Son passati due anni da quando – il 12 ottobre 2019, nei territori del nord della Siria occupati dalla Turchia – una banda di mercenari e criminali jihadisti (il “Battaglione 123”, organico alla milizia “Ahrar al-Sharqiya” alleata di Ankara) assassinava la militante democratica curda Hevrim Xelef (Havrin Khalaf).
L’aggressione e la barbara uccisione, poi divulgate nella rete con un video, erano avvenute sull’autostrada internazionale M4, tra Soulouk e Tall Tamer, presso il villaggio di Tirwazi, nel nord del Rojava. Quel giorno, con l’appoggio dell’aviazione turca, i mercenari filo-turchi erano penetrati in Siria raggiungendo la M4 e massacrando almeno una decina di civili, tra cui Hevrim.
Nel frattempo proseguivano gli attacchi dell’esercito turco invasore contro Sere Kaniye (Ras al-Ain) e Gire Sipi (Tall Abyad).
La giovane curda, segretario generale del Partito Avvenire della Siria, era stata violentata e lapidata mentre il suo martirio veniva anche filmato. Nata nel 1984 a Derik in una famiglia politicamente impegnata, ben quattro dei suoi fratelli e una sorella, Zozan, avevano partecipato alla lotta di liberazione ed erano caduti in combattimento.
Dopo aver completato gli studi in agronomia ad Aleppo, Hevrin era ritornata a Derik partecipando alla rivoluzione del Rojava e impegnandosi nei movimenti giovanili e della società civile. Entrando anche nella direzione del consiglio per l’economia di Qamishlo. Con la proclamazione dell’amministrazione autonoma democratica (2015), era diventata copresidente aggiunto del comitato dell’energia dell’autonomia democratica del cantone di Cizière.
Nel 2018 aveva preso parte alla costituzione del Partito Avvenire della Siria nella prospettiva di tutelare tutte le componenti etniche, religiose e sociali della popolazione siriana, e il 27 marzo 2018, a Raqqa, ne veniva nominata segretario generale. Nel suo discorso aveva ribadito che la crisi politica in Siria non poteva venir risolta con le armi, ma soltanto con il dialogo tra le diverse formazioni politiche e comunità siriane. Nella prospettiva dell’autodeterminazione dei popoli.
Come aveva ricordato sua madre, intervistata presso la tomba della figlia: “Lei credeva nella pace in un sistema partecipativo tra tutte le componenti della Siria e cercava di mettere fine al conflitto armato, alla guerra sanguinosa che dura ormai da un decennio”.
Anche con l’invasione turca del nord e dell’est della Siria (ottobre 2019), Hevrim aveva continuato nel suo impegno politico e sociale, fino al giorno della brutale esecuzione. Come forse c’era da aspettarsi, nessuno è mai stato inquisito e condannato per tale crimine. Nemmeno da parte delle organizzazioni internazionali, ONU compresa.
Per sua madre, Souad Mustafa, il principale responsabile sarebbe lo stesso presidente turco, Erdogan. Sia dell’uccisione di Hevrim, sia delle molteplici violazioni dei diritti umani e del diritto dei popoli perpetrati in Rojava dai militari turchi e dai loro complici jihadisti.
Commentando l’annuncio (luglio 2020) del dipartimento del Tesoro statunitense di voler imporre tardive sanzioni nei confronti degli islamisti di “Aharar al-Sharqiya”, la madre aveva ricordato che il leader della milizia, Hatem Amo Shara, finanziato e armato direttamente dalla Turchia, era coinvolto nel massacro degli yazidi in Afrin ed era legato ad altri capi di milizie mercenarie, gli stessi che avevano incontrato ufficialmente Erdogan nell’aprile 2018 (presumibilmente per concordare ulteriori attacchi contro i curdi in Siria).
Per cui, concludeva Souad Mustafa, “al momento di ritirarsi in gran fretta dal nord della Siria, gli Stati Uniti sapevano benissimo dove e come mia figlia era stata assassinata, ma avevano preferito chiudere gli occhi sui responsabili di questo delitto. Se avessero voluto, avrebbero potuto impedire tutti i crimini commessi dalla Turchia e gli attacchi contro la popolazione della regione”.
Ma questo, evidentemente, non rientrava nelle priorità di Washington.
E dopo un suo viaggio in Europa con numerosi interventi pubblici (anche al parlamento europeo), aveva dovuto amaramente constatare che “la democrazia e la protezione dei diritti umani [tanto sbandierati dall’Occidente quando fa comodo, vien da commentare, NdA] sono solo una copertura per l’Europa. Fanno tutto soltanto per i loro interessi. Né le Nazioni Unite, né le organizzazioni dei diritti umani e nemmeno i tribunali internazionali hanno preso posizione. E la ragione è chiara: contano di più i loro affari con il regime turco”.
È evidente che senza una precisa accusa nei confronti di Erdogan, parlare di diritto internazionale non ha alcun senso.
Quello del confederalismo democratico in Rojava è “un progetto democratico e la rivoluzione della libertà è in cammino”, ha detto ancora la madre della giovane curda massacrata, concludendo così: “Loro hanno assassinato Hevrim, ma centinaia di altre Hevrim nascono ogni giorno e si oppongono al regime fascista e sanguinario. E non staranno certo a subire passivamente l’ingiustizia”.
Ricordo che nel novembre 2020, in occasione della giornata mondiale della lotta contro le violenza nei confronti delle donne, il movimento delle donne curde in Europa ha lanciato una petizione per portare Erdogan davanti a un tribunale internazionale, accusandolo sia di crimini di guerra sia di femminicidio.
A due anni dal barbaro assassinio, un ricordo di Hevrim Xelef
nel silenzio più assoluto del femminismo da salotto