nomade, hanno imparato a non infrangere mai le regole nei luoghi dove hanno vissuto, così deve essere anche qui in Italia. Voglio solo che non dimentichino la loro lingua e la terra dove sono nati. Per il resto, potranno scegliere la loro strada, da uomini liberi”.
Inshallah, aggiungo io.