Mi segnalano che la garbata polemica, da me involontariamente sollevata qualche anno fa ponendo la questione della “croce cerchiata delle SS francesi impropriamente denominata celtica”, era proseguita in altre sedi. A mio avviso, un inutile dispendio di energie per dimostrare l’indimostrabile, ossia che quel simbolo non sarebbe un richiamo al collaborazionismo filonazista.
Spiego per i non addetti: si parlava della mostrina di una compagnia Flack (contraerea) formata da collaborazionisti francesi e destinata, per decreto, a diventare emblema della Charlemagne (Waffen-SS) se la guerra non fosse finita in tempo. Andrebbe spiegato, da parte di questi presunti sostenitori (da destra) dell’autodeterminazione dei popoli, come mai il legame con la mostrina di riconoscimento di quella Flack venisse rivendicato nel dopoguerra da alcuni reduci delle Waffen-SS. Personaggi che parteciparono alla fondazione del Parti republicain d’union populaire (poi Mouvement socialiste d’unité francaise) e riesumarono la “croce cerchiata delle SS francesi” (impropriamente chiamata celtica). Per conferma, suggerisco di consultare “Le combattant europeèn”. 1)

pena di morte e franchismoCome capita sovente, “quando il saggio indica con il dito la luna, lo stolto vede soltanto il dito”.
Il ruolo di saggio sicuramente non mi compete, ma è comunque da stolti non vedere (o non voler vedere) quale fosse il vero problema posto dal mio intervento. Non ho ancora registrato commenti da parte del “settore destro” sul ruolo svolto dai loro fratelli maggiori, certi soidisant “antimperialisti” di estrema destra che finirono per integrarsi nelle squadre della morte spagnole (ATE, BVE, GAL, quelle che assassinavano i rifugiati baschi in Iparralde e i carlisti dissidenti a Montejurra-Jurramendi). O magari con l’esercito sudafricano contro le lotte di liberazione nazionale degli africani in Angola e Namibia. Per non parlare della collaborazione con i regimi fascisti in America Latina e con le milizie maronite di destra in Libano. Nessun chiarimento poi sui rapporti intercorsi tra i fascisti nostrani e quelli inglesi del NF e quindi, magari indirettamente, con le destre protestanti, i lealisti di UDA, UVF, UFF… 2)
Alimentare ulteriori polemiche non mi pare di grande utilità. Penso sia di maggior interesse proporre qualche intervento sul come e perché le variegate destre europee abbiano, di volta in volta, represso o cercato di strumentalizzare alcune lotte di liberazione nazionale. In particolare quelle che ho conosciuto maggiormente di persona: Euskal Herria, Irlanda e Paisos Catalans.
Inizio dalla “Catalogna” visto e considerato che in questi ultimi anni, grazie al referendum indipendentista, se ne è parlato più del solito, almeno per un poco.

Una marea di morti

La pena di morte era stata abolita in Spagna per la prima volta nel 1932, ma venne ben presto ripresa per i delitti definiti di “terrorismo”, in risposta all’insurrezione dei minatori asturiani nell’ottobre 1934. Nel 1938 venne pienamente ristabilita e quindi applicata a livello di massa tra il 1939 e il 1945. La legge marziale rimase in vigore dal 28 luglio 1936 al 7 aprile 1948.
Con la definitiva vittoria franchista (1939) si assiste a una serie impressionante di sacas. Così venivano chiamate le operazioni con cui si prelevavano dalle prigioni gruppi di detenuti per fucilarli direttamente, senza alcuna parvenza di processo. In seguito queste “esecuzioni selvagge” (come le ha definite uno storico catalano) vennero sostituite da processi-farsa, con un’apparenza solo formale di legalità. 70/80 persone venivano giudicate contemporaneamente sulla base di una serie di presunti reati commessi e inevitabilmente con la sentenza si decretava la pena di morte collettiva.
Ricordo che stiamo parlando di fucilazioni o impiccagioni sistematiche, operate dall’apparato statale, non di episodi di vendetta o di ritorsioni di qualche gruppo incontrollato.
Non sono pochi gli studi finalizzati a quantificare il numero delle vittime della repressione franchista nel cosiddetto “dopoguerra”, cioè accettando per comodità come riferimento per la fine della Guerra Civile quello ufficiale e convenzionale dell’aprile 1939: “La guerra ha terminado”. 3)
Studi e ricerche che non sono esenti da critiche, confutazioni e revisioni. E naturalmente la macabra contabilità non è immune dall’ideologia. Questa non risulterà come il fattore determinante nell’emettere giudizi o valutazioni storiche, ma non è nemmeno fine a sé stessa.
G. Jackson in La Republica española y la guerra civil, Barcelona 1976, parlava di circa 580mila morti complessivi, o per cause belliche o per violenza politica, tra il 1936 e il 1943. Di questi circa un terzo (200mila) sarebbero stati prigionieri repubblicani morti per esecuzioni dal ’39 al ’43.
Studi successivi, sorti sull’onda delle polemiche, avevano portato a un ribasso della cifra.
S. Larrazabal arrivava addirittura a parlare di “soltanto 22.716 esecuzioni tra il 1939 e il 1943”.
Fino agli anni Ottanta la maggior parte degli storici si era attestata su una cifra di circa centomila. Ramon Tamares riportava il numero di 103.129 giustiziati (sempre riferendosi al “dopoguerra”, naturalmente). In anni più recenti lo storico triestino Claudio Venza parlava di una cifra compresa tra 90mila e 150mila, dal 1939 al 1945. Studi più recenti (sia Jorge M. Reverte che Santos Julià, Victimas de la guerra civil, Madrid 1999) hanno calcolato che tra il 1936 e il 1943 il nuovo ordine fascista fece giustiziare oltre 150mila persone. Più di quelle che l’esercito di Franco aveva ucciso in tre anni di guerra. E senza dimenticare che numerosi combattenti repubblicani, ormai circondati, preferirono suicidarsi con l’ultimo colpo in canna piuttosto che cadere nelle mani dei carnefici fascisti. Come nel porto di Alicante.
Dato che le diverse metodologie applicate influenzano i risultati, è lecito pensare che alcuni dei lavori in questione pecchino quanto meno di approssimazione. Sembra infatti che quasi nessuno degli storici citati avesse ritenuto di dover consultare anche i Registri Civili, forse considerandolo un lavoro troppo lungo e comunque scarsamente prestigioso. Se ne occupò invece, sempre negli anni Ottanta, qualche ricercatore catalano, in particolare Josep M. Solé i Sabaté, sobbarcandosi al gravoso compito di dedicarsi sistematicamente a questo genere di ricerca.
Per quanto riguarda i Paisos Catalans, era giunto alla conclusione che le vittime del franchismo fossero state molte più del previsto. Nel solo Principat i catalani assassinati dalle forze di occupazione dopo il ’39 sarebbero stati 3385 (almeno quelli accertati ancora negli anni Ottanta) metà dei quali a Barcellona, gli altri distribuiti tra Tarragona, Lleida, Girona e una serie di località minori.
Un analogo lavoro di ricerca svolto nel Pais Valencià aveva quantificato in circa 10mila i catalani giustiziati dopo il 1939 (complessivamente in una decina di località considerate). Come si può intuire, il maggior numero di fucilati nel Pais Valencià rispetto al Principat era dovuto anche alla maggiore distanza da una frontiera internazionale come quella con la Francia. Anche se non tutti gli antifranchisti che si rifugiarono in Francia sfuggirono poi alla vendetta del dittatore. 4)
Primo tra tutti quel Lluis Companys (fondatore nel 1931 dell’Esquerra Republicana de Catalunya) che ancora nel 1934 aveva proclamato “lo Stato Catalano integrato nella Repubblica Federale Spagnola”, gesto che gli costò arresto e imprigionamento nel carcere di Santa Maria.
Dopo la sconfitta della Repubblica nel 1939, Companys cercò scampo in Francia, ma con l’invasione delle truppe naziste venne riconsegnato ai franchisti. Dopo un processo sommario venne fucilato a Montjuic nel 1940. Seppe morire con molta dignità, lasciando sconcertati gli stessi membri del plotone di esecuzione. Prima che questi aprissero il fuoco si levò e depose gli occhiali, poi si tolse le scarpe per posare i piedi nudi sulla sua terra e cantò l’inno nazionale catalano, Els Segadors. L’eroica morte di Companys fu prepotentemente riportata alla memoria dei catalani nel settembre 1975 quando un giovane basco, Juan Paredes Manot (Txiki), venne fucilato al cimitero di Sardenyola non lontano da Barcellona. Davanti al plotone di esecuzione Txiki gridò “Gora Euskadi Askatuta, Iraultza Ala Hill”, poi intonò l’Eusko Gudariak, il canto dei gudaris, i combattenti baschi antifranchisti. Il 27 settembre (giorno della sua fucilazione e di quella di un altro etarra, Otaegi, oltre che di tre militanti del Frap) divenne la data in cui si celebra il Gudari Eguna cioè il giorno del combattente basco.
Estendendo le modalità di ricerca adottate da Josep M. Solé i Sabaté a tutta la penisola iberica (soprattutto nel centro e nel sud da dove era difficile espatriare), si arriverebbe con ogni probabilità a una revisione delle cifre precedentemente riportate. Quanti sono stati, per esempio, i casi in cui l’esecuzione venne classificata come “traumatismo”, evidente eufemismo quando viene applicata a gruppi di decine di persone morte contemporaneamente? In altri casi si riporta “asfixia” oppure “herida penetrante de craneo”. I Registri Civili, riportando la data e il numero delle vittime, permettono quindi di ricostruire con minor approssimazione la portata del massacro operato dal franchismo a guerra finita.
Altro dato interessante emerso da queste ricerche in Catalunya è che la maggior parte delle vittime, nelle località prese in considerazione, erano militanti o simpatizzanti anarcosindacalisti (CNT, FAI). Cosa del resto quasi scontata se si tiene conto che i Paisos Catalans sono stati presumibilmente il maggior vivaio libertario della Storia. Sempre grazie ai Registri Civili si ha conferma di quale fosse la condizione sociale della maggior parte delle vittime. Quasi tutte appartenevano alle “classi subalterne”, le stesse che maggiormente si erano rese protagoniste del tentativo di stroncare il fascismo e contemporaneamente di rovesciare l’ingiusto ordine sociale esistente. Questo particolare può far comprendere anche quali siano stati i costi umani complessivi. Basti pensare alla miseria in cui precipitarono migliaia di famiglie proletarie la cui stessa sopravvivenza dipendeva per lo più dal lavoro degli assassinati.

Nel dopoguerra

L’impiego di misure repressive contemplanti la pena di morte non si esaurì comunque con la fine degli anni Quaranta. Le esecuzioni continuarono sistematicamente anche negli anni successivi. Sotto certi aspetti addirittura si perfezionarono a scopo preventivo e come deterrente nei confronti di una guerriglia che andava diffondendosi: avviata nei PPCC da militanti anarchici come Francisco Sabatè Llopart (El Quico, già integrato nella Colonna Durruti), Facerias e Capdevilla (Caraquemada) seppe mantenersi fino al MIL, il gruppo Puig Antich (giustiziato con il garrote nel 1974) e di Oriol Solé (ucciso dalla Guardia Civil durante un tentativo di evasione nel 1976).
Era del 1959 la “Legge di Ordine Pubblico” con cui la pena di morte veniva estesa a tutti i “delitti contro lo Stato”.
Nel 1963 veniva poi creato il famigerato Tribunale di Ordine Pubblico, lo stesso che condannerà a morte Puig Antich e il Txiki. Sempre nel 1963 suscitarono sdegno a livello internazionale le esecuzioni del comunista Juan Grimau (20 aprile) e degli anarchici Joaquin Delgado e Francisco Granados (17 agosto). Infine, nel 1964, il famoso decreto legge “contro il banditismo”, responsabile della morte di tanti oppositori. Ovviamente il maggior numero delle vittime era costituito da militanti (anarchici, indipendentisti, comunisti, sindacalisti…) ammazzati lungo le strade, in maniera alquanto informale, da vere e proprie squadre della morte di Stato. Altri, anche solamente sospetti, morivano nelle carceri, nelle caserme della GC e nei commissariati a causa di percosse e torture o grazie allo stratagemma della “ley de fuga”.
Per restare in Catalunya, rimane emblematico il caso dell’operaio di origine andalusa Cipriano Martos, aderente al Fronte rivoluzionario antifascista patriottico (il FRAP, operante in tutta la penisola, sosteneva l’autodeterminazione di PPCC, Euskal Herria e Galizia). Cipriano venne ammazzato nella caserma della Guardia Civil di Tarragona il 17 settembre 1973. Nel corso dell’anno sia la GC che la BPS (Brigata politico-sociale) praticarono la tortura in maniera indiscriminata. Come mi raccontava un ex esponente del Frap, “timpani e costole rotte non si contarono e i muri delle celle rimasero letteralmente ricoperti di sangue”. Ricordava anche di essere stato “arrestato in maggio a Barcellona insieme a decine di altri militanti. E tutti, chi più chi meno, subimmo la tortura”.
Quanto a Cipriano, nonostante maltrattamenti e percosse, non aveva dato nessuna informazione ai suoi aguzzini. Questi allora lo costrinsero a ingerire acido solforico. Trasportato in ospedale gli venne praticata la lavanda gastrica. Ricondotto in caserma venne nuovamente torturato e ancora costretto a ingerire altro acido solforico. Una seconda lavanda gastrica risultò del tutto inutile. Sul suo martirio lo scrittore Miguel Bunuel ha scritto il breve ma toccante testo El desaparecido.
Nei confronti del franchismo era prevalso un atteggiamento sostanzialmente benevolo, sia da parte del Vaticano sia di Washington. Una sorta di “revisionismo storico” meno sfacciato di chi pretende di stabilire che in fondo Hitler avrebbe sterminato “soltanto” tre o quattro milioni di ebrei (invece di sei, ovviamente senza contare slavi, sinti, rom, oppositori e “antisociali” vari) ma non meno infido. Una rivisitazione della Guerra Civile che tende a riabilitare Franco come “fascista buono” (dal volto umano?) anzi un difensore degli ebrei perseguitati, contrapposto al “fascista cattivo” Hitler. Almeno 30mila ebrei sarebbero stati salvati dall’intervento del generalissimo “Caudillo de España por gracia de Dios” che avrebbe agito per un senso di carità cristiana.
Pesanti tentativi di riabilitare Franco erano apparsi sul settimanale “Il sabato” all’epoca della gestione di Paolo Liguori (un ex di Lotta Continua) e da qui – siamo nei primi anni Novanta – erano poi filtrati in ambienti pidiessini. Elemento comune, l’apprezzamento incondizionato, sia da parte del “Sabato” che dell’allora PDS, poi PD) per la politica economico-sociale dell’allora capo del governo spagnolo, il “modernizzatore González”, considerato “il miglior interprete dell’ultima fase del franchismo”, uno dei garanti della transizione ma anche della continuità. Soprattutto della continuità dei profitti delle banche.
Per maggiori dettagli rimando a un libro di Ricardo de la Cerva, ex ministro della Cultura e funzionario dell’apparato franchista. Nella sua Storia del franchismo il ruolo fondamentale poi assunto da González e dal PSOE nella “riforma” appare già definito e programmato almeno dal 1974 quando questi venne individuato dal regime come “personaggio affidabile”.

pena di morte e franchismo
Felipe González.

A tale tesi potrebbe aver contribuito involontariamente anche Enrico Deaglio (altro ex di LC) con il suo libro su Perlasca. Effettivamente il Perlasca, prodigatosi coraggiosamente – a suo rischio e pericolo, va comunque detto – per salvare migliaia di ebrei ungheresi, in qualità di “console” (fittizio) di Madrid presso l’ambasciata spagnola di Budapest, era stato un ammiratore più di Franco che di Hitler. In tale veste era stato volontario nella Guerra Civile a fianco dei falangisti contro i repubblicani. Pensando forse che massacrare braccianti e operai in odore di anarchismo e comunismo (o indipendentisti baschi e catalani) non era poi cosa tanto riprovevole.
Era poi significativo che un andreottiano di ferro – ma ben visto anche in ambienti neosocialdemocratici – come Giancarlo Elia Valori (presidente della Società Meridionale Finanziaria, da sempre in buoni affari con i governi spagnoli, prima con Franco poi con Gonzalez) avesse consacrato i meriti di Franco nel “gettare le basi dell’attuale boom economico” (anni Novanta, beninteso). Secondo Valori, il caudillo avrebbe “affidato molti posti di comando a elementi di primordine. Alcuni appartenevano all’Opus Dei mentre altri erano dei tecnocrati puri. Fu questa classe dirigente”, proseguiva Valori, “a promuovere le prime aperture economiche e a far uscire la Spagna dall’isolamento”.
E con questo trovava ulteriore conferma la continuità ideale tra Franco e Gonzalez sul piano della restaurazione capitalista. Della sostanziale continuità su altri piani (negazione del diritto all’autodeterminazione, strapotere dell’apparato militare, mantenimento di metodi repressivi infami come la tortura e la guerra sporca) si è già parlato ampiamente in altre occasioni e anche nel mio libro Indiani d’Europa – Euskal Herria (edizioni Scantabauchi).

pena di morte e franchismo

N O T E

1) Fermo restando che il fatto di essere stata in seguito adottata dall’OAS basterebbe e avanzerebbe per screditarne l’uso e l’abuso agli occhi di chi crede nel diritto dei popoli all’autodeterminazione (in questo caso gli algerini).
2) Quanto alla vicenda del “sidro Bobby Sands” (prodotto da CasaPound-Italia di Bolzano) mi sembra che il pronto intervento dei repubblicani irlandesi sia stato, all’epoca, chiarificatore. Quelli del Sinn Fein hanno spiegato senza mezzi termini di non aver gradito il tentativo di appropriarsi da parte dell’estrema destra (oltretutto a scopo commerciale) del nome di un martire della lotta di liberazione.
3) “En el día de hoy, cautivo y desarmado el Ejército Rojo, han alcanzado las tropas nacionales sus últimos objetivos militares. La guerra ha terminado.
El Generalísimo Franco
Burgos, 1° Abril 1939
Raccontano i biografi che quel giorno Franco stava a letto con il raffreddore, ma “si alzò dal letto per correggere il bollettino di guerra che la Radio nazionale trasmetteva quotidianamente”. Firmato dal caudillo, alle 22.30, il bollettino venne letto agli spagnoli dall’attore Fernando Fernandez de Cordoba: “Oggi, catturato e disarmato l’esercito rosso, le truppe nazionali hanno conseguito i loro ultimi obiettivi militari. La guerra e finita. Burgos, 1° aprile 1939, Anno della Vittoria”. Un macabro “pesce d’aprile” destinato a durare quasi 40 anni.
4) A tale proposito riporto quanto mi venne raccontato da un cileno di origine catalana, all’epoca rifugiato in Veneto dopo il golpe di Pinochet. Pablo Neruda ebbe un ruolo significativo nel salvataggio di alcune migliaia di antifranchisti (in grande maggioranza catalani) rifugiati in Francia e che rischiavano, con l’arrivo imminente delle truppe naziste, l’estradizione nelle mani di Franco. Il poeta aveva organizzato la fuga via mare, ma al momento della partenza le autorità francesi non volevano più concedere il permesso, dato che sulla nave c’erano almeno il doppio dei passeggeri consentiti (seimila invece di tremila). Allora Neruda estrasse una pistola e, ritto sul molo, se la portò alla tempia, minacciando il suicidio se non fosse salpata con tutti i rifugiati. Alla fine la nave partì.