foto di Gianni Sartori
Questo racconto-reportage-diario, praticamente inedito e talvolta farneticante, risale agli anni ottanta. Un percorso realizzato quasi completamente a piedi (tranne qualche breve “raccordo” in corriera o autostop) attraverso le zone prealpine di Veneto e Trentino. Alla ricerca di qualcosa di ancestrale che mi riecheggiava nell’animo.
Ho mantenuto inalterato il testo tranne che nel titolo. In origine era Questa terra è la mia terra, dato che di mio (sentimentalmente “mio”, non nel senso di “proprietà materiale”) qui ormai è rimasto ben poco. Tranne forse i ricordi, da preservare comunque. Sia quelli personali, sia quelli di un mondo e delle possibilità di trasformarlo (o semplicemente conservarlo) che non esistono più.
Dove non era arrivata la repressione (vedi la proibizione di usare il cimbro in epoca fascista) ci ha pensato il turismo, la mercificazione, la rappresentazione spettacolare della Montagna ridotta a scenario, location per consumismo, edonismo… “tempo libero” ma non liberato…
Vedi Luserna, l’amatissima Luserna, ormai destinata a far la fine dell’Altipiano di Asiago (e chi lo conosce appena un poco sa di cosa parlo). O i veneti che alla fine, forse, una propria identità, per quanto “di plastica (o magari “di cemento”), pare l’abbiano anche trovata: quella delle partite iva.
Quindi questo ora è diventato un doppio viaggio nel passato, nella memoria. Tra i miti e leggende del tempo che fu e quello più recente in cui forse era ancora lecito illudersi di poter salvaguardare qualcosa di autentico in questo nostrano “incubo ad aria condizionata” (ops, stavo per scrivere “confezionata”).
Ero partito con il sano e laico proposito di documentarmi in merito alla cosiddetta “frammentazione linguistica” (e magari anche “etnica”) alquanto rilevante, significativa in alcune zone delle Prealpi orientali a cavallo tra Veneto e Trentino.
Ben presto però, assecondato dal ritmo lento del passo e da quello più affannato del respiro, mi son lasciato sedurre, fuorviare e confondere da miti, leggende e suggestioni apparentemente di tutt’altro genere.
Ma in fondo cos’è mai questo substrato mitico e folcloristico se non la vera fonte di un tale pluralismo di culture? Perché non considerare alcuni luoghi come depositari dell’insostituibile patrimonio della memoria collettiva per tutti questi popoli, ultra-minorizzati come i mocheni. o alla ricerca di una propria identità come i tanto vituperati veneti?
La presenza di straordinarie sculture naturali e monumenti megalitici evoca sensazioni che vanno ben oltre la banalizzazione e riduzione a scontate curiosità geologiche o meramente turistiche.
Scriveva nel suo lucido delirio il “solitario di Providence” (Howard Phillips Lovecraft, per i non iniziati): “Chi può affermare che gli uomini hanno un’anima mentre le rocce non ne hanno?”.
E se questa anima, aggiungo io, non fosse altro che l’anima dei popoli che tra quelle rocce vivono, muoiono e rinascono?
Così era cominciata
Pensate a un ipotetico anello di congiunzione tra i neandertaliani e i paleoveneti, un primitivo raccoglitore di bacche, ghiande e funghi, saltuariamente cacciatore di renne, alci, cervi megaceri, lanciato nell’inseguimento della preda; oppure, se lievemente sadici di natura, scompostamente in fuga davanti a zanne e artigli di voraci predatori, ancora vantaggiosamente favoriti rispetto agli inetti bipedi… Improvvisamente eccolo ritrovarsi tra le enigmatiche schiere di pietra dell’ancora anonima Valle delle Sfingi, o sperduto in mezzo agli inquietanti monoliti (freschi di ghiacciaio errante) della Val di Cembra. Con tutta probabilità ne rimase profondamente stupito, turbato. E ancor più se l’apparizione fosse stata quella di un enorme, inspiegabile “Ponte di Roccia”.
Non credo sia azzardato presumere che la sosta improvvisa, imprevista e incauta, possa aver comportato nefaste conseguenze: quanto meno la perdita della cena, prontamente defilatasi approfittando dell’attimo di smarrimento. Oppure con la pellaccia del nostro “appesa al chiodo” nuda e cruda se pedinato da uno smilodonte caparbio, antropofago e intenzionato a rinnovarsi la dispensa. “Chi si ferma è perduto”, recitava un antico adagio (non privo di fondamento per quanto “nostalgico”).
Ma non divaghiamo (non troppo almeno) e restiamo saldamente ancorati alla prima ipotesi, del resto l’unica che ci permetta di proseguire con le nostre congetture. Attonito e stupefatto, forse travolto da reverenziale timore (o da un preludio di crisi mistica) il povero troglodita avrebbe certamente potuto far da comparsa per una riedizione di 2001, Odissea nello Spazio (con la fantasmagorica scena iniziale dell’orda umanoide che scopre il Monolite).
Continuando nell’analogia filmica potremmo elencare alla rinfusa alcuni dei processi irreversibili (una sorta di rivoluzione culturale) indotti dalla scoperta. “Piramide” (di terra), “Sfinge” da erosione selettiva o “Ponte” roccioso che fosse. Con una esponenziale accelerazione di attività cerebrali e intellettuali associata al crollo di vecchi miti e certezze. E non si può certo escludere un aggravarsi del suo profondo senso di frustrazione per inadeguatezza biologica rispetto ai parametri dell’epoca. Originata alla quotidiana esperienza a base di sbranamenti da parte di leoni spelei, iene spelee, eccetera (non orsi spelei, che pare fossero vegetariani e vittime dei paleolitici).
A parziale compensazione, l’esasperarsi di una innata, morbosa tendenza a vagheggiare progetti luciferini di trasformazione-manipolazione del pianeta (deleteri con il senno di poi).
E infine quello che più interessa: l’innervarsi di legami profondi, indissolubili con la Terra (“Suolo”) e con le forze primigenie che la animano (ovviamente non in senso “proprietario”, ma di appartenenza).
Alquanto opportuno invece prendere le distanze da eventuali esegeti, storici, antropologi, fautori di una indiscriminata adesione alle tesi ulteriormente suggerite dal film in questione. Considero particolarmente sconcertante l’americanissima (nel senso di statunitense) faciloneria, del genere “De Benoist a dispense”, con cui si stabilisce una strutturale contemporaneità tra accensione (previo allacciamento dei cavi) della divina scintilla dell’intelligenza (?), scoperta del Trascendente e sviluppo della Tecnologia. Tutto questo ben di Dio grazie, guarda caso, a uno strumento di morte, di prevaricazione, di dominio: quello usato per abbattere l’innocente tapiro. Tra l’altro, dovendo proprio pensare a un risvolto pratico-manuale, strumentale, avrei optato per arco e boomerang, “oggetti” intrisi di una certa sacralità (in attesa che le trattative per stabilire se sia nato prima il Marchingegno o il Simbolo corrispettivo giungano a un compromesso).
Comunque, a meno di non voler riesumare qualche residuo determinista, ritengo assai improbabile che il lontano episodio sia direttamente collegato a cose triviali come l’aumento di aspiranti genieri o di iscritti a ingegneria (malgrado e nonostante le facili, scontate deduzioni derivate dalla contemplazione dei “Ponti di Roccia”). Suggestioni di ben altra portata deve aver deposto nel serbatoio della memoria collettiva di cimbri, ladini, mocheni, alpagoti… A trarne maggior beneficio deve essere stato il tasso di incremento e sviluppo del VII (settimo) senso, quello cosiddetto del Sacro.
Nel caso specifico – e più spettacolare forse – dei “Ponti” (di Veia, dell’Orco…), la scoperta della passerella megalitica “innaturalmente” sospesa nel vuoto poteva egregiamente supportare ancestrali intuizioni sull’esistenza di una “Soglia” (Simboli e archetipi si sprecano…). Analogamentene davano conferma ulteriore le grotte con un antro di entrata distinto dall’uscita come la “Poscola” e le plaghe misteriose (frammenti di “terre e tempi promessi” nella mitologia ladina) cosparse di monoliti, da attraversare con prudenza e amuleti.
Tutti indistintamente costituivano un passaggio, un accesso vuoi con l’altro mondo, vuoi con non meglio identificate “Terre di mezzo”.
Ognuno di questi divenne luogo designato, propiziatorio e carico di “energie” misteriose. Come non mancarono di percepire sciamani, streghe, medium e sensitivi.
Solo un’osservazione sulle grotte “normali”, parlandone dall’alto, anzi dal basso, dei miei lunghi e umidi trascorsi speleologici, vissuti come attività iniziatica più che sportiva. 1)
Ritengo che grotte, voragini, spelonche, foibe (tecnicamente un connubio tra dolina e voragine), caverne e covoli si prestino più che altro a modeste introspezioni (intendo quel 90% di mia conoscenza che vengono forzatamente ripercorse al ritorno, mancando di un’uscita indipendente, magari di servizio).
Le teorizzazioni di qualche stempiato intellettuale sulla “Grotta-Soglia” derivano probabilmente da una sovrapposizione con l’immagine della “Tomba”, passaggio canonico tra il mondo dei vivi e quello dei morti. È probabile che il lungo percorso intercorso tra la fine dell’uso residenziale di massa delle caverne e la nascita della speleologia come pratica scientifico-sportiva abbia favorito i numerosi equivoci in materia e la reazionaria confusione tra Tombe e Uteri (cos’altro sono le grotte?).
Non a caso nei bassorilievi dedicati alla “pietrificazione delle Anime”, la Morte viene simbolicamente rappresentata dalla nuca e dalle spalle di persone che “entrano” (si immergono quasi) nella pietra, ma volto e petto riappaiono dall’altra parte della colonna o del capitello. Chiaro no?
Quanto al nostro antropoide prealpino (rimasto finora a bocca aperta in contemplazione del luogo prediletto di qualche nume), è evidente che funge da proiezione e controfigura del vs redattore, un espediente per discutibili e scarsamente “accademiche” speculazioni…
Se Jack London (vedi Prima di Adamo) e Robert E. Howard (vedi qualche racconto di Skull Face) hanno più o meno consapevolmente rivisto o rivissuto qualche anello della loro ininterrotta catena genealogica, perché ad altri non dovrebbe essere concesso? La memoria ancestrale (individuale e collettiva), depositata in qualche codice ereditario (dna) non sarebbe in grado di riattivarsi in determinate coincidenze di tempo e di luogo?
Oppure, non potrebbe giacere sedimentata, “registrata”, tra argille, marne, brecce e calcari?
Perché quello che è stato possibile nella Cross Plains di Howard (ne dubitate forse, stolti?) non potrebbe accadere, che so, alla Piaza del Diàol?
In sostanza, a certe gente può anche capitare di mettersi in cammino (letteralmente e sotto il peso dello zaino affardellato) attraverso monti, valli e colline, illudendosi di poter poi dissertare amabilmente (impunemente?) sui vari popoli minoritari (meglio: minorizzati), sulla variegata frammentazione linguistica dei territori in questione (un infido angolino del pianeta), senza doverne pagare il dazio.
Seguire le tracce di cimbri, mocheni, ladini, trentini e “veneti di montagna” (lasciando in pace per ora furlani, tirolesi, sloveni e camuni, ma ne riparleremo) per invece ritrovarsi attoniti e dispersi tra luoghi carichi, gravidi di “epifanie” e presagi.
In fronte a impensati monumenti naturali, nelle spire di antiche leggende su truculente divinità primigenie, impauriti per le “ombre” di fantastiche, evanescenti creature fuoriuscite da qualche inedito Bestiario.
Tutto questo e altro ancora, effetto collaterale – forse – dell’incauto recupero del binomio “Sangue e Suolo”, in passato supporto ideologico (in genere regressivo e reazionario, detto con rammarico) della persistenza dei “Piccoli Popoli”.
Certo che per quanto riguarda l’infinita varietà di gruppi, comunità, entità, nuclei più o meno omogenei e “organici”, sembrerebbe di trovarsi in una versione nostrana del Medio Oriente, in particolare del Libano. (A proposito: mai sentito parlare della “Torre Armena” dell’Agner, della “Torre del Druso” ai piedi di Monte San Genesio, addirittura del Lago “Fedaia”?)
A fuorviarmi dal target iniziale (ma ero ovviamente predisposto di mio) non sono state comunque queste frivole e leggermente farneticanti osservazioni, quanto piuttosto “cose” molto concrete, solide, materiali e consistenti (stavo per dire, con un evidente lapsus animista: “in carne e ossa”).
Ossia i già citati precursori naturali delle monumentali creazioni dell’ingegno e dell’arroganza umani: Ponti, Sfingi e Piramidi in particolare. Un punto di riferimento spaziale, affettivo, culturale… per le comunità circostanti, luoghi carismatici e rispettati, dimora di sereni Numi tutelari, banca-dati della Memoria e dei destini collettivi e garanzia di un rapporto stabile con realtà parallele, canali a doppia corsia per comunicare con le non omologate Terre Elfiche da cui, se pur deboli e balbettanti, giungevano ancora echi, segni e segnali…
Almeno fino a quando non vennero demonizzati da grigi e torvi funzionari del Concilio trentino (sempre in zona) che ripristinarono “Ordine e Gerarchia” a base di squartamenti e roghi.
Fino ai nostri giorni ormai corrotti e “disincantati”, quando inoltrarsi tra codeste contrade può comportare pericoli oggettivi come ritrovarsi stregati e “altrove”. Andando per esempio in cerca di cimbri superstiti e risvegliarsi circondato da orde di sanguinelli (o viceversa ?).
L’ispirazione era venuta dalla solita Irlanda, maledetta Irlanda, isola dove tradizionalmente e notoriamente i “luoghi” alimentano sia la caratteristica visionaria di massa, sia un profondo senso di identità nazionale. O forse si dovrebbe parlare di un vero e proprio “contagio”: non si bivacca impunemente, lo dico per esperienza, a due passi da Giant’s Causeway (e non sto pensando ai reumatismi).
Se mi passate la citazione. “Una visionarietà, quella celtica, che produce e si alimenta di immagini, archetipi, figure; che visualizza i propri sogni riportandoli alla luce, ripescati dall’oceano (lievemente increspato da sogni e deliri) della memoria collettiva”. Ben prima delle discutibili appropriazioni indebite, avevo a lungo coltivato la speranza – l’illusione – che i celti avessero soggiornato anche tra queste contrade.
Domanda. Gli enormi monoliti antropomorfi, le guglie sottili sovrastate da massi erratici, le imponenti arcate di rocce sedimentarie possono costituire il nucleo originario attorno a cui si deposita, consolida, cristallizza (come avviene per le stalattiti), oltre alla consapevolezza dell’identità ancestrale, anche una prima volontà di autodifesa, autodeterminazione… passibile di evolversi in lotta di liberazione? Sembrerebbe di sì, se si considera una fonte magari improbabile, discutibile e “politicamente scorretta”, ma proprio per questo alquanto significativa.
Mi spiego. Mi riferisco alla vecchia storia del noto ranger Tex Willer. Una fonte insospettabile proprio in quanto braccio armato dell’espansionismo coloniale occidentale di stampo anglosassone.
In Giubbe Rosse (quindi non nei soliti usa ma in Canada) un ardito Ponte di Roccia acquista ruolo carismatico e rituale, diventa il “Luogo” fisico, oltre che simbolico, dell’unione tra svariate tribù indiane. Irochesi, mohawk, foxes, eccetera, che come è noto vennero reciprocamente strumentalizzati da inglesi e francesi (vedi L’ultimo dei moicani) per poi venir definitivamente spazzati via dalla propria Storia. Per stroncare sul nascere una “Grande Rivolta” qel fiol de na bona donaza non trova di meglio che farlo esplodere, saltare in aria. Insieme al Ponte crolleranno tutte le speranze di riscossa delle nazioni indiane qui riunite.
E dopo questa imprevista parentesi fumettistica ritorniamo al percorso.
Mi ero avviato risalendo la Val d’Assa (gravida di torbidi presagi sia in quanto teatro dell’eccidio operato dai nazisti nel 1945, sia per gli inquietanti graffiti che ne incidono le pareti). Qui giunto in corriera (e tralasciando per stavolta la visita alla contrada in passato mia omonima da dove sarebbe incautamente partito in un anno imprecisato il bisnonno paterno per scendere a valle), continuavo a risalire deviando sulla destra orografica in mezzo a boschi, rocce e “facili roccette” (come da guida cai) verso quello che è considerato un emblema per la locale comunità cimbra, l’Altar Knotto. Rasentando il muro perimetrale del cimitero di Roana mi assaliva, per il tempo di un attimo, la netta sensazione di una ulteriore complicazione del locale tessuto – a macchie di leopardo – etnico, culturale e politico. Colpa di un modesto cippo con l’inequivocabile immagine di una scacchiera. Simbolo della Croazia, ma che all’epoca identificavo più che altro con quello dei fascisti ustascia, quelli di Ante Pavelic.
Si trattava invece della lapide commemorativaper i croati venuti a combattere e crepare sull’Altipiano di Asiago (anch’essi “uomini contro” altri uomini, come ci insegnava Emilio Lussu) nella mattanza del ‘15-18. A confondere ulteriormente le idee (queste già confuse per conto proprio), la storia e il paesaggio, riporto che Roana, la cimbra Roana, venne più volte bombardata dagli inglesi, ugualmente in trasferta nei paraggi.
Per ragioni non tanto oscure, Roana venne chiamata in codice “Dublino”. E memori della Rivolta di Pasqua dell’anno precedente, venne trattata in maniera analoga dalle truppe di sua maestà britannica. Rasa al suolo, in pratica.
Stesso sgradito, inspiegabile trattamento per una modesta vetta nelle vicinanza, l’Altaburg. Qui vicino si eleva, quasi sospeso in bilico (levitando forse?), a picco sulla Val d’Astico il bianco monolite denominato Altar Knotto. L’Antico Castello detto anche Casa degli Spiriti della Montagna. Qui, notizia data per certa da qualche anziano indigeno, intere generazioni di druidi cimbri celebrarono i loro riti e sacrifici. A riprova si indicano le (presunte) tracce di scanalature per far scorrere il sangue della vittime.
Più poeticamente, le leggende tramandate narrano della Regina degli Elfi che vi alloggiava con la sua corte, vegliando sull’integrità dell’ambiente naturale e in particolare degli animali dei boschi. In seguito tale versione bucolica venne proditoriamente inquinata da versioni apocrife ispirate dalla Controriforma (Trento è a due passi). Da allora nell’immaginario popolare venne declassato a “Pietra del Diavolo” che da lassù scatenava tempeste e uragani.
Così nell’amena Valle delle Sfingi (Lessinia veronese, altra tradizionale area cimbra) si è voluto inserire a tutti i costi la figura del maligno ritenuto l’autore e il proprietario di una enorme macina da mulino abbandonata – a causa delle dimensioni ciclopiche – sul luogo stesso di fabbricazione, una piccola cava ormai in disuso. Nulla del genere preesisteva nelle locali tradizioni e le stesse “sfingi” non erano nemmeno tanto inquietanti, ma ritenute piuttosto le custodi del luogo. Tradizionale punto di sosta e pascolo fin dalla preistoria.
Val la pena qui di citare l’enorme covolo (a rigor di etimo: cavità ipogea residuale o superficiale) che si spalanca in zona. Meritoriamente oggetto di studi a livello internazionale – grazie allo studioso Benetti, proprietario del luogo – per il particolarissimo microclima che lo caratterizza: talvolta all’interno del covolo nevica e non all’esterno.
Tornando agli altipiani che troneggiano sulla Val d’Astico, è fatalmente inevitabile accennare a Luserna (insieme alla Giazza della Val d’Illasi uno dei maggiori centri di conservazione della lingua e cultura cimbra). Ma ora mi interessa rilevare come anche qui il Diavolo abbia voluto metterci la coda: proprio di fronte a Luserna, sull’altro versante della valle del Rio Torto, si trova imboscato tra imponenti conifere il Bus de Stofele, ponte di roccia di egregia stazza. Ora, mi chiedo, cos’altro volete che fosse (sia?) “Stofele” se non il cognome di un certo Mefi Stofele? Sentirete anche voi, immagino, l’eco stonata di una risata satanica.
Certo che questi cimbri non erano secondi a nessuno, perlomeno nella produzione di “esseri fantastici”, tantomeno a Madre Chiesa con i suoi triviali accoliti di Belzebù. Basti citare quelli che maggiormente si sono sedimentati nella memoria popolare: il Sanguinello, l’Orco e le Seileghen Baiblen, cugine strette delle anguane della sottostante fascia pedemontana (vedi Valsugana, pendici del Monte Sommano, e – si parva licet – anche Colli Berici e dintorni).
Per le antiche cronache le Seileghen Baiblen abitano presso le fonti, soprattutto quando fuoriescono da grotte, e filano abitualmente el canevo (la canapa) o, più signorilmente, la lana. Inoltre venivano avvistate mentre erano intente a fare il bucato (come le sepolcrali Kennérez-noz, le “lavandaie-fantasma” bretoni), a dipanare gomitoli, cuocere il pane e anche stendere panesei. Nelle Seileghen Baiblen, rigorosamente biancovestite, sono evidenti le analogie sia con le ninfe e naiadi dei romani, sia con le ondine germaniche.
Inoltre in qualche versione locale è possibile ritrovare precisi riferimenti anche alle Parche. Certo, pur con tutta la buona volontà e comprensione, è praticamente impossibile riconoscere tra certe sciamanate attualmente diffuse in zona (e con ogni probabilità discendenti dirette dei cimbri o magari dei longobardi, se non addirittura dei reti sterminati dai romani nel 15 a.C.) qualche barlume di quelle proprietà benefiche, di quei valori tradizionali per i quali alle Seileghen Baiblen venne rifidato l’appellativo di “beate” (etimologicamente “donne angeliche”). Colpa dell’abisso consumista e desacralizzante, della “miseria” spettacolare e mercificante in cui è sprofondata senza ritegno la vecchia Europa? Mah!?
Parenti strette, come già detto, delle anguane. Di cui ho talvolta percepito la presenza (o un residuo ectoplasmatico) nei pressi di Bocca Lorenza, grotta ai piedi del Sommano, della Fontana dee Bee Done (San Gottardo sui Berici) e ovviamente della Grotta delle Anguane in Val Sugana. Per completezza va aggiunto che alla originaria connotazione benefica delle anguane si è spesso sovrapposta una (forse apocrifa, forse calcolata) identificazione con altre identità maligne delle acque, al punto da confonderle con i malvagi vodianoi, spiriti acquatici delle mitologia slovena, oppure con le dracme, entità antropofaghe che infestavano i corsi d’acqua nell’Alto Medioevo.
Un secondo elemento ricorrente del folclore cimbro (e in parte veneto: orchi, salbanei, anguane e sgore erano pane quotidiano nei racconti dei miei nonni in stalla) è notoriamente il “salbaneo”. Lo scaltro sanguinello in fondo non è altro che una varietà locale della diffusissima famiglia degli gnomi. Come questi viene descritto vestito generalmente di rosso e dedito a scherzi più o meno sottili e malvagi.
Altro classico dell’Altipiano di Asiago e delle valli pedemontane è l’orco. Appare per lo più di orribile aspetto antropomorfo e di notevoli dimensioni. Come i suoi parenti transilvani, i vampiri, può sia rendersi invisibile che assumere l’aspetto di alcuni animali. Il nome stesso tradisce il diretto legame con gli Inferi, come confermerebbe il tradizionale colore scuro, nero o grigio. Quest’ultimo colore preferito dagli artisti medievali per dipingere i diavoli. Ma “uomo grigio” è anche un appellativo di Odino e del Beatrice (sua controfigura in Valsugana con tanto di “caccia selvaggia” notturna).
Niente di strano quindi che stia perennemente a guardia di ponti, naturali e non, visto che per questa via si accede all’Aldilà (stando almeno alle rivelazioni di mistici e visionari di professione).
Per le antiche scale
Tanti sarebbero i luoghi dell’Altipiano significativi per la nostra ricerca: Leute Kubala (la Grotta del Popolo, rifugio per ribelli, refrattari e renitenti alla leva), Cason, Giacominerlok, Taghelok (la Voragine dei Corvi), Castelloni di San Marco…
Mi limiterò a citare Stonhaus, la Casa del Sasso, un’autentica “bolgia” dove stando ai racconti locali abitava un orco rapitore di bambini (vedi Favole Cimbre di Simeone Domenico Frigo Metel). Forse nel nome un sottinteso (inconsapevole, casuale?) riferimento agli stoni, antico popolo aborigeno dell’Altipiano che si batté strenuamente contro gli invasori romani. Stonhaus un monumento naturale, un simulacro onorifico al loro valore? E quindi anche una condanna senza appello per il genocidio subito per mano dei “civilizzatori”.
Per calarsi dalla vasta area cimbra (una volta almeno) conosciuta come Altipiano dei Sette Comuni è consigliabile utilizzare una secolare scalinata, già frequentata da pellegrini e viandanti, la Calà del Sasso. Come è purtroppo noto anche agli operatori turistici, vil razza dannata, l’Altipiano è grosso modo delimitato a ovest dalla Val d’Astico (su cui incombe una nostra vecchia conoscenza: l’Altar Knotto) e a est dalla Val Sugana (denominata nel primo tratto Canale di Brenta). La suggestiva scalinata che si dipana fra strette gole, alternando ampi tornanti e ripidi pendii, dalla scalinata Sasso di Asiago fino quasi a Valstagna è costituita da ben due “corsie” : la prima con veri e propri scalini, l’altra lastricata, una specie di lunghissimo scivolo di pietra su cui venivano trascinati i pesanti tronchi abbattuti. Scendendo non è proprio possibile sottrarsi alla vista dei versanti dirupati del Grappa, la montagna sacra per i veneti.
Infatti, oltre che di combattenti, reduci è superstiti, è il simbolo di milioni di etilisti incalliti (come appunto suggerisce il nome) fermamente decisi a mantenere vive e vegete le tradizioni locali e i diffusi luoghi comuni in merito al “veneto inbriagon”.
Arrivo – sono sempre in cammino – in Val Sugana e tanto per non perdere l’abitudine cerco di spostarmi in autostop. Forse suggestionato dal colore delle boscaglie, ricordo che è il sistema utilizzato nei suoi spostamenti dal mutante Hulk quando riprende le sembianze umane di Banner. E non avendo altro da fare, mentre procedo lentamente mi domando: “Cosa mai rappresenterà questo verde ‘disadattato’, così inadeguato all’esigente e impietoso Mondo Moderno?”
Forse, azzardo, un involontario archetipo riesumato, paradigma di una “verde”, incontaminata purezza originaria, inesorabilmente corrotta e resa violenta dalla raffica di spietate modernizzazioni e globalizzazioni che senza tregua da tempo ci affliggono.
Cassirer, chi era costui?
E così, mentre mi interrogo vanamente su fenomenologia e fisiologia delle forme simboliche attive nella coscienza mitica, non colgo che un’estrema, fuggevole visione del covolo fortificato “Buttistone”, vigilante dagli strapiombi su questa frequentatissima intasata e convulsa via di comunicazione (e all’occorrenza invasione).
Riesco invece a individuare il biancore di un familiare capitello dedicato a San Rocco, eretto in Val Goccia nei pressi della svettante Gusela; sui bordi di un antico percorso lastricato per boscaioli ormai trasformato, suo malgrado, in “infrastruttura del tempo libero”. Interessante osservare come il capitello fosse stato restaurato in passato da un anziano contadino (e in gioventù anche contrabbandiere, come un po’ tutti da ‘ste parti), diversamente da quanto in genere avveniva per i capitelli degli altri santi e patroni, spesso abbandonati all’incuria del tempo. Come mai?
Forse è il caso di ricordare che la parabola di San Rocco potrebbe aver a che fare col mito alchemico della Pietra Filosofale (il nome stesso è un riferimento: Rocco-roccia-pietra); entrambi, il Santo e la Pietra, sono simboli riconosciuti della Panacea, rimedio universale per ogni male.
“Lunga e diritta correva la strada” finché, qualche chilometro prima della deviazione per la Valle dei Mocheni, rimango (e per l’ennesima volta) affascinato dalla mole poderosa del Ponte dell’Orco, sovrastante la Val Bronzale. Il paese dove smonto, ringraziando per il passaggio, è già in Trentino ma il mio “dialetto” veneto viene facilmente inteso.
Il ponte incombe maestoso (35 m di altezza, 60 di lunghezza, largo circa 3) e inquietante, anche se ormai può facilmente venir scorto e individuato da qualsiasi viandante. Anche il più disattento, indegno e dedito a sfrenato e compulsivo consumismo. Infatti, sempre per colpa dell’irreversibile “disincantamento”, si sono aperte ampie brecce nello schermo protettivo levato in antichi tempi oscuri da un negromante ambientalista. Il ponte, stando alle leggende, sarebbe sorto dal patto, previa contrattazione, tra un pastore e l’orco locale, al fine di consentire il passaggio del gregge da un versante all’altro dell’impervia valle. Prezzo modico come da consuetudine: l’anima dell’incauto allevatore di ovini (che comunque avrebbe trovato il modo di scamparla ingannando l’oscura creatura).
Interessante che l’orco, stando alle cronache locali, non abbia costruito manualmente l’Arco di Pietra, ma “evocato” con una misteriosa formula urlata ad alta voce. Come dovrebbe essere noto, perlomeno ai lettori del “Solitario di Providence”, se il ponte rappresenta una “soglia” questa deve avere, per rispetto della tradizione, un “guardiano”.
In molti casi analoghi (ponti, ponticelli, busi…) miti e leggende sopravvivono soltanto nella vaga, inquietante sensazione di disagio che talora avvolge le anime più sensibili sul far della sera. Quasi che nelle ore notturne lemuri, larve, ectoplasmi, lamie e spiriti barontici inferiori tornassero a vagare in queste plaghe. Gemendo e sbavando come angeli decaduti memori della perduta grandezza.
Ultima cosa prima di lasciarci alle spalle anche il Ponte dell’Orco. A tener viva la memoria delle rinomate pratiche esorcistiche di marca trentina, è qui rimasta solamente una modesta lapide (con immancabile Madoneta incorporata) dei Giovani di Azione Cattolica. Porta la data del 1954 e non posso fare a meno di collegarla a un episodio di contemporanea (con la lapide), più moderna, caccia alle streghe. Proprio nel 1954 l’indemoniato padovano (reo di “francesismo”) Mario Rossi, presidente regionale della ac, venne espulso dall’organizzazione. Stessa sorte per alcuni suoi adepti, tra cui un giovane e promettente “apprendista stregone”, al secolo Antonio Negri, futuro leader di PotOp.
Comunque in tutte le valli circostanti circolano ancora brani e brandelli di antiche storie locali in cui si accenna alla “Caccia Selvaggia”. A praticarla nottetempo sarebbe un certo Beatrico (chiamato anche il Monocolo, alias Odino), allarmante personaggio vestito di nero o di grigio, attorniato da una muta di cani ululanti, alla testa di un’orda scatenata di guerrieri morti-viventi.
La fola si racconta tale e quale anche nelle contrade intorno a Primiero e lungo la Valle del Tesino. In genere la “Caccia Selvaggia” qui si collega (o si confonde) col “Mit Der Holle Fahren” (“seguire la dea Holle”, ossia viaggiare con le streghe).
Holle sarebbe uno dei tanti nomi sotto cui si cela sempre la stessa divinità: Honda, Frigga, Hulda, Sanga, Beuchta, Percha, Stampa (Stempa per i mocheni), Li-li (forse Lilith, santa patrone delle femministe dure e pure?), Boscignara e la veneta Donassa (o Donaza).
Parente stretta, la famigerata Graustena rapitrice di bimbi mocheni. Con poche varianti il mito di tali creature e delle loro scorribande e cavalcate notturne ha turbato per secoli le notti degli abitanti di tutte e quattro le valli ladine.
E a questo punto anche a voi sarà apparsa per un momento la “Grande Distruttrice”, l’irlandese Morrigan, Dea delle Battaglie, Signora degli Spiriti…
L’incontro inaspettato con Odino & C, tra i dirupi e le faggete (arricchite dal pino silvestre) valsuganesi evoca bagliori e afrori da Ragnarok triveneto. Del resto già percepiti sull’Altipiano dove ancora si sussurra intorno a personaggi quali Thor, Baldur, Loki (esiste anche un omonimo monte).
Un po’ dovunque nelle perigliose aree attraversate dal vostro pedestre cronista errante, si conservano tracce inequivocabili di demoni, diavoli e coorti infernali al seguito. Chi più chi meno, tutte queste entità si dilettano di provocare bufere, diluvi, frane, tuoni e lampi. Talvolta anche qualche terremoto. Il tutto avvolto da nubi nere di prammatica.
Non per niente lo stesso Odino (loro probabile capostipite e qui scacciato a colpi di rametti di ulivo intinti nell’Acqua Santa) era il dio della tempesta, oltre che della guerra. Non diversamente il di lui figlio (ed emulo) Thor, faceva scaturire fulmini dalle nubi (a martellate pare). Al contrario di questi due esagitati, il buon Baldur, Dio del Sole, dispensava luce e benessere (come sotto altre latitudini gli eroi solari Ercole e Perseo scacciavano le nubi con le loro gesta eroiche).
Tali miti e i loro derivati sopravvissero in qualche maniera, pur subendo evidenti adulterazioni ideologiche, nonostante gli scongiuri e gli esorcismi di Paolo III Farnese e successori (almeno fino a Pio XII) in linea con le direttive del Concilio trentino (1545-1563).
Quanto ai mocheni (duemila circa o poco più), per stavolta lasciamoli coltivare in pace patate e segala. Ci sono portati. Alcune delle loro tradizioni sono incentrate sul culto dell’Albero (con una predilezione per l’olmo), simbolo integratore delle diverse dimensioni e stagioni della vita.
La valle dei Mocheni si può comunque percorrere per chi volesse arrivare a quella di Cembra (e ai suoi “omeni” di Segonzano) con il “cavallo di San Francesco”. Incamminarsi da Palù (nella parte superiore del torrente Fersina) verso il Lago delle Piazze (consigliato il Passo di Redebus). Da qui si procede nella stessa direzione di un torrente che scorre verso l’Avisio. Questo – ripeto – per chi, provvisto di buona volontà e spirito avventuroso, sia intenzionato a farsela tutta “a piè”.
Per gli altri (ciclisti, autostoppisti, o semplicemente pigri) esiste la possibilità di ridiscendere fino a Pergine, proseguire per una manciata di chilometri e svoltare a destra.
Per una serie di circostanze (condizioni climatiche avverse) mi ritrovo proprio su questa strada di primissima mattina, nei pressi di un distributore ancora chiuso. Dopo il temporale notturno, nubi sfilacciate avvolgono ancora la montagna mentre il volo di alcune cornacchie attraversa il grigiore intenso del cielo.
Taco boton con un anziano fabbricante-venditore di gerle e ceste in vimini. È qui in attesa di far benzina con il suo furgoncino ed è diretto proprio a Segonzano per il settimanale mercato. Indicandomi le numerose cave che devastano i monti circostanti, mi spiega come gran parte dei valligiani della sua generazione si fosse rassegnata a guadagnarsi da vivere sputando sangue (letteralmente) per anni in quelle bolge dantesche. “Come dei mona”, aggiunge e specifica. Quasi tutti infatti sono deceduti prima del tempo per silicosi. Lui invece, più fortunato o semplicemente più furbo, ha potuto “girare il mondo” lavoricchiando qua e là.
Tuttavia questo antesignano di certe scelta “alternative” da anni settanta (se non proprio del “rifiuto del lavoro”) dimentica forse un piccolo particolare che si può coglier nel corso della conversazione: non ha mai dovuto preoccuparsi d’altro che di se stesso, diversamente dai suoi coetanei cavatori a tempo pieno con famiglia a carico. Del resto la “prole” resta la condizione sine qua non di ogni proletario che si rispetti, sua condanna e redenzione.
Tra le piramidi della Val di Cembra
Passiamo oltre approdando in quel di Cembra, dove finalmente mi inoltro nel bosco incantato delle svettanti guglie sormontate dagli enormi “cappelli”, massi erratici qui dimenticati durante l’ultima glaciazione.
Tra le varie ipotesi formulate sull’origine de “I Omeni de Segonsan” va ricordata quella formulata dagli intellettuali organici della Controriforma. Le piramidi non sarebbero altro che simulacri (a edificazione dei credenti) di fate e folletti puniti dalla collera divina. Tali svergognate e lascive creature vennero pietrificate per la loro mancanza di pudore in quanto si aggiravano ignude per i boschi. Antichi cronisti avrebbero documentato la contemporanea, inspiegabile e definitiva scomparsa di satiri e baccanti.
Meno suggestiva (non propriamente scientifica, forse con qualche significato recondito e comunque attualmente in disuso) la versione per cui l’azione erosiva dell’acqua non avrebbe formato un bel niente, ma soltanto “disseppellito” le guglie dal terreno in cui, immerse, attendevano…
Stando invece a quanto dichiarano geologi, funzionari delle pro-loco e depliant turistici, le piramidi deriverebbero dai materiali morenici abbandonati nel quaternario dai ghiacciai dell’Avisio. Gli elementi atmosferici hanno poi agito selettivamente in base alla composizione dei materiali (sabbie, ciottoli e massi di grandi dimensioni mescolati insieme).
Oltre che a tronco di cono (quelle sormontate da un masso), possono essere a punta, ma in tal caso sono destinate in genere a scomparire. Qua e là si incontrano anche alcune creste affilate, dal profilo seghettato.
Degradate in passato da piene, alluvioni, esercitazioni militari. Nel ‘15-18 vennero usate come poligono di tiro dall’artiglieria “taliana” (forse intenzionata a far scomparire potenziali “catalizzatori di identità” per le popolazioni indigene). E da quando gli dèi non abitano più qui, qualche danno lo hanno provocato anche i terremoti. Ma il guasto più grave, a mio avviso, potrebbe determinarlo la solita “valorizzazione”. Con rincrescimento ho fatto la scoperta di una nuova strada asfaltata a uso turistico che consente di “dominare” dall’alto lo spettacolo svuotandolo di ogni residua potenza evocativa.
Come conciliare la presenza di ingombranti quattro ruote con questo scampolo residuo di “Terra di Mezzo”?
Di passaggio nel 1494, Albrecht Dürer si limitò a raffigurarne una sola, in margine alla riproduzione di un castello locale.
Per cui, quando all’imbrunire abbandono la plaga incantata, avvolto nel silenzio sepolcrale (quasi fosse ancora echeggiato il “grido di cristallo del terrore” che ammutolisce e pietrifica) intravedo, tra la nebbiolina che allunga tentacoli come ectoplasmi e le ombre che si accingono a ingoiare le guglie, il lento procedere di un cavaliere, della Morte e del Diavolo…
N O T E