I recenti scontri in Papua Nuova Guinea sono stati descritti come conseguenza di “pratiche tradizionali tribali”, ma in realtà rappresentano l’irruzione della modernità legata allo sfruttamento minerario di territori rimasti finora, seppur parzialmente, incontaminati.
Qualche considerazione in merito agli “scontri tribali” intorno alla miniera a cielo aperto di Porgera, nella provincia di Enga. Tra le prime dieci più grandi miniere d’oro del mondo, dal valore di diversi miliardi di kina (un miliardo di kina corrisponde a 227 milioni di euro), essa rappresenta il 10% del valore delle esportazioni annuali del Paese.
A oltre duemila metri di altitudine e a circa 600 chilometri a nord-ovest di Port Moresby, la New Porgera Limited è oggi posseduta al 51% da azionisti papuani (la holding statale Kumul Minerals, l’amministrazione provinciale e i proprietari terrieri locali) e al 49% dalla Barrick Niugini (joint venture tra la canadese Barrick Gold e la cinese Zijin Mining).
Cinque anni fa il governo non aveva rinnovato la licenza alle compagnie straniere e nel 2020 la miniera veniva chiusa. Ma le attività riprendevano alla fine del 2023 dopo lunghe trattative, nonostante gli indigeni avessero denunciato sia le ripetute violenze contro la popolazione da parte del personale di sicurezza, sia l’inquinamento di fiumi e terreni agricoli (resi improduttivi) a causa dello smaltimento delle scorie minerarie.Questo per la cronaca.
Tornando ai recenti scontri, ritengo che sottolinearne l’aspetto “tribale” sia quantomeno riduttivo, fuorviante, direi anche “folcloristico”. Rischiando – forse intenzionalmente – di proiettare sul conflitto un equivoco, ossia che si tratti di una manifestazione di brutale, ancestrale “primitivismo”. Roba da “selvaggi”.
Da un certo punto di vista (il mio ovviamente) si tratta di una questione ben più prosaica, direi modernissima. Legata alla piaga planetaria dell’estrattivismo che agisce sempre in maniera devastante, sia quando è gestito da qualche potenza neocoloniale, sia quando è in mano alle “borghesie” locali.
Nel caso di Porgera direi che sono all’opera entrambe. Questo malgrado i proventi della miniera vengano parzialmente ridistribuiti anche ai proprietari terrieri locali come forma di parziale compensazione per i danni ambientali. Danni che però, diversamente dai profitti, si riversano indistintamente (“equamente” ?) su tutta la popolazione e sull’habitat.
Per cui, ripeto, il vero problema non sono i “tradizionali conflitti tribali” (resi comunque più devastanti dalla massiccia introduzione di moderne armi da fuoco automatiche), ma la presenza stessa della miniera. Ossia più la modernizzazione indotta dall’estrattivismo che la sopravvivenza di pratiche tradizionali.
Gli scontri che hanno coinvolto centinaia di tribali, appartenenti a clan definiti “rivali” (concorrenti?) erano iniziati in agosto e il 15 settembre sarebbero esplosi con particolare virulenza. pare con centinaia di colpi d’arma da fuoco. Forse alimentati, se non proprio innescati, anche dalla frana che in maggio aveva seppellito centinaia di abitanti dei villaggi costringendo i sopravvissuti – traumatizzati – allo sfollamento in condizioni precarie.
Il fatto scatenante degli ultimi episodi di violenza riguarderebbe la presenza dei cosiddetti “minatori illegali” (definiti “immigrati clandestini”) in conflitto aperto con i proprietari dei terreni da dove si estrae l’oro.
Secondo Al-Jazeera, negli scontri di domenica 15 settembre si sarebbero contate almeno 35 vittime (tra cui due funzionari della miniera in un agguato successivo) e centinaia di sfollati dopo che le loro case erano state date alle fiamme. In un secondo tempo, Mate Bagossy, consigliere umanitario delle Nazioni Unite per la Papua-Nuova Guinea, indicava in almeno una cinquantina il numero delle persone rimaste uccise, in base alla testimonianza delle popolazioni locali.
Nemmeno l’applicazione di un severo coprifuoco (con l’ordine di sparare a chiunque brandisca un’arma) e la proibizione della vendita di alcolici pare aver riportato alla calma.
Non mancano i precedenti. Con 17 morti (quelli accertati) nel 2022 e almeno una trentina (tra cui 16 bambini) negli attacchi dell’inizio di quest’anno nella provincia del Sepik orientale.
Conseguenza inevitabile, la chiusura della miniera (per quanto temporanea, in attesa che “il governo ristabilisca la legge e l’ordine nella regione”) annunciata il 19 settembre dall’impresa mineraria canadese Barrik Gold. Concedendo ai dipendenti locali di prendere un congedo (non retribuito) per poter mettere al sicuro la famiglia.
Comunque sia, rimane il fatto incontestabile che – al di là della “ridistribuzione” più o meno equa dei profitti, all’origine del sanguinoso contenzioso – l’attività della miniera sta inquinando e degradando irreparabilmente le acque e i terreni. Con conseguenze immaginabili per il futuro.