Un assiduo e severo lettore, Andrea C. di Verona, ci comunica l’impressione che l’attuale papa non goda i favori dei nostri commentatori e collaboratori. Preciso che, se non sbaglio, gli unici pezzi in cui papa Bergoglio è stato finora chiamato in causa si riferiscono ai suoi rapporti con il regime cubano, ed è naturale che chiunque sia antifascista e anticomunista non riesce a vedere di buon occhio simili frequentazioni. La sponsorizzazione alla dittatura che ne deriva è argomento geopolitico non secondario, ed ecco perché ce ne occupiamo. Dopodiché viene da chiedersi se per una testata di argomento etnico abbia senso entrare nelle dispute alquanto aspre su questo particolare pontefice senza, come si dice, farla fuori dal vaso.
Una quantità di discipline compongono il mosaico dell’etnismo, in quanto lo studio dei popoli ha mille sfaccettature, ma proprio per questo bisogna esercitare l’autolimitazione del non diventare tuttologi. L’aspetto teologico, per esempio, non ci riguarda. Personalmente non ne capisco quasi nulla, anche se ho letto parecchie dispute sull’argomento. L’unica cosa che mi è parso di intendere (ma aspetto correzioni) è che Bergoglio stia intervenendo nelle questioni fondamentali della dottrina in un modo che in altri momenti storici sarebbe definito eretico. Ho anche l’impressione che la portata di ciò sfugga alla comprensione della cittadinanza e alla quasi totalità dei divulgatori. Mentre compie queste operazioni con la mano esoterica della teologia, il papa usa l’altra, quella dall’inarrivabile capacità mediatica, per convincere le masse di due cose; sicché tutti, anche gli individui intelligenti e solitamente analitici, ormai sostengono che papa Francesco 1) è un uomo semplice, uno di noi, e 2) sta facendo pulizia nella Chiesa di Roma.
Tuttavia, così come non c’è alcun bisogno di essere alimentaristi per intuire che se bevi mentre guidi ti schianterai contro un palo, non serve un docente di seminario per rendersi conto che queste nuove tendenze determineranno qualche genere di terremoto. In verità sono in tanti a prevederlo e, in piena onestà e sincerità, persino ad auspicarlo. Una sparuta minoranza si aspetta, al contrario, uno sfacelo generale: per la Chiesa cattolica e per la nostra civiltà. Temo che abbiano ragione questi ultimi.
Verso la secolarizzazione
Il cambiamento sta procedendo in direzione di una secolarizzazione e di un avvicinamento ai bisogni materiali delle persone, e questo, in una società dove le belle parole e gli slogan sono tutto, riscuote un inevitabile plauso. Il fatto è che la struttura cattolico-romana non è un ente pubblico governativo, o una onlus, o un’organizzazione di volontariato – che hanno cicli di vita al massimo pluridecennali – ma un centro di irradiazione spirituale che regge da due millenni con alti e bassi le sorti della civiltà europea. Piegarla alle mode e alle ideologie in voga in questo irrisorio quarantennio, per poi riadattarla a qualche nuova trovata a venire, significa privarla di un futuro (o trasformarla in una di quelle sceneggiate ecclesiali prone a un regime, come in Cina o a Cuba). È tra l’altro una tendenza prettamente contemporanea, allorché si vuole creare qualche cosa di nuovo, quella di non aggiungerla al preesistente ma di sostituirgliela. Così in nome della creatività si distrugge. Gli “innovatori” (quali sono in realtà i sedicenti “progressisti”) non sono capaci di prendersi un loro spazio ma preferiscono sottrarlo agli altri. Caso tipico, i teorici del gender invece di studiare e proporre un sacrosanto vincolo istituzionale per le coppie omosessuali, vogliono a ogni costo copiare l’istituto del matrimonio, presente in tutte le culture come fondamento strutturale per la socialità e la procreazione; matrimonio che ovviamente finirebbe per non esistere più come tale.
E allora, perché questa furia di trasformare la Chiesa in qualcos’altro, farla diventare un’ennesima organizzazione socialmente impegnata? E in prima fila ci sono i cattolici, mica i mangiapreti. Anime pure apparentemente ignare che se la parte spirituale e teologica lascia il posto alla materialità o alle ideologie usa e getta, in breve non ci sarà più bisogno nemmeno della divinità. È un bene o un male, tra l’altro? L’ateo medio potrebbe anche affermare che sì, le religioni sono un oppio eccetera, che in loro nome si commettono crimini. Ma per uno studioso di scienze umane no, non è un fatto positivo che la cristianità venga smantellata. Non perché rimarremmo senza Quel Particolare Dio: l’umanità è un’edificatrice continua e instancabile di religioni, e proprio per questo cancellarne una meditata, piena di tradizione, in parte collegata alle culture locali, significa lasciare spazio ad altre dozzine di confessioni, sètte, ideologie… e dopo l’infornata del XX secolo si suppone che ne abbiamo avuto abbastanza. Sembrano un tantino infantili tutti quei positivisti, ateisti, razionalisti che propugnano società senza misticismo e deità: non a caso matematici e fisici in maggioranza, totalmente digiuni di scienze umane, non si rendono conto che tutte le comunità – a partire da loro – non sopravvivono dieci minuti senza crearsi dottrine ontologiche e pantheon trascendenti.
La ritualità indispensabile
La Chiesa di Roma è, almeno in Europa, l’esponente per eccellenza del concetto importantissimo di ritualità. La ritualità è una delle più nobili espressioni dell’uomo, soprattutto in ambito sociale. Qualsiasi comunità esprime sé stessa mediante una serie di gesti e cerimonie nei posti e nei momenti più adatti, e si può dire che queste manifestazioni apparentemente non spontanee, anzi codificate e regolamentate, siano uno degli strumenti più potenti di difesa, conservazione e sopravvivenza di un gruppo. “Rito” deriva infatti dal sanscrito rta, e nella religione vedica indica l’ordine che deve regnare nel mondo e nella società umana. Possiamo chiamarle convenzioni, cerimonie, obblighi sociali, a seconda che ci piacciano o meno, ma una cosa è abbastanza chiara: se è giusto (anzi, secondo gli psicologi dello sviluppo, obbligatorio) che un adolescente le contesti per affermare il proprio io, non riuscire a cogliere l’importanza della ritualità in età adulta significa non aver completato il processo di crescita (o, tradotto dallo psicanalese, non aver capito niente della vita). Facciamo qualche esempio.
Gli inglesi amano molto giocare (hanno inventato o codificato numerosissimi sport moderni), ma la serietà o talora seriosità con cui lo fanno induce a pensare che sia il loro modo etnico di interpretare la ritualità. Regole puntigliose, gestualità, comportamenti, abbigliamenti, cerimoniali, tutto sembra studiato per celebrare un modo di vivere e una tradizione complessiva che va ben al di là del momento ludico. Ridere della sfarzosità della famiglia reale – o peggio, auspicare che quel Paese diventi l’ennesima repubblica – significa non capire come la monarchia sia il culmine di questo grande gioco che, fino a qualche tempo fa, teneva in piedi un impero. Il disprezzato periodo vittoriano – come spiega mirabilmente John Fowles nella Donna del tenente francese – con tutta la sua falsità moralistica, non era che la strutturazione rituale di un mondo che difendeva l’ossatura della società imperiale, preservando i grandi patrimoni e l’integrità delle famiglie, intese freddamente come i pietroni che compongono la fortezza.
Oggi (oltre che in una Gran Bretagna che si sta autodistruggendo con l’immigrazione e lo smantellamento dei riti in nome della nuova religione, il politicamente corretto) vediamo l’esatto contrario del conservazionismo vittoriano nella Repubblica Italiana, specialmente in Padania, dove lo Stato centrale – soprattutto con i tre governi Napolitano – sta procedendo all’espoliazione dei patrimoni familiari e alla cessione di industrie e attività produttive a Paesi stranieri, oltre a minare la filosofia stessa del nucleo familiare.
Esempi ancor più succosi ed estesi della ritualità riguardano la sfera erotico-sessuale. Se gli abiti sono un’invenzione pratica del genere Homo, se la loro fattura attiene alle usanze e all’elaborazione anche in base all’habitat, il fatto di impiegarli sempre e in ogni occasione per coprire le parti sessuali è pienamente rituale. Il rito ha la caratteristica di essere spesso inutile in apparenza, ma di rivelarsi provvidenziale nella sostanza. Così noi indossiamo un “estremo lembo” di vestiario anche quando è evidente o sottinteso che stiamo esercitando la nudità, come in spiaggia, oppure la sessualità, come in discoteca o in una festa per singoli. È altrettanto rituale accennare pubblicamente al sesso con allusioni o maliziosi giri di parole, quando tutti quanti sappiamo che tutti quanti facciamo sesso. Noialtri – e se ci si pensa bene suona assurdo – stendiamo un velo di censura e senso del proibito su un’attività che non rappresenta una scelta audace di qualche individuo, ma è il motivo per cui ciascuno di noi è al mondo.
Ovviamente, ogni giorno da secoli c’è qualcuno che si sveglia una mattina e ci ragiona su, trova appunto la situazione assurda e decide di avviare una rivoluzione contro l’ipocrisia e il puritanesimo. Senza minimamente rendersi conto che il “contenimento” (non la repressione) dei costumi sessuali è indispensabile affinché l’umanità non si congiunga per strada a casaccio e alle famiglie resti una parvenza di unità. Gli amanti dell’erotismo, cioè gli individui più sani della popolazione, dovrebbero essere grati a questa potente forma di ritualità che mantiene il sesso una cosa emozionante ed eccitante e non uno sport, che conserva il senso della trasgressione nel tenere in vita un artificioso e quasi giocoso senso del proibito. Da questo punto di vista fa sorridere lo sforzo di tanti liberatori dei costumi, delle ciccioline che vorrebbero portare il porno nelle strade, insomma, di tutti quegli adulti bambini che sembrano i primi e soli ad aver scoperto il sesso e lo vogliono liberare per far dispetto ai genitori repressivi. Ma quali genitori? Se si guardassero intorno, scoprirebbero che i genitori sono loro stessi, che al di sopra non c’è alcun potere moralista e repressivo (parliamo di Occidente) e che non hanno né comprensione dei meccanismi sociali né memoria storica.
I riti al servizio dell’uomo, non viceversa
Tuttavia è giusto e auspicabile che si osservi quella che definiremmo la regola numero uno della ritualità: essa deve essere al servizio dell’umanità, non viceversa. Per millenni – probabilmente dalla fine del mesolitico – i più disparati gruppi di potere hanno tentato di appropriarsi e gestire per proprio tornaconto le espressioni mitologiche, le tradizioni e i costumi delle comunità. E, correttamente, c’è sempre stata una reazione a mo’ di contrappeso delle popolazioni per riprendersi i propri spazi. È quindi indispensabile distinguere l’imposizione di regole negative da forme naturali di autodisciplina collettiva. Per esempio, le confessioni cristiane collegano in modo speciale il peccato al sesso, e così facendo dànno una mano a mantenerlo nella sfera del privato, permettendo all’infanzia e all’adolescenza di procedere cautamente e per gradi alla sua scoperta, sviluppando con gli anni una sessualità matura. Ma se, come è successo in tempi neanche troppo lontani, questa vigilanza si trasforma in repressione e i bambini ne escono traumatizzati; se gli adulti crescono con una sessualità deviata che si ripercuote sull’armonia familiare e quindi sulla società, allora il nostro atteggiamento “antropologico” deve cambiare. Come se, da genitori, stessimo osservando giocare un bambino piccolo: se salta su è giù dal divano con le scarpe possiamo chiudere un occhio, in quanto si tratta di un’attività positiva per il suo sviluppo psicomotorio; ma se lo squarcia con un punteruolo, allora interveniamo per fermarlo e sgridarlo.
Il “cattolicesimo”, inteso come complesso formato da un gregge di fedeli, da una Chiesa radicata sul territorio e dal Vaticano con i suoi poteri spirituali e temporali, è nel bene e nel male un’emanazione etnica dell’Europa, importata e adottata dall’impero romano e interpretata nei secoli dalle nostre popolazioni. Qui dove stiamo scrivendo, in una tribuna etno-antropologica, l’aspetto fede e teologia non è in elenco, ed ecco perché siamo portati a difendere, anche se laici, le espressioni della religione: chi insulta i suoi simboli, infatti, sta insultando noi tutti. Noi autoctoni, noi padroni di casa. Ovviamente “tra di noi” potremmo e dovremmo discutere se e quando limitare la presenza di queste simbologie, poiché anche la “laicità” è una creazione dell’Europa. Ma parliamoci chiaro: da quanti anni la diatriba non è più tra credenti e laici veri? Da quanti anni la croce non è più il simbolo della cristianità che irrita l’ateo, ma quello dell’occidente che manda in bestia gli islamofili?
Tradizione e tradimento
Ma poi ecco che la Chiesa dal suo interno smette apparentemente di essere l’espressione della nostra cultura, e il bambino comincia a squarciare il divano. La simbologia che appartiene a noi tutti dalla notte dei tempi viene messa da parte per non offendere genti dichiaratamente nemiche e ostili. Chi nel passato cercava rifugio nella cattedrale durante un’invasione, ora viene buttato fuori, il portone sprangato alle sue spalle.
Papa Bergoglio, dicevamo. C’entra con tutto questo? Sì, perché le forze disgregatrici, che per un certo tempo sono state tenute a bada da personaggi come il cardinale Giacomo Biffi, per citarne uno, oggi sono intruppate e lanciate in battaglia dal Capo in persona. Sono ufficialmente al comando. E la ritualità della Chiesa e delle strutture vaticane – che abbiamo sopportato, talvolta a fatica, per la sua azione positiva sulla nostra civiltà – sta perdendo di significato, si sta spegnendo, o in alternativa sta tornando a quelle fasi in cui rappresentava un pericolo e un detrimento per le popolazioni.
La parte più squisitamente rituale – quella legata alla difesa della spiritualità e della fede – si sta disfacendo con la continua e progressiva adesione ai modelli della società secolare, del tutto evenemenziali quando non politici. Non si tratta di stabilire se siano giusti o sbagliati. A parte certe fesserie cosiddette “gender” che son materia da psichiatri, la salvaguardia dei divorziati o il rispetto per chi ha una sessualità diversa sono sentimenti doverosi, ma esistono strutture laiche appositamente studiate per queste problematiche. Modificare la dottrina per adattarvisi di volta in volta, rincorrendo altre entità e altre filosofie, significa neutralizzare quel salutare effetto storico di contrappeso. Come se la scienza ufficiale – sovente accusata di lentezza nell’accettare le novità – smettesse di colpo di sottoporre a verifiche e controverifiche le nuove istanze e cominciasse a prendere per buone tutte le trovate di fantarcheologia, ufologia o medicina alternativa.
Papa Bergoglio: falsa modestia?
Nella ormai diffusa furia iconoclasta, sono a rischio altri aspetti ugualmente cruciali della ritualità: quelli estetici e cerimoniali. Per tutte le società umane si tratta di elementi base per il riconoscimento e l’appartenenza a un gruppo. Qui da noi, le tifoserie calcistiche, i girotondini, i fan musicali, gli scioperanti, i nostalgici dei vari regimi, tutti quanti marciano dietro bandiere, intonano slogan, vestono colori, usano proprie fraseologie. E continueranno a farlo anche quando le nuove gerarchie cattoliche abbandoneranno i loro segni immergendosi nell’anonimato, inseguendo un modello francescano che era unico e fulgido nel medioevo, mentre oggi passerebbe pressoché inosservato.
Come viene accolto questo corteggiamento della modestia? Ci sono aspetti (e li vedremo) dell’attuale pontefice che la gente ama sempre di meno, come testimonia la diminuzione di due terzi dei fedeli alle udienze del mercoledì in piazza San Pietro, ma altri sembrano entusiasmare chiunque. Per esempio, la “semplicità” dell’uomo, che augura buon appetito alla piazza e si sposta in autobus. Chiediamo timidamente: dove starebbe la maestria del viaggiare in autobus? Qualsiasi gonzo ci riesce. Ma questo è un papa, cosa vuole dimostrare prendendo un mezzo pubblico? I sindaci clown che si spostano in bicicletta per la telecamera o i primi ministri che girano in Panda, sono ridicoli, ipocriti, dannosi. Ridicoli perché fingono di fare i poveri quando hanno conti in banca da capogiro; ipocriti perché attorno al loro show stanno muovendo uomini e mezzi che costano più di un’auto istituzionale; dannosi perché perdono il loro tempo, quindi il nostro, spostandosi in modo lento e farraginoso. Non hanno capito, e forse non lo ha capito neppure parte della cittadinanza, che la magagna non sta nell’auto blu (tutte le alte cariche del mondo ce l’hanno) ma nell’usarla per i propri comodi e, soprattutto, nell’assegnarne una a ogni mezza calzetta dell’amministrazione pubblica.
Per il resto la “pompa” è una manifestazione legata a una carica e a ciò che rappresenta, quindi è in primo luogo una dimostrazione di rispetto per la cittadinanza. Elisabetta I non ha mai infranto una regola del protocollo, non (probabilmente) perché sia un suo modello di vita anche nell’intimità, ma per rispetto dell’istituzione che rappresenta. In tal modo, la Corona inglese è la più famosa al mondo e garantisce al Regno Unito una cospicua percentuale dell’immagine e del rispetto di cui gode nel mondo. Sarà un caso, ma dei Paesi con i regnanti che girano in bicicletta, pochi ricordano con precisione se si tratti di monarchie o di repubbliche. D’altra parte il re, in una monarchia costituzionale, è un elemento rituale se mai ce ne furono: è incoronato da Dio, ma non può prendere decisioni contro i suoi sudditi; i quali però sanno che egli, capo dell’esercito, potrebbe intervenire a difenderli da soprusi, golpe, vuoti di potere, eccetera.
Un re del Vaticano, dunque, dovrebbe comportarsi come tale. Naturalmente nel privato è libero di fare ciò che preferisce, e a nostro avviso non dovrebbe neppure essere obbligato a farlo di nascosto. Un gigante come Karol Wojtyla sciava e nuotava, ma quando indossava l’abito corale tutta la potenza spirituale della cristianità sembrava concentrarsi nella sua immagine. L’atteggiarsi a pretino di campagna, invece, ricorda un po’ la bicicletta del sindaco.
Eppure quante volte, fin dall’infanzia, ho sentito i credenti stessi criticare lo sfarzo, gli ori, le scenografie… Quante volte è risuonata la frase storica sul vescovo che se vendesse quell’anello sai quanti poveri sfamerebbe… Il fatto è che impegnato l’anello, saccheggiato l’arcivescovado, trasferita la centrale dal Vaticano in un quartiere alla periferia di Roma, la Chiesa Cattolica smetterebbe di esistere, i poveri rimarrebbero poveri e buona parte delle sostanze ricavate si trasformerebbero in armamenti in qualche angolo dell’Africa.
Tutta questa corsa al pauperismo è figlia di una civiltà afflitta da un crollo verticale della cultura inversamente proporzionale alla quantità delle informazioni, e probabilmente anche un calo dell’intelligenza media di una popolazione che ha spezzato ogni legame con la natura e non muove più un dito per procacciarsi il proprio fabbisogno. Pur da analfabeta economico, nutro una certa diffidenza nei confronti degli iperliberisti, ma un punto sembrano averlo centrato in pieno: a partire dalla Costituzione italiana del 1948 e con picchi negli ultimi vent’anni, tutte le manifestazioni sociali e culturali di questo Paese appaiono improntate alla colpevolizzazione dell’onesta ricchezza e all’apologia dello straccione come figura icastica dell’umanità sana. A farne le spese (a parte il PIL!) è, logicamente, anche l’amore per l’arte e il rispetto per la bellezza, oltre che alla capacità di percepire entrambe. Cose “da ricchi”, che richiedono una cultura inarrivabile per un mondo di analfabeti ancorché laureati. Ed ecco che l’eredità del medioevo e del rinascimento, le espressioni più alte di una civiltà, quella sì, europea dovrebbero essere sottratte alla Chiesa che le ha commissionate, pagate, difese e trasferite fino a noi. È questo il traguardo che gli straccionisti italici vorrebbero attribuire alle iniziative di papa Bergoglio?
Ingenuità pasoliniane
È vero che il Vangelo parla incessantemente di povertà (“Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio”, dice Luca). Ma poiché non la scienza ma il semplice buon senso ci conferma come l’inope sia un individuo che non è riuscito a diventare ricco oppure un ricco che ha perso tutto; che, tirate le somme, ogni uomo è il sindacato di sé stesso e la confindustria del suo prossimo, ecco che la visione pasoliniana dell’uno geneticamente buono e generoso e dell’altro avaro e sfruttatore diventa una barzelletta. Tanto che proprio la Chiesa (finora) non ha forzato troppo la mano nello stigmatizzare le ricchezze. La stessa religione parallela, quella socialista, in Europa ha lasciato cadere l’argomento una volta scomparsa la materia prima, il proletariato, e si è dedicata ad altre categorie non strettamente economiche, che potremmo definire i “deboli”. Per una serie di dinamiche (alcune legate a ciniche considerazioni di potere, altre a pura stupidità) la nuova sinistra al caviale, quella che non ha più lotte sacrosante da condurre, identifica i deboli in masse di giovanotti stranieri violenti e criminali, e non nei vecchietti, nelle donne e nei bambini costretti a subirli, che anzi insulta e accusa di intolleranza. Non una falange viene mossa per i disabili (se non offenderli con nuove e ridicole denominazioni) o per portare risorse alle popolazioni affamate del terzo mondo.
Si suppone che anche i cattolici moderni con “poveri” intendano “deboli”, visti i cambiamenti sociali. Ma, pur avendo ben altra considerazione per i veri nullatenenti autoctoni (che ancora esistono, sebbene ai salotti buoni risultino invisibili), per i disabili e per le aree depresse, le strutture gerarchiche come la CEI, in compagnia di certi movimenti cattolici e ben microfonati dalla stampa del settore, hanno mutuato in pieno il terzomondismo dei cugini, fino a formare quella filosofia di sintesi che viene chiamata cattocomunismo.
Purtroppo questa scelta filomigratoria è campale. Non puoi tenere i piedi in due staffe, non puoi auspicare l’invasione e contemporaneamente difendere i veri “deboli” del tuo gregge. Non puoi neppure ascoltare le loro ragioni poiché contrasterebbero con i tuoi fini. Anzi, ti conviene attaccare questi poveracci una volta per tutte e farla finita. Magari utilizzando uno sconosciuto vescovo come portavoce e mettendolo a vomitare insulti contro la popolazione imbestialita.
Che ne pensa la Chiesa d’Africa
Bene, ecco in sintesi che il regime bergogliano sta compiendo una triplice operazione: sotto la sua guida, la Chiesa si avvia a non essere più una fonte di ritualità, trasformandosi in una qualsiasi istituzione di interesse sociale. A non costituire più un contrappeso per altre religioni basate sulla fede, come quella socialista di cui sta diventando una copia, o quella violenta da cui i nostri popoli si difendono da 14 secoli, davanti alla quale si mette in una posizione geometricamente criticabile. A non rappresentare più una manifestazione della cultura e delle etnie europee, che anzi contribuisce a sommergere sotto una marea migratoria.
D’altra parte, se un papa piace tanto ai tradizionali nemici della Chiesa qualcosa vorrà pur dire. Papa Bergoglio riscuote applausi proprio dalle persone sbagliate, fasciocomunisti, dittatori, scafisti ideologici, islamici sedicenti moderati. Se le cose continueranno così, il Vaticano e tutte le sue emanazioni locali si trasformeranno in un pericolo per i nostri popoli e il loro tramonto sarà inevitabile.
Tuttavia, persone che sanno ben più di noi di affari ecclesiali sostengono che la vera Chiesa cattolica esiste ancora, che dietro la grancassa del gruppetto al potere le voci del dissenso si fanno ancora udire. Antonio Socci, durissimo critico di Bergoglio, ricorda che i vescovi africani non sono affatto d’accordo con lui sull’emigrazione, tanto che il presidente della Conferenza Episcopale del Congo, monsignor Nicolas Djomo, nel corso dell’incontro panafricano dei cattolici ha lanciato un appello ai giovani: “Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri Paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America”, invitandoli “a guardarsi dagli inganni delle nuove forme di distruzione della cultura di vita, dei valori morali e spirituali”, poiché (è sempre Socci a tradurre) l’identità culturale e spirituale di un popolo è una ricchezza, e solo un mondialismo nichilista può pensare che gli uomini e i popoli siano come merci che si possono sradicare e trapiantare ovunque. “Utilizzate i vostri talenti”, esorta Djomo, “e le altre risorse a vostra disposizione per rinnovare e trasformare il nostro continente e per la promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione durature in Africa. Voi siete il tesoro dell’Africa. La Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi”.
Concetto ovvio, ma che sempre manca nei discorsi di questo papa. Rileva Socci: “Mai egli afferma che l’emigrazione è un impoverimento economico e spirituale per le società africane. Né esorta i giovani africani di non emigrare e impegnarsi nello sviluppo dei loro Paesi. Anzi. Al Terzo Mondo lui descrive l’Europa come un Bengodi, un paese delle meraviglie opulento e sazio, dove c’è ricchezza per tutti. Ma noi saremmo egoisti, quindi ci accusa di negare il benessere a milioni di africani affamati che vogliono venire qua (saremmo colpevoli perfino dei loro naufragi in mare, mentre la verità è che li abbiamo sempre soccorsi e salvati). Lo storico viaggio bergogliano a Lampedusa, nell’ottobre 2013, lanciò questo disastroso messaggio, che di fatto suonò come l’ordine di abbattere le frontiere per l’Italia e l’Europa (ma non per il Vaticano) e come un implicito invito a partire per migliaia di africani”.
Un interrogativo teologico
A proposito di invito a partire e ad attraversare il mare, qui salta fuori un aspetto che dovrebbe essere importantissimo per i fedeli, ma di cui non si parla mai. È un po’ una parafrasi del famoso interrogativo se il papa creda in Dio, e suona così: quando parlano di migrazioni, Bergoglio, Galantino, Bagnasco, eccetera, credono davvero in quello che dicono? Si può ribattere che è impossibile entrare nella mente e nel cuore delle persone, ma certe analisi si basano su pura logica. Se uno sostiene di aver sacra la vita umana e sa – perché lo sa – che con le sue parole contribuirà alla morte di migliaia di individui – perché è questo che sta succedendo – cosa dobbiamo pensare se non che sta anteponendo un principio più alto alla sopravvivenza stessa di queste persone? Cosa dice la teologia in merito? Qualcuno dei sofisti della dottrina della fede s’è mai posto il problema? E quale sarebbe questo principio superiore? Giovanni Paolo II, tra gli altri, contribuì alla morte per aids di parecchi africani proibendo l’uso del preservativo, ma almeno stava difendendo un dogma portante per la Chiesa, l’utilizzo del sesso per procreare. Qui invece cosa stiamo difendendo? Il diritto al consumismo di due terzi dei migranti, quelli che non fuggono da nessuna guerra e pagano cifre che parecchi di noi non sarebbero neppure in grado di racimolare? O la visione delirante di una società da day after, dove tra poco scorrerà il sangue?
Abbiamo seppellito da 15-20 anni la teoria “crisi delle vocazioni”, dopo aver preso atto che i nuovi arrivati non riempiono i seminari ma le moschee. Quindi cosa dovremmo pensare: che i guadagni sui clandestini per le organizzazioni “caritatevoli” sono talmente cospicui da muovere l’intero Vaticano? Non credibile. E allora qual è la spiegazione? Mistero. Nessuna razionale, apparentemente. D’altra parte tutta questa faccenda delle migrazioni oceaniche e del terzomondismo sembra un’immensa follia, e forse la spiegazione sta mestamente in questo.
Conclusioni
Lunghetta la premessa, rapide le conclusioni. Perché, a fronte di una potente entità che non sembra rappresentare più una coesione e una difesa per il nostro tessuto sociale “europeo”, ora come ora – dal punto di vista squisitamente etnico – ci troviamo alle prese con un personaggio venuto veramente da troppo lontano che non mostra alcun rispetto per i nostri popoli, anzi briga per distruggerli sotto una marea migratoria. Il disprezzo nei confronti nostri e della nostra intelligenza è arrivato al culmine con l’ultima trovata pubblicitaria: lo Stato del Vaticano ospita due, diconsi due famiglie di profughi, rifugiati, o come li vogliono chiamare; altre quattro o sei toccano a ciascuna parrocchia. Si vuole cioè dare l’impressione ai beoti che la Struttura, già accusata di fare l’accogliente con le rotondità degli altri, ora ospiti e provveda in prima persona.
Peccato che, se il Vaticano è uno Stato sovrano e chiuso come una cassaforte, le parrocchie non lo sono affatto. Quindi, tanto per cambiare, saranno le nostre comunità locali, laici compresi, a sciropparsi orde di giovanotti in preda a sindrome da denaro facile. E noi qui, a cercare di difendere le lingue minacciate…