Un “excursus” sulle principali teorie intorno alla formazione storica e alle prospettive dell’Euskara, il vessillo unificatore del popolo basco.
Il discorso sul Paese Basco si frammenta secondo linee interne, non facilmente percorribili in “discorso ordinato”. Euskadi, Euskal Herria, è il termine usato dai Baschi per definire la loro “nazione”, il cui territorio è formato da sette province, quattro appartenenti allo Stato spagnolo, area del nord- ovest (Guipuzcoa, Alava, Navarra, Vizcaya), e tre allo Stato francese, area del sud-ovest (Zuberoa, Laburdi, Bassa Navarra). Le singole province sono rette da diverse amministrazioni e spesso vi si riscontrano tratti di cultura tradizionale e modelli economico-sociali diversi. Quel che tuttavia unisce la nazione basca e permette di coglierne l’identità, al di là dei suoi confini interni, è il mantenimento della lingua. Euskal Herria significa appunto la nazione dove si parla 1’euskara ed i Baschi la definiscono Euskaldunak, “coloro che parlano l’euskara”. La lingua è l’elemento essenziale e originario dell’identità e della diversità basca, come mi confermava Luis Michelena, il più autorevole linguista euskalduna, in un incontro svoltosi a Renteria (Ororeta).
Il binomio lingua-cultura apre un ventaglio di problemi: l’antichità e la peculiarità dell’euskara, il suo isolamento storico, le origini tuttora in gran parte oscure. Al rapporto lingua-cultura sono inoltre legati il progressivo frammentarsi dell’universo basco, accelerato dall’immigrazione massiccia, proveniente dalle aree spagnole economicamente “sottoviluppate”, gli ultimi quaranta anni di storia, l’ETA, il tentativo di riduzione della “baschità” al solo aspetto tollerato: “il folklore”, la festa. Ma poiché la lingua è il tratto originario e dominante della coscienza e dell’identità basca, conviene, anche se schematicamente, ricordare le principali teorie sulla sua formazione storica.
I primi studi, tra il XVIII e il XIX secolo, elaborano l’ipotesi che l’euskara sia un residuo locale degli antichi Iberici, una sopravvivenza alle invasioni avvenute nella penisola. Di questa teoria “basco-iberica” fu precursore Manuel Larramendi, gesuita, che la espose nel Diccionario trilingue: Castellano, Bascuence y Latin del 1745. Anche Von Humboldt seguì questa ipotesi e l’arricchì di nuove argomentazioni. Da un punto di vista antropologico possiamo prendere in considerazione il nucleo di questa teoria evoluzionista ante-litteram, che dell’evoluzionismo si trascina dietro tutti i limiti. La stessa nozione evoluzionistica di “residuo”, di “sopravvivenza”, appare inadeguata a spiegare una sfera dell’organizzazione sociale come la lingua.
Sul finire del XIX secolo gli studi che si inseriscono nel filone diffusionista e nelle problematiche della geografia linguistica ricercano le strutture dell’euskara tra le lingue del Caucaso. Fu l’antropologo francese P. Roca nel 1875, nello studio Sur l’origine et répartition de la langue basque, il primo a sviluppare scientificamente questa ipotesi, ancora oggi sostenuta da alcuni studiosi baschi. Secondo questa teoria alcuni gruppi caucasici si sarebbero spostati in tempi imprecisati, ma sicuramente anteriori all’invasione indoeuropea, lungo le coste dell’Europa fino all’attuale sede di “coloro che parlano il basco”. Più tardi, nella stessa prospettiva diffusionista, G. Mukarowsky guarderà alle lingue berbere dell’Africa settentrionale. Come nel caso precedente, a questa ipotesi si possono addebitare i limiti generali dell’indirizzo diffusionista: che una lingua possa diffondersi nello spazio attaverso i suoi portatori è cosa ovvia, ma il vero problema, al quale il diffusionismo né in questo caso né in casi analoghi dà risposta, è come siano state possibili la persistenza e la vitalità nei millenni di questa isola linguistica. Secondo l’indirizzo di studi che oggi riscuote più successo fra gli studiosi baschi, l’euskara avrebbe avuto uno sviluppo locale e risalirebbe a oltre il V millennio, conservando i suoi caratteri per l’isolamento dei portatori.
I saggi sulla lingua basca si presentano copiosi nella seconda metà del XVIII secolo in seguito alla produzione di Larramendi, autore, oltre che del Diccionario, dell’opera El imposible vencido. Prima delle due opere di Larramendi ci troviamo in presenza di una bibliografia episodica, per lo più inedita e solitamente di modesto valore scientifico. Sul finire del XVI secolo viene pubblicata a Pamplona l’opera anonima Refranes y sentencias en bascuence (1596) e nello stesso periodo lo storiografo Esteban Garibay lavora a due raccolte di proverbi e detti baschi, inediti fino al 1919, anno in cui Julio de Urquijo ne cura la pubblicazione. Nel secolo XVIII Rafael de Micoleta, presbitero di Bilbao, scrive Modo breve de apprender la lengua vizcaina, opera anch’essa inedita fino al 1900. Gran parte della produzione finora menzionata potrebbe essere definita di interesse antiquario: manca infatti una reale consapevolezza della importanza culturale che la questione della lingua riveste nel territorio basco. Solo la figura del conte Pena Florida sembra distaccarsi dalla impostazione antiquaria dei suoi contemporanei e, più che scrivere opere che sono destinate a rimanere inedite per lo scarso interesse che il problema ancora suscita, si impegna nella fondazione della Sociedad de amigos del pais.
Agli inizi del XIX secolo è il clero a prendere coscienza dell’importanza politica della lingua basca. Le trasformazioni prodotte dalla rivoluzione francese spaventano, e in questa situazione il clero riscopre l’euskara come strumento di penetrazione tra le masse popolari e di difesa dalle idee giacobine. È naturalmente la produzione religiosa in lingua basca ad essere intensificata: si tratta di manoscritti che restano per lo più inediti, ma che testimoniano un’attenzione culturale nuova e una strategia politica definita e cosciente.
Alla fine del XIX secolo si sviluppa quel movimento di difesa della lingua e di salvaguardia dell’identità culturale che procederà, per linee spesso traverse e confuse, fino ai nostri giorni. Tra gli autori che emergono in questo periodo è importante ricordare José Manterola, autore di un’antologia poetica, ma principalmente organizzatore di cultura: nel 1850 fonda la rivista “Euskalerria”, intorno alla quale gravitano personaggi come C. Echegaray, P. Baroja, S. Arana, e nel 1853 organizza, sull’esempio occitanico e catalano, i “Juegos florales” che riabilitano l’euskara. Nel 1884 Arturo Campion pubblica la Gramatica de los cuatro dialectos literarios de la lengua euskara, destinata a diventare il testo di riferimento delle successive opere in lingua basca. Questo movimento culturale acquista caratteri sempre più radicali quando il suo centro si sposta da San Sebastian a Bilbao: Sabino Arana, Resurreccion de Azcue, Julio de Urquijo ne sono i più significativi esponenti. La purezza della lingua è la preoccupazione di Arana che intende liberare l’euskara da tutte le contaminazioni, anche se ormai diffuse nel linguaggio popolare. Azcue si muove su posizioni più moderate e propende a rivalutare il basco parlato. Urquijo coglie nel tratto linguistico della cultura basca la possibilità di una rinascita nazionale. Nello stesso tempo Miguel de Unamuno analizza e prende atto della progressiva riduzione dell’area dell’euskara, del diffondersi del bilinguismo, destinato in breve a schiacciare la lingua minoritaria, e ne individua la causa nell’incapacità di convertirsi in cultura. Le sue conclusioni sono pessimistiche: l’euskara è destinato a morire. È tuttavia dalla sua analisi che parte l’impegno degli intellettuali del ’900: convertire la lingua in cultura. Su questo progetto Urquijo fonda nel 1907 la “Revista International de Estudios Vascos” e la Academia de la lengua vasca, nel 1918. Durante i quarantanni di dittatura ogni minoranza è schiacciata e con particolare violenza quella basca, come attestano numerosi decreti di probizione dell’uso dell’euskara. L’identità culturale tuttavia, in contrapposizione alla politica centralista, trova nuovi motivi e nuove occasioni di sviluppo e di difesa della propria identità politico-culturale.
Nella seconda metà degli anni ’70 la produzione basca conosce una proliferazione prima impensabile: i lavori hanno ora principalmente come argomento la diffusione della lingua. I problemi dell’insegnamento, del giornalismo, la raccolta delle tradizioni poetiche orali in particolare, del patrimonio culturale tradizionale in genere, le riedizioni di opere spesso dimenticate sono oggi al centro dell’editoria basca. Ciò ha comportato la necessità di una lingua scritta comune, l’euskara batua, al di là delle varie parlate basche. Quello che però contrassegna il postfranchismo e sottolinea la vitalità della cultura euskalduna è la festa, caratterizzata dalla compresenza di tutti questi elementi. Nuove feste urbane e feste tradizionali. Le prime inventate, le seconde , anche se proibite, mai scomparse. Emblematica a questo proposito è la festa di San Fermin: tradizione e innovazione, sacro e profano, esercizio del potere bilanciato dalla protesta e dalla trasgressione, spesso non controllata, ne fanno una festa “non addomesticata”, che fissa la sua continuità estendendosi nel quotidiano. Il 14 luglio, “a la cinco de la tarde”, prima che inizi l’ultima, attesa corrida, uno strano torero salta dentro l’arena. Durante il giro della “plaza”, non richiesto e non autorizzato, mostra un cartello: “Amnistia osoa” (amnistia totale). L’arena gremita applaude e lancia fiori. È uno degli “episodi” più significativi, tra i molti osservati nel corso dei San Fermines di quest’anno, che segnala come festa e politica, quotidiano ed eccezionale, trasgressione e religione, tradizione e innovazione, costituiscano indissolubilmente l’attuale modo di essere e mostrarsi Baschi.