Tra rigurgiti jihadisti, scontri settari, lotte indipendentiste non propriamente esemplari, attentati non rivendicati (strategia della tensione?) e lotte di potere, il Pakistan rischia forse l’implosione?
Ma stiano comunque tranquilli i “turisti d’alta quota”, occidentali e non: i comprensori sciistici di Malam Jabba, Nathiagali e Naltar, “parchi-avventura” compresi, restano in funzione sotto scorta armata. Fate comunque attenzione, siamo pur sempre in aree calde e instabili (come nel Khyber Pakhtunkhwa).
Veniamo ai fatti. L’annuncio di una tregua temporanea tra sunniti e sciiti, decretata dall’assemblea dei consigli tribali, la Jirga, risaliva al 24 novembre, dopo l’ennesima sanguinosa faida settaria tra i due gruppi (ma innescata da questioni legate alla proprietà dei terreni). A Kourram, nel Khyber-Pakhtunkhwa (ex Provincia della Frontiera del Nord Ovest), in soli quattro giorni si erano contati un’ottantina di morti (66 sciiti e 16 sunniti, quelli identificati) e centinaia di feriti.
Gli scontri settari di quest’anno, iniziati in luglio, avevano causato in totale almeno 160 vittime (cifra su cui entrambe le fazioni concordano) in questi territori confinanti con l’Afghanistan (familiarmente denominati Sarhad, appunto “frontiera”) e con i “Territori del Nord”, la provincia pachistana del Gilgit-Baltistan (quella più frequentata dai turisti d’alta quota, anche nostrani). Siamo nelle zone tribali dove le stesse forze di sicurezza di Peshawar incontrano non poche difficoltà a imporre codici e leggi governative.
Dopo l’incontro tra funzionari governativi e i dignitari sciiti e sunniti, così recitava l’annuncio del governo della provincia di Khyber-Pakhtunkhwa: “Le due parti hanno accettato un cessate-il-fuoco di sette giorni per consentire lo scambio dei prigionieri e la restituzione dei corpi delle vittime”. Poca cosa forse, ma è quanto consentiva la situazione, dopo che negli scontri settari si era fatto ampio uso anche di armi pesanti.
Gli ultimi episodi di violenza a Kourram erano iniziati il 21 novembre quando alcuni convogli che trasportavano famiglie sciite sotto scorta della polizia venivano assaltati da uomini armati “non identificati”. Ancora incerto il numero delle vittime, ufficialmente 40 (ma alcune fonti parlavano di ben 110, tra cui 10 bambini e un neonato). Tra le ipotesi, poteva trattarsi della rappresaglia per un precedente attentato del 12 ottobre in cui erano rimaste uccise 15 persone.
Mentre i talebani pachistani (Tehreek-e-Taliban Pakistan) si dichiaravano estranei all’attentato puntando il dito contro i servizi segreti pachistani, accusandoli di voler alimentare il settarismo tra sciiti e sunniti, per alcuni osservatori i responsabili andrebbero cercati nelle cellule jihadiste dell’Islamic State Khorasan Province da tempo attivamente presente nell’area (e non si può escludere che siano teleguidate da qualche branca dei “servizi”).
Nei giorni successivi la cruenta risposta degli sciiti aveva colpito i quartieri sunniti di Parachinar dove centinaia di abitazioni e di negozi erano stati incendiati. Spari ed esplosioni avevano comunque funestato anche i giorni successivi alla tregua, mentre si parlava di una ventina di persone scomparse, probabilmente uccise o sequestrate. Centinaia gli sfollati.
A conferma del clima incandescente che attraversa il Paese, nella stessa settimana degli scontri settari di Kourram, una ventina di soldati venivano uccisi nelle aree montagnose del nord-ovest e sette poliziotti sequestrati.
A conti fatti (per difetto), se oltre a quelli del Khyber Pakhtunkhwa sommiamo anche gli scontri armati nel Belucistan (la provincia recentemente vittima di numerosi attentati rivendicati da formazioni indipendentiste) nelle prime tre settimane di novembre si contano almeno 55 vittime tra le forze di sicurezza.
Senza dimenticare che nel frattempo si riaccendevano le proteste dei sostenitori dell’ex premier Imran Khan, il leader incarcerato del Pakistan Tehreek-e-Insaf (pti, “movimento per la giustizia del Pakistan”). In febbraio il pti aveva vinto le elezioni, ma gli altri due principali partiti pachistani (la lega musulmana del Pakistan e il partito popolare pakistano), si erano alleati per restare al potere.
Era stato lo stesso ex campione di cricket e leader del pti a mobilitare dal carcere, via social, i suoi sostenitori per una marcia su Islamabad. Per fermarla (nei primi faccia-a-faccia tra polizia e oppositori del primo ministro Shehbaz Sharif perdevano la vita almeno sei persone, tra cui quattro agenti) venivano utilizzati addirittura i container disposti a barriera intorno al centro della capitale. Alla testa del corteo marciavano la moglie di Imran Khan, Bushra Bibi e il governatore della provincia del Khyber Pakhtunkhwa, Ali Amin Gandapur.
Dall’alto dei container, la polizia aveva sparato lacrimogeni e proiettili di plastica per disperdere la folla che cercava di raggiungere, per occuparlo, il D-Chowk, il quartiere amministrativo di Islamabad dove si trovano le principali istituzioni del governo.
Conclusione provvisoria: nella notte tra il 26 e il 27 novembre, dopo un blackout totale nell’area del D-Chowk, polizia e ranger intervenivano con lacrimogeni e manganelli arrestando circa mille persone. Già nella mattinata del 27 riaprivano scuole, negozi uffici, mentre i manifestanti, a migliaia, defluivano lentamente dalla città, sconfitti e abbandonati dai due leader della protesta (Bushra Bibi e Ali Amin Gandapur), i primi a scappare mettendosi in salvo.
Finché dura…
In attesa di ulteriori sviluppi, ritorniamo ai nostrani “turisti d’alta quota”… Andrebbero forse riconsiderate le recensioni entusiastiche di qualche tempo fa per “lo sviluppo e la modernizzazione” del turismo tra le montagne pachistane.
Se nel 2013 erano poco più di 30-35mila i turisti registrati nel Gilgit Baltistan, già con il 2018 si arrivava a 2,5 milioni. “Non male”, aveva commentato un noto operatore turistico. Per una volta mi trovo quasi d’accordo: non male, malissimo! Evidentemente per alcuni non è un problema collaborare con esponenti della casta militare che qui hanno i loro “presidi turistico sportivi e che vigilano armati di mitra sulle ludiche attività degli appassionati della neve che scivolano felici sulla pista”.
Sono forse gli stessi militari che periodicamente reprimono le popolazioni indocili? Anche con l’utilizzo di gas letali. Dicono niente i nomi di città come Dera Bugti, Mashkai, Awaran, Nisarabad, Panjgur… bombardate e ridotte in macerie? Per non parlare dell’uso degli elicotteri (di cui hanno la gestione e il controllo) per scaricare in mare, in stile argentino, dissidenti e oppositori, beluci in particolare.
Ma anche lasciando da parte i rapporti intercorsi con l’esercito pachistano, trovo assai discutibile l’elogio per gli impianti di risalita e le “costruzioni turistiche sparpagliate” nella valle di Naltar (“dove i militari da sempre sono di casa”). A mio avviso cozza con ogni sentimento non dico di amore per le montagne (e le popolazioni indigene, la flora, la fauna… chissà cosa pensano i leopardi delle nevi di quel viavai di turisti, fuoristrada, elicotteri…) ma di semplice rispetto.
Veniamo inoltre a sapere che già in passato qualche delegazione pachistana, ministri compresi, era stata invitata a visitare i moderni impianti del Tonale “a sganciamento automatico, le funivie, le aree di accoglienza dei sistemi turistici”. Fornendo “qualche supporto progettuale” e mettendoli in contatto con progettisti e aziende italiane per degradare – dopo le Dolomiti – anche le montagne pachistane al livello di un divertimentificio, di una disneyland asiatica. Anche da qui presumibilmente hanno preso il via i nuovi impianti di risalita, le seggiovie, i resort di lusso in aree fino ad allora, se non del tutto, almeno in parte incontaminate.
Inevitabile cogliere un’analogia con quanto avviene, per esempio, in Turchia, in Messico o in India. Dove ugualmente il complesso industrial-militare controlla, sfrutta il settore turistico e immobiliare. In Turchia previa devastazione dei territori curdi (costringendo all’esodo la popolazioni), in Messico costruendo alberghi in aree protette (anche qui dopo aver allontanato con la forza gli indigeni). Stessa musica nelle aree tribali dell’India dove – magari con la scusa di proteggere le tigri – vengono deportati i tribali (adivasi) e realizzate strutture turistiche (utilizzate poi anche per il cosiddetto infame “turismo sessuale”).