Colli Berici (ma ormai tutto il mondo è paese): aumento esponenziale di zecche (e quindi rischi di encefalite o TBE, oltre che di borelliosi o malattia di Lyme) e zanzare anche di giorno (febbre del Nilo). Ultimamente poi è comparso il ragno violino, la mitica “reclusa” raccontata da Fred Vargas: elegante, a modo suo discreto, non porta malattie infettive. Ma comunque non è incontro da augurasi.
Insomma, un disastro. Che fare? Sterminarli tutti col DDT? Ridurre l’ambiente a poche specie selezionate e sotto controllo? Sarebbe probabilmente un errore. Infatti insieme a quelle portatrici di malattie (o comunque pericolose per l’uomo), verrebbero sterminate tutte le altre. E, visti i precedenti, è probabile che le specie nocive – dal punto di vista umano, beninteso – siano proprio quelle più resistenti, più adattabili. Pronte a occupare ogni nicchia rimasta sguarnita, proliferando.
Già dieci anni fa, sulla rivista scientifica “Nature”, alcuni ricercatori britannici e statunitensi sostenevano che, contrariamente a quanto verrebbe da pensare, l’erosione della biodiversità non riduce il rischio di malattie infettive. Almeno per le malattie prese in esame, tra cui malaria, febbre del Nilo, malattia di Lyme e vari tipi di febbri emorragiche, avviene il contrario. Lo stesso con altre patologie che colpiscono animali e piante.
Mentre il declino delle popolazioni mondiali di mammiferi, uccelli, rettili, anfibi, pesci e invertebrati dopo il 1970 già arrivava al 30%, negli ultimi sessant’anni venivano classificate più di trecento nuove malattie infettive. In questa lista nera i ricercatori avevano inserito quelle indotte dagli stafilococchi resistenti agli antibiotici, le patologie preesistenti che si sono trasmesse anche agli umani (i virus dell’aids e di alcune sindromi respiratorie particolarmente acute) e altre di cui si è ampliata in misura significativa l’area geografica (alcune malattie di origine africana e asiatica prima sconosciute in Europa e Stati Uniti).
Stabilire meccanicamente una relazione tra i due fenomeni sarebbe semplicistico, dato che la trasmissione di una malattia infettiva dipende da un insieme di fattori. Oltre agli agenti patogeni (virus, batteri, parassiti) vanno presi in esame i vettori (zecche, pidocchi, zanzare, alcuni uccelli e mammiferi) e l’ambiente. Tra gli esempi riportati da “Nature”, quello delle zecche che trasmettono la malattia di Lyme, talvolta mortale, inizialmente individuata negli USA. Le zecche si nutrono del sangue sia dei topi dalle zampe bianche sia degli opossum, l’unico marsupiale sopravvissuto al di fuori dell’Australia. Le popolazioni di opossum, molto raramente portatori del batterio incriminato, svolgevano un ruolo di “specie tampone” fino a quando la distruzione delle foreste ha lasciato campo libero ai topi, definiti una “grande riserva di batteri”.
Sempre negli USA, studi recenti confermano che i casi di encefalite dovuti al virus del Nilo occidentale (trasmesso da zanzare, ma ospitato da alcuni passeracei) sono maggiori dove la varietà di uccelli è scarsa. La riduzione della biodiversità colpirebbe predatori e competitori dei portatori di elementi patogeni favorendone l’aumento e la diffusione. In molti casi si è potuto osservare come le specie più resistenti, in grado di adattarsi al degrado ambientale, siano (o diventino?) anche i maggiori portatori di agenti patogeni.
Gli effetti deleteri della progressiva erosione della biodiversità vengono poi amplificati dal sovrapporsi di altri fattori – come crescita demografica, aumento di scambi commerciali, allevamento intensivo, riscaldamento globale – che modificano la distribuzione geografica delle specie veicolo di malattie infettive.