foto di Gianni Sartori
Sembra soltanto ieri e invece sono passati 40 anni. Sotto gli occhi attoniti di una vecchia Europa relativamente sazia e soddisfatta, 10 giovani repubblicani irlandesi sacrificavano la loro vita – la loro unica e sola vita – per rivendicare il riconoscimento dello status di prigioniero politico per chi venga incarcerato nel corso di una lotta di liberazione.
La morte di Bobby Sands nel 1981 ha rappresentato per molte persone un evento di quelli che segnano, cambiano la percezione della storia, della politica…
Per chi scrive le cose andarono altrimenti. Dopo una militanza – per quanto saltuaria, intermittente, part-time – iniziata grosso modo nel ‘68, dopo qualche anno ritenevo di aver concluso il mio impegno (per stanchezza esistenziale, sensazione di impossibilità nel cambiare le cose, riflusso… fate voi). E precisamente con le manifestazioni, dure a volte, cui avevo partecipato nel 1974 (prima e dopo l’esecuzione di Puig Antich) e nel 1975 con le proteste per l’uccisione di Varalli, Zibecchi, Boschi e Micciché; per concludere sempre nel 1975, ma in settembre, in seguito alla fucilazione di due etarra – Txiki e Otaegi – e di tre militanti del FRAP.
Per qualche anno mi dedicai ad altro, pur mantenendo curiosità per quanto nel mondo si muoveva e agitava (con qualche incursione nella Spagna post-franchista, per esempio…). Poi era arrivato lo sciopero della fame dei militanti repubblicani irlandesi con il tragico epilogo. Appena mi fu possibile piantai tutto (quasi tutto, a dire il vero) e partii per Belfast. Da allora sostanzialmente ho continuato, bene o male.
Colpa sua, di Bobby. Accidenti a lui che potrebbe essere ancora al mondo. Era infatti più giovane di me e la cosa mi colpì molto (fino ad allora erano stati soprattutto compagni miei coetanei a morire: Salvador Puig Antich, Saltarelli, Franco Serantini, Txiki…). A distanza di tanti anni, visto anche come sembra siano andate in realtà le cose, mi chiedo se ne valesse veramente la pena. Ma questo nulla toglie al suo coraggio e a quello degli altri nove compagni.
Sciopero della fame come atto politico
Lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze fa parte della tradizione celtica irlandese. Ma quello condotto con estrema determinazione dai prigionieri degli H Block, più che un esplicito richiamo al diritto tradizionale gaelico e alle leggi druidiche, rappresentava un atto prettamente politico all’interno di un processo collettivo di liberazione.
Sono oltre una ventina i detenuti politici irlandesi morti nel secolo scorso in sciopero della fame.
Il primo di questa lista è Thomas Ashe, uno dei protagonisti della “Pasqua di sangue” dublinese (1916), morto nel 1917 dopo essere stato costretto a ingerire cibo per forza. Nel 1920 moriva Terence McSweeney, sindaco di Cork, detenuto nel carcere di Brixton (Londra) dopo 74 giorni di sciopero della fame. Nel corso della medesima protesta morirono anche Fitzgerald Michael e Murphy Joseph. Nel 1923, durante la vera e propria guerra civile tra l’IRA e i sostenitori dello “Stato Libero”, disposti ad accettare la divisione dell’isola, nel carcere irlandese di Montioy persero la vita – dopo oltre 40 giorni di sciopero della fame – Andrew Sullivan e Dennis Barry.
Sempre in Irlanda, nel carcere di Arbour Hill, nel 1940 morirono dopo 50 giorni di sciopero della fame Jack McNeela e Tony d’Arcy. In un’altra prigione irlandese la stessa sorte toccò a Joseph Witty. Nel 1943, dopo 31 giorni di sciopero della fame e della sete, si spegneva nel carcere di Dublino il volontario dell’IRA Sean Mc Caughey.
All’inizio degli anni Settanta la situazione in Irlanda del Nord precipita: il 6 febbraio 1971 l’IRA (Irish Republican Army) uccide un soldato inglese, vittima che va ad aggiungersi ai soldati già uccisi nel 1969 dai cecchini protestanti, e la reazione non tarda; il 9 agosto dello stesso anno viene introdotto l’internamento a tempo indeterminato (quella stessa mattina 342 uomini, in prevalenza cattolici, furono arrestati) durante il quale sarà regolarmente impiegata la tortura fisica.
Si intensificano gli scontri di strada, e il 30 gennaio 1972 le truppe inglesi massacrano tredici persone inermi a Derry (“domenica di sangue”).
Due mesi dopo Londra riprende in mano direttamente l’amministrazione dell’Ulster e “concede” ai detenuti repubblicani lo status di prigionieri politici. Ma la pressione giudiziaria si fa sempre più pesante. Nel 1973 vengono introdotti i tribunali speciali, senza giuria, e nel 1974, con l’introduzione del “Prevention of terrorism act”, il fermo di polizia viene portato a sette giorni. Nel periodo immediatamente successivo lo sciopero della fame provoca altre due vittime nelle carceri inglesi: Michael Gaugham nel 1974 e Frank Staff nel 1976.
Intanto era stato revocato lo status di prigioniero politico.
Il 27 ottobre del 1980 inizia negli H Block del carcere di Long Kesh (soprannominato maze) uno sciopero della fame che – dopo essere stato sospeso a Natale e ripreso il 1° marzo 1981 – porterà alla morte di 10 militanti repubblicani. Come scrisse allora qualcuno: “I loro nomi possano vivere per sempre nella mente, nel cuore e nelle lotte di tutti gli oppressi e sfruttati del mondo. Più forti della morte”.
Quest’anno quindi cade il 40° anniversario dell’atroce morte dei dieci irlandesi. Contemporaneamente, sempre in sciopero della fame, perdeva la vita in una prigione spagnola il militante dei Grapo (Grupos de Resistencia Antifascista Primero de Octubre, nati il primo ottobre 1975 dopo le cinque fucilazioni del 27 settembre) Juan José Crespo Galende, basco.
Vorrei però ricordare anche un altro triste anniversario. Quello della scomparsa di Barry Horne, anarchico e antispecista, militante dell’ALF (Animal Liberation Front). Morto venti anni fa nel novembre 2001 sempre per le conseguenze di alcuni lunghi scioperi della fame contro la vivisezione. Un riferimento non casuale in quanto Barry Horne, uno spazzino padre di due figli, aveva iniziato il suo impegno politico, oltre che nei movimenti antifascisti, proprio nei comitati di sostegno (sorti anche in Gran Bretagna) alla causa irlandese e agli hunger strikers del 1981. Un precedente a cui si richiamerà esplicitamente durante le sue proteste in carcere.
Prima e dopo di loro, e via via fino ai nostri giorni, tanti altri prigionieri politici si sono incamminati – immolandosi – su quel sentiero senza ritorno.
Niente di nuovo per l’Eire dato che, come abbiamo visto, l’intera storia delle rivolte irlandesi era già disseminata di scioperi della fame fino alle estreme conseguenze. Invece negli anni successivi il maggior numero di vittime proviene dalla sinistra rivoluzionaria turca e curda (sia prigionieri sia amici e familiari in sciopero per solidarietà). Contando anche quelli ammazzati durante le azioni repressive per costringerli a smettere – e se non ho perso il conto – negli ultimi 30 anni sono stati circa 150. Senza dimenticare tutti quei prigionieri baschi e dei Grapo che – sottoposti all’alimentazione forzata – sopravvissero, ma rimanendone devastati fisicamente e psicologicamente.
Per la mia generazione il primo caso eclatante (se si escludono i digiuni, più che altro simbolici, di qualche pacifista o radicale) era stato quello di Holger Meins, morto a 33 anni nel carcere di Wittlich. Il militante della RAF tedesca (nome di battaglia Starbuck) era già noto e apprezzato come artista, fotografo e cineoperatore. Arrestato nel giugno del 1972, al momento del decesso (9 novembre 1974) pesava meno di 45 chili (misurava un metro e novanta di altezza). Era in sciopero della fame da circa due mesi per protestare contro le condizioni in cui versavano i detenuti politici e la morte fu una conseguenza delle lesioni interne provocate dall’uso di una cannula per l’alimentazione forzata con le stesse dimensioni del tubo digerente.
Ma torniamo a Bobby Sands.
Raramente, penso, la tragica morte di un rivoluzionario è stata altrettanto “spettacolarizzata”, mercificata, strumentalizzata.
Più di lui, soltanto Ernesto Guevara de la Serna.
Tentativi di strumentalizzazione a volte ignobili (vedi il “sidro Bobby Sands” commercializzato da CasaPound di Bozen), a volte solamente squallidi. Come un ambiguo sito dove gli articoli sull’Irlanda e sul Movimento Repubblicano si mischiavano con interventi – maleodoranti perché compiacenti – su e di personaggi come Giusva Fioravanti (interviste e lettere comprese). Alimentando quella sovrapposizione tra destra e sinistra già propagandata dai “nazi-maoisti” (uso il termine, un’aporia mediatica, per comodità) di Lotta di Popolo e da Terza Posizione. Per creare ambigue confusioni tra l’“azione” dei NAR (sostanzialmente una squadra della morte analoga a quelle lealiste UVF e UFF o a quelle antibasche, parastatali, tipo BVE e GAL) e la lotta di liberazione dei Repubblicani irlandesi. Ma su questi tentativi di mistificazione da parte dell’ultradestra (compresa quella rosso-bruna) sono già intervenuto fin troppo direi.
Ammetto invece di aver sottovalutato un altro genere di strumentalizzazione, anzi di appropriazione indebita, da parte di qualche intellettuale di estrazione borghese che, mentre beatificava Sands e compagni, contemporaneamente di fatto ne mascherava (tradiva?) l’identità sociale. Come lo stesso Sands ricordava, gli hunger strikers del 1981 provenivano tutti dalla working class. In senso lato ovviamente: anche un giovane disoccupato del Bogside o di Falls Road resta comunque “classe operaia”. Proletariato, diciamo.
Un aspetto che non emerge quasi mai, se non in forma di compiacente, aristocratico paternalismo, dagli articoli e dai volumi prodotti – a scadenza regolare, praticamente a ogni anniversario – da certi “addetti ai lavori”.
Con qualche nobile eccezione.
Per esempio, nonostante abbia forse preso una cantonata (ma sicuramente in buona fede) consentendo a una ex esponente di Terza Posizione in carriera di presentare – pubblicamente e in sede prestigiosa – la biografia di Bobby Sands, una nota giornalista e scrittrice veneta si era già guadagnata i galloni sul campo. Sia andando a indagare sulle violazioni dei diritti umani in Irlanda in tempi non sospetti (ancora nel 1982), sia – per dirne una – partecipando alla manifestazione del 1984 in cui venne ucciso Sean Downes (e continuando a fotografare anche durante il micidiale assalto della RUC).
Quanto alla tragica sequenza che vide dieci prigionieri repubblicani immolarsi nel 1981, la vicenda è relativamente nota.
La mattina del 5 maggio 1981, dopo 66 giorni, muore Robert Gerard Sands. Nato a Belfast nel 1954 da madre cattolica e padre protestante, era entrato nell’IRA a soli 18 anni. Quando morì ne aveva 27. Oggi Bobby è sepolto nel cimitero cattolico di Milltown (Belfast-Ovest), posto lungo le “Falls” (Falls Road), la famosa arteria repubblicana.
Certamente non un luogo qualsiasi per la memoria dei Repubblicani irlandesi. Qui riposano molti martiri della causa: combattenti come Bobby Sands e Joe McDonnel o semplici cittadini uccisi dalla polizia come Sean Downes.
E sempre qui – va ricordato – il 16 marzo 1988 avvenne una brutale aggressione a colpi di granate da parte di Michael Stone, un fanatico lealista dell’UDA. Al miliziano filobritannico sia le armi sia le informazioni su quali esponenti repubblicani sarebbero stati presenti alle esequie erano state fornite direttamente dagli inglesi. Qualche giorno prima le SAS – le teste di cuoio britanniche – avevano letteralmente fucilato tre militanti dell’IRA, disarmati, a Gibilterra. Quando le bare erano tornate a Belfast, i funerali vennero appunto attaccati e tre persone rimasero uccise (oltre una sessantina i feriti). Il drammatico episodio venne ripreso dalle televisioni di tutto il mondo, con il lealista che fuggiva sparando tra le tombe e cercando di raggiungere l’autostrada che costeggia il cimitero (dove presumibilmente c’era un’auto ad attenderlo). Inseguito e catturato dai partecipanti al funerale, venne consegnato illeso alle forze dell’ordine. Anche la stampa britannica ebbe parole di apprezzamento per quei giovani irlandesi che avevano agito disarmati e che, una volta catturato, lo avevano risparmiato.
Ma due giorni dopo, ai funerali delle tre vittime di Stone, un’auto si introdusse nel corteo. A bordo c’erano due uomini armati, due soldati inglesi in borghese. Circondati dalla gente che temeva un altro attacco, spararono alcuni colpi di pistola. Estratti a forza dall’auto, vennero linciati. Alla fine intervennero quelli dell’IRA che li finirono.
Il 14 maggio, dopo 59 giorni di sciopero, muore Francis Hughes di 25 anni. Soprannominato “il Che Guevara dell’Ulster”, nel ‘78 era stato arrestato e condannato all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso otto soldati inglesi.
Raimond McCreesh muore il 21 maggio, dopo 61 giorni. Entrato nell’IRA a soli 16 anni, fu arrestato nel ‘76 dopo un’imboscata contro l’esercito. Quando morì aveva 24 anni ed espresse al fratello sacerdote che l’assisteva il desiderio che la sua morte non provocasse alcuna violenza.
Patsy O’Hara si era staccato dall’IRA nel 1975 per unirsi all’INLA (Irish National Liberation Army) di Derry. Ho conosciuto i suoi genitori, visitato in più di un’occasione la loro casa e posso testimoniare sull’indubbia condizione proletaria di tale famiglia. Stando a quanto mi raccontava lo scrittore Ronan Bennet, che per un periodo ne condivise la cella, Patsy venne arrestato una prima volta per una sorta di “vendetta” da parte di un membro degli Officials (un’iniziativa personale, sottolineava), il quale nascose delle armi nella cantina per poi denunciarlo alla Royal Ulster Constabulary, la polizia. Arrestato nuovamente per la sua militanza, in carcere subì ogni tipo di violenza fisica e psichica. Morì il 21 maggio all’età di 24 anni.
Nel 2015 anche sua madre, Peggy O’Hara, se n’era andata per sempre. Oltre a una drammatica intervista in cui raccontava quei giorni di immenso dolore, di lei conservo gelosamente anche alcune foto del figlio con una toccante dedica. Qualche anno dopo era morta la mamma di Bobby Sands, Rosaleen, di cui ricordiamo il volto dolente ai funerali del figlio.
L’8 luglio 1981, dopo 61 giorni di astensione dal cibo, se ne andava Joe McDonnel, membro dell’IRA di Belfast e il più anziano del gruppo. Fra i compagni che sostituirono i primi quattro morti toccò a lui prendere il posto di Bobby Sands, insieme al quale era stato arrestato e con cui oggi è sepolto.
Martin Hurson era stato arrestato nel novembre del ‘76 per cospirazione e detenzione di esplosivi. Portato a Long Kesh, venne interrogato e torturato. Morì il 13 luglio, a 24 anni, dopo 46 giorni di sciopero della fame.
Kevin Lynch, militante dell’INLA, fu arrestato nel ‘76 in seguito all’uccisione di un poliziotto, venne torturato e condannato a dieci anni. Iniziò lo sciopero il 23 maggio e morì il 21 agosto, all’età di 25 anni.
Kieran Doherty, già attivissimo militante dell’IRA, durante lo sciopero della fame svolse un ruolo di leader, riconosciutogli dagli altri detenuti, soprattutto nei contatti con la Chiesa. La sua morte risale al 2 agosto, a 25 anni, dopo essere riuscito a sopravvivere senza cibo per 73 giorni.
Thomas McIlwee, altro esponente dell’IRA, passò la maggior parte della sua prigionia nel blocco di punizione. Quando morì, dopo 62 giorni di sciopero della fame, aveva soltanto 23 anni.
Emblematica la vita di Micki Devine. Vissuto fin da bambino in condizioni di estrema povertà (raccontò di aver spesso patito la fame), fu uno dei primi membri dell’INLA di Derry. Iniziò lo sciopero della fame a metà giugno e morì il 20 agosto, a 27 anni.
Altri due prigionieri vennero salvati quando ormai erano in coma. Uno di loro, Pat McGeown, è deceduto nel 1994. L’altro, Lawrence McKeown, scrittore e conferenziere, è rimasto segnato a livello fisico.
Ho avuto l’opportunità di incontrare McKeown negli anni ‘90 durante un giro di conferenze. Naturalmente gli chiesi dove avesse trovato la determinazione per aggiungere anche il suo nome alla lista dei volontari che avrebbero dovuto sostituire i compagni morti durante la protesta. “È praticamente impossibile”, mi aveva risposto, “capire perché siamo arrivati a questa decisione senza conoscere cosa era accaduto a Long Kesh nei cinque anni precedenti, dopo che ci era stato tolto lo status di prigionieri di guerra. Le condizioni dei prigionieri erano brutali e nessuna forma di protesta sembrava in grado di modificarle. Eravamo tutti molto giovani, tra i 20 e i 30 anni. La maggior parte quando erano entrati in carcere erano poco più che adolescenti. Tra di noi c’era molta unione, molta solidarietà e forti convinzioni politiche, le stesse che mi avevano portato a entrare nell’IRA, ben sapendo che la prospettiva della prigione e della morte era tutt’altro che remota.
Vedere con i miei occhi la dura repressione subita dai detenuti non ha fatto altro che rafforzare le mie convinzioni. Il governo britannico tentava in tutti i modi di criminalizzarci, di farci apparire come delinquenti comuni. Dovevamo ribellarci per dimostrare che le nostre scelte e le nostre azioni erano politiche, non criminali”.
Aveva poi aggiunto che “molti volontari dell’IRA prigionieri sono morti in sciopero della fame negli anni Venti, Quaranta, Settanta… E così via fino al 1981. In tutto i detenuti politici irlandesi morti durante uno sciopero della fame negli ultimi 80 anni sono 22. Di tutti loro possiamo dire che sono ‘morti perché altri fossero liberi’ (come è scritto sulla tomba di Micky Devine e Patsy O’Hara, a Derry). Anche lo status di prigioniero politico era stato ottenuto, nel 1972, con uno sciopero della fame. Venne poi ritirato nel 1976”.
La loro decisione quindi non fu certo presa alla leggera. “Per quanto mi riguarda”, proseguiva McKeown, “ero ben consapevole che questo sciopero sarebbe stato portato fino alle estreme conseguenze. Mettendo il nostro nome nella lista dei volontari non sapevamo quando sarebbe venuto il nostro turno; chi sarebbe morto e chi sarebbe sopravvissuto. Avevo pensato molto a quali sarebbero state le conseguenze per la mia famiglia. Io ero sposato ma almeno non avevo figli, diversamente da altri volontari, come Bobby Sands…”.
Le richieste fondamentali degli scioperanti di Long Kesh erano cinque, strettamente collegate alla rivendicazione dello status di prigionieri politici: non indossare uniformi carcerarie, non svolgere lavori penali, libertà di studio e associazione, possibilità di ricevere visite e pacchi, diritto alla riduzione della pena. Tali richieste, anche se in maniera non plateale e senza la reintroduzione formale dello status di prigioniero politico, vennero poi riconosciute e soddisfatte nella sostanza.
Ai primi di novembre del 1981, infatti, dopo la fine dello sciopero della fame, il ministro Prior presentava ufficialmente le sue riforme carcerarie che comportavano per i detenuti repubblicani del Maze il permesso di indossare i propri vestiti, la possibilità di beneficiare della riduzione della pena, eccetera.
Ombre sulla politica del Sinn Féin
Ma ricordando lo sciopero del 1981, ormai non è più possibile ignorare (o fingere di ignorare) quanto emerso nel frattempo. Il lato oscuro dei tragici eventi del 1981. Mi riferisco ovviamente alle trattative segrete (a questo punto sarebbe ipocrita definirle “presunte”) tra Sinn Féin e governo inglese.
Sotto accusa – sia da parte di qualche ex prigioniero, sia da alcuni familiari degli hunger strikers – proprio il leader storico del Sinn Féin, Gerry Adams.
Stando a quanto si poteva leggere nel libro Blanketmen di Richard O’Rawe (pubblicato nel 2008 e ampliato nel 2010 con Afterlives), ancora all’inizio di luglio 1981 il governo inglese avrebbe offerto agli hunger strikers una soluzione onorevole: l’accettazione di quattro delle cinque richieste. Una proposta che consentiva la sospensione dello sciopero e quindi la salvezza di almeno sei di loro. Certo, già troppo tardi per Patsy O’ Hara, la quarta vittima, ma forse ancora in tempo per Joe McDonnel (morirà l’8 luglio) e gli altri. Ma tale opportunità non sarebbe stata colta da Adams e dagli altri dirigenti del Sinn Féin (già ben avviati sul percorso elettoralistico) e nemmeno ne vennero informati i prigionieri.
Significativa la testimonianza di un ex POW (prigioniero di guerra) e HS, Gerard Hodgins.
“Due particolari circostanze”, aveva dichiarato in un’intervista, “mi hanno spinto ad accorgermi finalmente dell’inganno che Adams aveva tessuto. La prima, uno sciopero dei locali collaboratori scolastici per i salari e le condizioni lavorative, che lo Sinn Féin sostenne finché non riuscì a ottenere la carica al ministero dell’Educazione e di conseguenza la responsabilità di risolvere la questione; ma proprio allora i lavoratori in sciopero furono abbandonati e denunciati dallo Sinn Féin.
In secondo luogo, la morte, nello stesso periodo, di una delle più grandi personalità che l’umanità abbia conosciuto: Brendan Hughes. Ho assistito allo show di Gerry Adams che sputava menzogne su Brendan Hughes per la gioia dei media, e sfruttava la sua morte per costruire la propria immagine e il proprio profilo mentre le oscure voci della sua propaganda bombardavano con vili chiacchiere e pettegolezzi la memoria e l’integrità di ‘The Dark’ [il soprannome di Brendan Hughes]”.
Un esplicito riferimento alla controversa questione dell’uccisione da parte dell’IRA di Jean McCoville dietro ordine – diciamo per ora ancora presunto – di Gerry Adams. La donna, vedova e madre di dieci figli, venne assassinata nel dicembre 1972 in quanto ritenuta un’informatrice della polizia. La squadra che aveva perquisito l’abitazione della presunta spia era agli ordini di Hughes, il quale sosteneva di “non aver mai compiuto un’operazione del genere senza l’ordine o l’avallo di Gerry Adams”.
Prima di essere ammazzata, sarebbe stata sottoposta a un durissimo interrogatorio, in pratica torturata.
“Inoltre”, aggiungeva Hodgins, “ho osservato come alcuni miei ex compagni provenienti dalla mia stessa classe socio-economica [la working class] sono diventati in breve tempo altamente benestanti, in grado di permettersi automobili da 60.000 sterline e numerose proprietà in giro per l’Europa [qualche anno fa un compagno irlandese mi parlava della “Armani Brigade”, NdA] mentre le nostre aree sono rimaste i ghetti di povertà che erano durante la guerra; ogni pretesa di socialismo è stata abbandonata da una leadership che non ha esitato a saltare nel letto di una Tigre Celtica che presto avrebbe esaurito le forze. Il fascino e gli status symbol del potere divennero, ai piani alti dello Sinn Féin, più importanti dell’utilizzare quello stesso potere per il bene del popolo. Alla fine, non aspiravano che a diventare i nuovi esponenti di una classe media attenta a mantenere inalterate le istituzioni e a collezionare premi per i suoi servigi allo Stato.
Forse, l’esempio più lampante di quanto Adams e i suoi si siano ormai discostati dalle loro origini repubblicane è la loro sconcertante mancata azione per rimediare alla crisi irrisolta nella prigione di Maghaberry, dove i prigionieri repubblicani sono vittime di brutalità e di umiliazioni in scenari che hanno troppo dei giorni più bui della Blanket Protest negli H-Blocks”.
Nella stessa intervista Gerard Hodgins sosteneva che le rivelazioni sulle trattative clandestine fra Gerry Adams e il governo inglese “sono un argomento che richiederebbe di essere trattato con maggior franchezza e profondità; ma si tratta di un segreto strettamente protetto di cui né Adams né gli inglesi sembrano avere molta intenzione di discutere. No” – precisava – “non sapevo di questi colloqui durante lo sciopero della fame, e nessuno degli hunger strikers venne informato sull’estensione delle offerte britanniche. Le notizie si diffusero soltanto all’interno di una ristrettissima cerchia di persone; essenzialmente, Adams condusse l’hunger strike per giovare al suo personale obiettivo politico, e questo è reso indiscutibilmente palese non solo dal fatto che abbia rifiutato l’offerta del 5 luglio, ma anche che abbia evitato di informare gli hunger strikers del contenuto dei suoi colloqui con gli inglesi e della natura delle loro offerte”.
Altrettanto amare le dichiarazioni rese nel 2012 al “Sunday World” da Louise Devine, figlia di Mickey Devine, militante dell’Irish National Liberation Army, la decima e ultima vittima dello sciopero: “Esiste ormai una montagna di prove sull’esistenza di un’offerta degli inglesi, che fu accettata dalla direzione carceraria dell’IRA, ma venne respinta dalla dirigenza esterna [tra l’altro par di capire che l’INLA, nonostante la partecipazione dei suoi militanti allo sciopero, venne tenuta completamente all’oscuro anche solo dell’esistenza di trattative, NdA]. Se mio padre avesse saputo di quella proposta, avrebbe terminato il suo sciopero. Era un uomo giovane con due figli che adorava e meno di due anni ancora da scontare in prigione. Aveva tutte le ragioni per continuare a vivere. Invece ha trascorso sessanta giorni d’agonia ed è morto per niente, perché gli inglesi erano già disposti a soddisfare quasi tutte le richieste dei prigionieri […]. Voglio delle risposte. Avevo solo cinque anni quando ho visto mio padre agonizzare e poi morire in quel campo di concentramento che era la prigione di Long Kesh. Mi sono seduta sul suo letto e lui non riusciva neanche a vedere me e mio fratello perché era cieco. Mi ricordo le lacrime che gli colavano sul viso quando l’abbiamo lasciato per l’ultima volta”.
Fin da bambino Micki Devine era vissuto in condizioni di estrema povertà a Derry e queste esperienze lo avevano indotto a militare in un’organizzazione della sinistra rivoluzionaria. Come appunto l’INLA di cui fu uno dei primi membri a Derry. Iniziò lo sciopero della fame a metà giugno e morì il 20 agosto 1981, all’età di 27 anni.
Per inciso, tutto questo fatalmente ricorda quanto è avvenuto, se pure con modalità diverse, in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid. Una fetta consistente della dirigenza dell’ANC si è imborghesita, assimilandosi al ceto medio, mentre gran parte dei militanti di base sono rimasti a vivere da diseredati nei ghetti. Come era accaduto – tra le mie conoscenze – anche a militanti vittime di dure carcerazioni e di torture, oltre che sfuggiti per un pelo alla forca, come i “Sei di Sharpeville”.
Sempre per inciso – o per la cronaca – ancora nel 1986, anche per divergenze in merito all’astensionismo elettorale del Sinn Féin, in contrapposizione a Adams e Mc Guinnes, venne fondato da Ruari O’Bradaigh il Republican Sinn Féin (Sinn Féin Poblachtach). È opinione diffusa che il Continuity Irish Republican Army (CIRA, presumibilmente fondato ancora negli anni ottanta, ma rimasto a lungo del tutto clandestino per timore di ritorsioni interne al movimento repubblicano – una delle organizzazioni contrarie agli Accordi di Pace – abbia rappresentato l’ala militare del Republican Sinn Féin.
Ovviamente, tale imborghesimento “elettoralistico” (alla Andrea Costa per intenderci) della leadership repubblicana non avrà turbato più di tanto gli “addetti ai lavori” di estrazione borghese che da anni, a ogni scadenza e anniversario, ci riversano l’ennesima strenna sull’Irlanda e gli irlandesi. Del resto forse non sono nemmeno attrezzati per cogliere questo aspetto della faccenda. Ossia della riproduzione e riproposizione, anche all’interno delle organizzazioni un tempo rivoluzionarie, di rapporti sociali borghesi e gerarchici.
Da parte mia ritengo che l’imborghesimento e la scelta elettoralistica della dirigenza repubblicana siano solo apparentemente in antitesi con le derive militariste e giustizialiste del movimento.
In realtà in entrambe le opzioni agiscono meccanismi e logiche simili. Quelli che genericamente potremmo definire di “potere”. Una questione con cui gran parte della sinistra, sia riformista sia radicale o rivoluzionaria, non sembra aver fatto ancora bene i conti.
Il lato oscuro delle lotte di liberazione
Sull’assassinio per mano repubblicana di Jean McConville (38 anni, protestante, sposata con un cattolico, vedova e madre di dieci figli) ha indagato a fondo Patrick Radden Keefe. In particolare nel suo ultimo libro Say Nothing: A True Story of Murder and Memory in Northern Ireland (Non dire niente, Mondadori 2021). Un libro che contribuisce a sfatare buona parte del romanticismo in cui per anni era rimasta avvolta la questione irlandese.
Oltre che a quella di Brendan Hughes (1948-2008), Keefe riserva un’attenzione particolare alla biografia di altre due esponenti repubblicane: le sorelle Dolours e Marian Price. Entrambe avevano goduto di una certa notorietà anche a livello internazionale (all’inizio degli anni settanta Dolours era stata intervistata da Furio Grimaldi e dall’“Europeo”), soprattutto nel 1973-74 all’epoca di un lungo sciopero della fame (180 giorni) durante il quale vennero ripetutamente sottoposte all’alimentazione forzata. Le proteste per il trattamento da loro subìto portarono all’abolizione di tale pratica disumana (classificata da Amnesty international come una forma di tortura) in Gran Bretagna e Irlanda del Nord.
Negli ultimi anni Dolours si era in pratica autoaccusata di aver portato oltre confine (nella Repubblica) persone considerate – a torto o a ragione – traditori o spie. Tra cui Joe Lynskey e appunto Jean McConville, la cui esecuzione sarebbe stata ordinata dallo stesso Gerry Adams (in qualità di Officer Commanding della Belfast Brigade dell’IRA). È probabile che tali accuse abbiano rappresentato anche una ritorsione per il cessate-il-fuoco decretato nel 1994. Considerato un tradimento, una “svendita” delle lotte e dei sacrifici patiti dai militanti repubblicani in quanto venne dichiarato senza adeguata contropartita (ossia il ritiro delle truppe britanniche).
Inoltre Dolours Price aveva spiegato (sia a Ed Moloney che a Anthony McIntyre) come a tali operazioni avessero preso parte altri due membri dell’IRA. Di uno aveva fatto il nome (Pat McClure) mentre taceva sull’identità dell’altro (quasi sicuramente colui o colei che materialmente aveva poi assassinato Jean McConville). Le era solo sfuggito, nel corso di un’intervista registrata (e che avrebbe dovuto rimanere segreta fino alla sua morte) un particolare apparentemente insignificante. A questo militante Gerry Adams aveva chiesto di fargli da autista, ricevendone un rifiuto. Dimenticando forse di aver raccontato in un’altra occasione come la stessa proposta era stata fatta a Marian, sua sorella. E come anche lei avesse rifiutato. Solo una coincidenza?
Scomparsa nel 2013, anche Dolours è stata sepolta nel Milltown Cemetery. Al suo funerale nessun leader repubblicano, tranne l’amica Bernadette Devlin. Tra coloro che trasportarono a spalle la bara avvolta nel tricolore, anche l’ex marito, l’attore Stephen Rea, noto per aver interpretato il ruolo di Fergus, un militante dell’IRA in crisi, nel film The Crying Game (La moglie del soldato).
Invece Jean McConville (il cui cadavere, scomparso per anni, doveva riaffiorare casualmente in una spiaggia, Shelling Hill Beach, solo nel 2003) venne sepolta a Lisburn (Holy Trinity Graveyard) accanto al marito.
Ma prima la sua bara, ugualmente portata a spalla, venne simbolicamente fatta transitare davanti alla Divis Tower di Belfast. Il ghetto sotto perenne sorveglianza britannica da dove era stata violentemente prelevata, davanti ai figli terrorizzati, nel dicembre 1972.
Ovviamente sulla delicata, spinosa questione della morte di McConville e sulla polemica con Brendan Hughes ritengo sia doveroso riportare anche la versione di Gerry Adams. Quel Gerry Adams che avevo visto invecchiare – nelle foto – funerale dopo funerale e solo intravisto di persona a Belfast. Ma con cui ho avuto modo di trascorrere praticamente un’intera giornata a Venezia, il 20 maggio 1994, dove presentava il suo libro Strade di Belfast (Gamberetti Editore). Insieme ai compianti Stefano Chiarini (editore e giornalista, 1951-2007) e Terence “Cleaky” Clarke (militante dell’IRA, considerato la “guardia del corpo di Gerry Adams”, risultava coinvolto nei fatti di Milltown del 16 e del 18 marzo 1988; è deceduto il 13 giugno 2000), alla giornalista Orsola Casagrande, al regista Luca Pastore e allo scrittore Ronan Bennet.
Una coincidenza: proprio quel giorno – grazie al fax messo a disposizione da un quotidiano veneziano – Adams si era visto recapitare ventun pagine di chiarimenti in merito alle precisazioni richieste dal Sinn Féin (tramite il premier irlandese Albert Reynolds, ancora prima del Natale 1993) sulla famosa “Dichiarazione di Downing Street”. Fino a quel momento la risposta di Londra era stata lapidaria: non c’era bisogno di alcuna precisazione. Poi, inaspettatamente – e mentre Adams si trovava all’estero – ben 21 pagine di chiarimenti: “Niente male”, aveva commentato con noi a pranzo, “se pensiamo che non c’era bisogno di alcuna precisazione”.
“Conoscevo bene Brendan Hughes”, aveva dichiarato Adams, “meglio di Ed Moloney o Anthony McIntyre [rispettivamente autore e collaboratore del libro Voices from the Grave in cui veniva riportata la testimonianza di Hughes]. Lui non stava bene e non lo è stato per un periodo molto lungo, anche durante il lasso di tempo in cui ha rilasciato queste interviste. Brendan era contrario anche alla cessazione della lotta armata dell’IRA e al processo di pace. Questo era un suo diritto […]. Respingo assolutamente ogni accusa secondo cui io abbia avuto mano o preso parte all’uccisione e alla scomparsa di Jean McConville o in una qualsiasi delle altre accuse che vengono promosse da Ed Moloney”.
Per quello che posso dire, ritengo che sia Adams sia gli altri esponenti repubblicani fossero ben consapevoli di quanto la violenza dispiegata in Irlanda dall’imperialismo britannico e dai suoi “ascari” lealisti (UDA, UVF, UFF…) avesse alla fine contaminato anche la resistenza popolare, il suo stile, i suoi metodi. Per imitazione (vedi il modello militare, le divise, le gerarchie interne all’IRA, il controllo esercitato sulla comunità cattolica, gli interrogatori e le sentenze) o appunto per “contagio”. Gerry Adams me ne aveva accennato in un’intervista del 1994: “Questo, sia ben chiaro, non lo dico per escludere in qualche modo me stesso dalle responsabilità. Le responsabilità su quanto è avvenuto e avviene (mi riferisco alla violenza, agli omicidi, agli attentati…) ci sono per tutte le parti in causa. Gli inglesi hanno le loro responsabilità, gli unionisti hanno le loro responsabilità e naturalmente anche il Sinn Féin e Gerry Adams hanno le loro responsabilità. Uscire tutti da questa situazione, portare tutti, cattolici e protestanti, repubblicani e unionisti, fuori da questo conflitto è la sfida che abbiamo di fronte”.
Come già detto, in contemporanea con quelle degli irlandesi, proteste analoghe si svolgevano nelle carceri spagnole.
Allo sciopero della fame dell’inverno e della primavera del 1981 contro i maltrattamenti, le torture e il regime di isolamento totale (incomunicacion absoluta) utilizzato nel carcere di massima sicurezza di Herrera de la Mancha, aderirono inizialmente detenuti di ETA come dei GRAPO (Grupos de Resistencia Antifascista Primero de Octubre). Nonostante in seguito alcuni avessero via via rinunciato (anche, va detto, per non subire l’alimentazione forzata e questo spiega in parte la differenza di comportamento con i prigionieri irlandesi) verso la metà di maggio 1981 i prigionieri in huelga de hambre erano ancora circa una sessantina.
Crespo, un comunista basco originario Las Karreras (Bizkaia), era stato arrestato nel settembre del 1979 e condannato a 37 anni di carcere. Rinchiuso inizialmente a Carabanchel (Madrid), venne trasferito prima a Zamora e infine a Herrera (a causa sia della spettacolare evasione di cinque GRAPO nel dicembre 1979, sia delle sue azioni di protesta).
La situazione dei prigionieri, già molto dura in quelle che venivano dette “carceri di sterminio”, diventava insostenibile dopo il tentato golpe del febbraio 1981 (sembra che il generale Pardo avesse dato ordine di fucilare immediatamente i detenuti appartenenti a ETA e ai GRAPO).
Di fronte agli ulteriori inasprimenti dopo qualche giorno nelle carceri spagnole riprendevano le proteste (altri scioperi della fame della durata di circa sessanta giorni si erano svolti in precedenza).
Del resto i baschi abertzale (la sinistra indipendentista) lo hanno sempre detto e sostenuto. In realtà il tentato golpe del febbraio 1981 era in parte riuscito. O almeno la sua rappresentazione spettacolare. E ovviamente pensavano sia al peggioramento della condizione dei detenuti, sia al Piano Zen e alla ricostituzione delle squadre della morte (vedi il GAL che riciclava i mercenari del BVE).
Crespo aveva iniziato a rifiutare il cibo 14 marzo, sopravvivendo poi per altri 96 giorni.
Dal 27 aprile, insieme ad altri tre militanti della stessa organizzazione, venne portato nell’ospedale penitenziario di Carambachel. Ufficialmente per “precauzione medico-sanitaria”.
Ai primi di giugno l’amministrazione carceraria – tramite gli avvocati – proponeva un compromesso: la sospensione della protesta in cambio di un miglioramento – definito “sustancial” – della situazione carceraria. In particolare la riduzione del tempo (fino ad allora di 23 ore al giorno) in cui i prigionieri rimanevano chiusi in cella. Avrebbe riguardato soltanto le ore notturne, mentre durante il giorno potevano aver accesso al cortile e alla sala della televisione. Proposta rifiutata in quanto i prigionieri, per lunga esperienza, non si fidavano di promesse verbali, ma pretendevano un accordo scritto. Il 24 maggio 1981 sul quotidiano basco “Egin” veniva pubblicato un articolo sulla situazione di Crespo (ormai quasi cieco e senza voce) giunto al sessantesimo giorno di digiuno totale. La morte sopraggiungeva il 19 giugno. Una dozzina di altri militanti riporteranno danni irreparabili. 1)
Non vedo cos’altro potrei aggiungere che non sia già stato detto dai diretti interessati con il loro gesto così radicale e definitivo.
Per quanto mi riguarda: “In qualunque luogo mi sorprenda la morte, seppellite il mio cuore a Milltown”.
N O T E
1) Il 25 maggio 1990 moriva all’Hospital Gregorio Maranon di Madrid José Manuel Sevillano Martin, un altro esponente dei GRAPO. In huelga de hambre da 175 giorni contro la dispersione e dopo essere stato alimentato a forza. Studente-lavoratore, prima di aderire ai GRAPO Sevillano Martin aveva fatto parte del Sindicato Obreros del Campo, del Colectivo Cultural de Marchenae del Comité Anti-Otan.