A sei anni dal pontificato del gesuita Jorge Mario Bergoglio, primo papa di nome Francesco, il corpo della Chiesa vive una preoccupante divisione. Egli è l’interprete del conflitto tra modi differenti di concepire la vita ecclesiastica: quella europea e quella latino-americana, soprattutto argentina, anche se a sei anni dalla salita al soglio pontificio non si è mai recato in visita nella sua terra natale.
Fin dai primi giorni di pontificato dette chiari segnali di cambiamento, a metà tra umiltà e discontinuità con i predecessori. Scelse di risiedere nella Casa Santa Marta, anche se i palazzi vaticani edificati per dare dignità alla Chiesa non ebbero mai la funzione di onorare i pontefici. La sua concezione di papato differisce da quella romana, mentre la dottrina e la liturgia sembrano essere fattori accidentali, e spesso egli non pare avere l’idonea visione teologica che le sue aperture determinano. Per esempio, possiamo ricordare l’accordo provvisorio del 22 settembre 2018 firmato dalla Santa Sede con la Repubblica Popolare Cinese, con l’intento di introdurre una collaborazione tra le autorità comuniste e la Chiesa, nella speranza di dare alla comunità cattolica buoni pastori.
A margine dell’intesa religiosa Francesco disse:
Ho deciso di concedere la riconciliazione ai rimanenti sette vescovi ufficiali ordinati senza mandato pontificio [nominati da Pechino] e, avendo rimosso ogni relativa sanzione canonica, di riammetterli nella piena comunione ecclesiale.
Per giungere alla piena unità della comunità cattolica in Cina, tolse le scomuniche comminate a causa di ordinazioni episcopali senza il placet papale (non ne aveva beneficiato neppure mons. Lefevbre) accettando così la nomina di “prelati nazionali” da parte di un governo comunista. Altro che realpolitik del cardinal Agostino Casaroli ai tempi della guerra fredda! Le critiche nella Chiesa sull’accordo non mancarono. Clamoroso fu il caso del cardinale Joseph Zen, 86 anni, arcivescovo emerito di Hong Kong che nel gennaio del 2018, ricevuto da Bergoglio, fece trapelare che “il Vaticano sta svendendo la Chiesa Cattolica in Cina”.
Egli è dunque un papa pragmatico. Chi l’ha conosciuto da vicino vede in lui eccezionali qualità di comando, notevole abilità di calcolo e una grande scaltrezza. Ogni suo gesto o parola non sono lasciati al caso. Agli studi preferisce la cura delle anime e, per la scelta di non parlare con un linguaggio teologicamente classico, lascia ad altri l’esposizione della dottrina. La sua priorità è la cura pastorale del popolo, e la sua predicazione si addice a questo profilo. Una religiosità vicina alla gente ma, anche alla luce della sua provenienza, apparentemente più “peronista” che apostolica. Per lui la dogmatica è materia obsoleta, lontana dal reale, mentre il suo indirizzo pastorale segue l’evoluzione storica e il mutare delle coscienze.
Egli lascia ad altri l’esposizione dei suoi dettami, compito davvero immane. L’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Gerhard Ludwig Müller, esausto, fu esonerato dal papa nel 2017 dopo aver tentato inutilmente di dissipare le ombre sull’Esortazione Apostolica post sinodale Amoris Laetizia, con parti sulla “Comunione” ai divorziati risposati.
Questo doppio registro comunicativo è servito spesso a sedurre gli esegeti progressisti del pensiero di papa Francesco e delle sue “aperture”. Tuttavia coloro che sventolano la bandiera della “sfida antropologica” al tradizionalismo, vengono spesso spiazzati proprio dallo stesso Francesco. Il 25 marzo 2019 a Loreto si è così rivolto ai fedeli: “Nella delicata situazione del mondo odierno, la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna assume un’importanza e una missione essenziali”. Discorso normale per un papa, no? Niente affatto. Qualche giorno fa si è svolto a Verona il Congresso Mondiale della Famiglia, osteggiato in modo isterico dal mondo “arcobaleno” e nel silenzio di molti vescovi che non hanno sposato l’iniziativa. Ebbene: Bergoglio, nell’èra gender, facendo un lapalissiano richiamo al valore cristiano della famiglia, sembra aver dato un segnale a favore dell’evento (anche se è stato poi corretto dall’eminenza grigia, il segretario di stato Vaticano Parolin). Apriti cielo! Sarebbe caduto in disgrazia con il gregge belante degli atei devoti, se lo stesso giorno, forse per bilanciare il suo pronunciamento, non avesse ritratto la mano mentre i fedeli tentavano di baciargli l’anello piscatorio.
Perché lo ha fatto? È stato un messaggio nello stile del papa argentino? Molti si sono interrogati sul significato del gesto, mentre il portavoce della sala stampa Vaticana, cadendo nel ridicolo, ha parlato di “motivi d’igiene”… L’anello papale o vescovile è simbolo della funzione che rivestono i prelati della Chiesa come successori degli Apostoli. Nell’atto di baciare l’anello ci si sottomette al Vicario di Cristo, non all’uomo che riveste la funzione. Non spetta al prelato, in quanto uomo, con le sue personali convinzioni, accondiscendere o no al bacio sul simbolo che porta al dito e che esprime qualcosa di più grande di lui, che lui stesso deve rispettare e far rispettare. Quando il fedele bacia l’anello manifesta la sua comunione gerarchica con l’intera Chiesa universale. Se il Papa sottrae al fedele la possibilità di esprimere la sua appartenenza, è come se lo respingesse giacché il fedele fa parte della Chiesa indipendentemente da un papa o da un vescovo. Detto questo, alla luce della sua personalità, si può azzardare che il gesto rappresenti le sue vedute pauperiste: l’anello che porta al dito non è d’oro, per sua precisa volontà, in discontinuità con i predecessori.
Ciò che fa Bergoglio non è mai casuale, sicché possiamo introdurre un’ultima lettura. L’anello è il simbolo della funzione papale; separarlo dall’atto di sottomissione dei fedeli potrebbe voler dimostrare la relativa importanza che egli dà al munus (all’ufficio). In questo modo però prevarrebbe la persona piuttosto che la funzione, che però non può essere riconducibile al punto di vista umano ma al mistero. Ed è un mistero divino come un uomo possa esercitare la funzione di vicario di Cristo in terra, sia perché il vero e unico capo della Chiesa è Cristo, sia perché il Suo vicario è solo uno strumento nelle Sue mani.
Non bisogna pensare che Bergoglio, dopo sei anni, sia fuori dal cerchia curiale, poiché con zelo ha applicato in Vaticano una sorta di spoyl sistem, anche se non è stato molto felice nella scelta delle persone spesso rimosse. Comunque sia, egli vuole distinguersi per il decisionismo che lo qualifica. All’esordio da pontefice nel luglio del 2013 commissariò l’Ordine dei Frati Francescani dell’Immacolata (fondato da padre Stefano Manelli): per aver usato il messale preconciliare del 1962 – si disse – anche se trapelò che la decisione fu presa sulla base di analisi economiche della Congregazione.
Il decreto di commissariamento recitava che “si celebrasse la liturgia secondo il rito ordinario e che l’uso della forma straordinaria avrebbe dovuto essere autorizzata dalle competenti autorità”. Un modo netto di prendere le distanze dal motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, che aveva riabilitato nel 2007 il rito latino (mai abrogato), e sopprimendo lo scorso gennaio la commissione Ecclesia Dei istituita da Giovanni Paolo II nel 1988 allo scopo di “facilitare la piena comunione con la Fraternità Sacerdotale San Pio X di Mons. Lefebvre”.
Con Bergoglio però, ancora un volta, bisogna stare attenti alle letture superficiali ed è consigliabile rileggere l’Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate, del 19 marzo 2018, nella quale al § 26 Francesco afferma:
Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio […] Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione.
In questi semplici passaggi troviamo la spiegazione della sua avversione per il monachesimo contemplativo, maschile e femminile, che la spiritualità cristiana ha prodotto in circa duemila anni di vita. Bergoglio ha una concezione pratica della fede e non stravede per l’introspezione spirituale e per l’ascetismo. L’appello che fa ai cattolici è quello di non estraniarsi dal mondo, ma di impegnarsi nella società, indicando nelle periferie esistenziali gli àmbiti di massimo interesse pastorale.
Ogni pontefice si rapporta con un gregge temporale e conosce le sue attitudini e i suoi rischi storici. Pio XII nel 1948 seppe toccare le giuste corde politico-spirituali che salvarono il popolo dalla scelta elettorale a favore del Partito Comunista Italiano. Più modestamente Francesco, sapendo che un documento apostolico sul tema ecologico era atteso da tempo, firmò l’Enciclica Laudato si: l’incipit del cantico delle creature di san Francesco d’Assisi. L’Enciclica del 24 maggio 2015 fu scritta in un’ottica tipicamente latinoamericana in cui egli mette in relazione l’ecologia umana e ambientale con questioni come povertà, uguaglianza e giustizia. Il suo scopo è quello di far interrogare i cattolici sulla trasformazione antropologica della società e far sì che si adattino concretamente a essa: “una fede che non ci interroga è una fede sulla quale dobbiamo interrogarci”.
La famosa domanda posta a se stesso, nell’estate 2013, sul volo da Rio (“Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”) e l’Esortazione post-sinodale Amoris Laetizia, di cui abbiamo detto, sono esempi del dibattito da lui introdotto sui temi etici. Atti che hanno determinato lo smarrimento (se visti alla luce delle verità sacramentali, soprattutto il capitolo VIII) non solo dei cardinali Raymond Leo Burke e Walter Brandmueller, con i dubia posti nel 2016 (che non hanno mai ottenuto risposta), ma anche dei parroci lasciati soli a interpretare i passi obiettivamente ambigui dell’Esortazione Apostolica stessa.
Comunque Francesco ha sempre una giustificazione conforme al Vangelo: “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra (Gv 8,7)”. Egli ha indetto il Giubileo straordinario della Misericordia, svoltosi tra l’8 dicembre 2015 e il 20 novembre 2016, affermando:
Questo non è il tempo per la distrazione, ma al contrario per rimanere vigili e risvegliare in noi la capacità di guardare all’essenziale. È il tempo per la Chiesa di ritrovare il senso della missione che il Signore le ha affidato il giorno di Pasqua: essere segno e strumento della misericordia del Padre […] Un Anno in cui essere toccati dal Signore Gesù e trasformati dalla sua misericordia, per diventare noi pure testimoni di misericordia.
Ecco il ritornello di Francesco: “guardare all’essenziale”; e infatti la sua azione ruota attorno alla semplificazione della fede. Egli adotta una pastorale vicina al popolo lato sensu, oltre a quello cattolico, che anzi rimprovera volentieri arrivando a dire: “Meglio atei che cristiani ipocriti”. Vuole sacerdoti “con l’odore delle pecore”.
A differenza di Giovanni Paolo II che nei diversi incontri interreligiosi (opinabili) di Assisi, plasticamente, dimostrava di voler essere il primus inter pares tra gli altri capi delle confessioni mondiali, Francesco sembra disposto a cedere quote di sovranità del cattolicesimo. La dichiarazione di Abu Dhabi del febbraio scorso – “Il pluralismo e la diversità delle religioni, il colore, il sesso, la razza e il linguaggio sono voluti da Dio nella sua saggezza, attraverso la quale ha creato gli esseri umani” – è puro relativismo. Cristo, solus Sanctus, solus Dominus, solus Altissimus, diventa in questo modo uno dei tanti aspetti di un dio qualsiasi e non più dell’Unico Dio Trinitario.
Francesco dimostra di non considerare le altre confessioni come divergenti dal Magistero, ma vede in esse possibilità di arricchimento e di dialogo. Qui l’essenza latino-americana conta poco, poiché il suo atteggiamento è nella logica della continuità del pluralismo del Concilio Vaticano II.
Nel 2017, sulle orme di Benedetto XVI, che nel 2011 aveva visitato l’ex-convento di Lutero a Erfurt in Germania per il 500° anniversario della Riforma protestante, si recò a Lund in Svezia ed entrò nella cattedrale luterana. Di fronte a un mondo religioso (e non) indifferente alla ricorrenza, dette l’impressione di essere il solo capo di un’altra confessione voglioso di ricordare l’evento che proprio questa aveva drammaticamente subìto.
Nel giugno 2015 (la prima volta per un papa) entrò nel tempio valdese, la cui costruzione era stata osteggiata da Don Bosco, eretto nel 1851 a Torino nella capitale del Regno di Sardegna, dopo l’emancipazione del 1848. Chiese scusa nel nome degli “atteggiamenti non cristiani” dei cattolici dal 1655 al 1690, anche se tali atteggiamenti sarebbero stati da ascrivere piuttosto alle guerre tra i valdesi e il Ducato di Savoia, e non alla Chiesa. Per tutta risposta, i valdesi ribatterono: “Non possiamo perdonare; commossi dalla richiesta, ma non possiamo sostituirci a quanti hanno pagato col sangue la loro testimonianza alla fede evangelica e perdonare al posto loro”.
Bisogna ammettere che negli ultimi decenni i pontefici hanno avuto intorno a sé o nel mondo prelati di scarso livello, e ci chiediamo perché non sia stato detto al papa che coloro ai quali presentava le sue scuse avevano minacciato san Giovanni Bosco: per farlo desistere dalla lotta contro la loro eresia che intendevano radicare a Torino e in Piemonte, visto che non riuscivano a sottometterlo con le dispute teologiche e dopo aver cercato in tutti i modi di corromperlo, nel 1853 tentarono di avvelenarlo.
Con il patriarca ortodosso di Mosca e di tutte le Russie andò meglio. L’incontro tra Francesco e Kirill nel 2016 produsse una “Dichiarazione Comune” caratterizzata da nette affermazioni sui valori etici che chiamano alla coerenza di comportamenti nella vita delle due Chiese. Francesco, pur definendo la Dichiarazione “solo di natura pastorale”, non s’irrigidì sui contenuti etici, chiara volontà che il patriarca pose come premessa.
Abbiamo sottolineato la natura particolare di Bergoglio, la quale pur nel suo pragmatismo, non avrebbe potuto non essere scossa dal terremoto causato dall’omofilia e dalla pedofilia, fuori e dentro le mura Vaticane.
Se facciamo astrazione dallo Spirito Santo, la cui azione per lo storico è questione a parte, sappiamo che papa Bergoglio, uscito dal conclave, avrebbe certamente ereditato una situazione esplosiva sulla faccenda degli abusi sessuali e sull’omertà da parte di alti esponenti della gerarchia.
Benedetto XVI sull’argomento aveva fatto più di ogni altro papa, compreso l’aver sottoscritto, nel 2005, l’Istruzione elaborata dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica sul divieto assoluto di accesso al sacerdozio da parte degli omosessuali. Aveva cercato di spingere le diocesi americane a risarcire le vittime degli abusi sessuali degli ecclesiastici sui minori, definiti dal suo segretario mons. George Gänswein “l’11 settembre della Chiesa”. Aveva così compiuto una svolta epocale, riconoscendo la giustizia dei tribunali oltre a quella divina.
Purtroppo, per anni Francesco, nonostante avesse ricevuto da Benedetto XVI il dossier sulla questione, non la considerò affatto una priorità. Ci pensò a svegliarlo dal torpore l’ex nunzio apostolico a Washington, Carlo Maria Viganò, il quale con il suo coraggioso memoriale di denuncia contro l’omofilia e la pedofilia nella Chiesa spinse finalmente il papa a contrastare la piaga degli abusi sessuali nel clero, non solo comminando pene canoniche con la riduzione allo stato laicale addirittura di cardinali, ma predisponendo un motu proprio sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili.