Del Biafra, il mio ricordo personale più intenso risale al 1968, ad Arzignano, con l’immagine ancora vivida di un’edicola con tanti giornali che esponevano grandi foto (l’Espresso di allora?) drammatiche, strazianti: bambini africani con la pancia gonfia per il “kwashiorkor” (una grave forma di malnutrizione e di avitaminosi) e ridotti pelle e ossa. Con gli immensi occhi sgranati che sembravano interrogarti. Impossibile non sovrapporre tali immagini a quelle dell’Olocausto.
Era appunto il Biafra (Eastern Region) che l’anno prima, in maggio, era insorto proclamando la secessione dalla Nigeria. Abitato oltre che dalla popolazione maggioritaria ibibio, anche da igbo e ogoni (di questi si tornerà a parlare negli anni novanta per la questione del Delta).
La reazione di Lagos – all’epoca capitale della Nigeria, sostituita nel 1991 con Abuja – forte del sostegno britannico, rasentava il genocidio. Alla fine si parlerà di un milione di morti. In gran parte vittime, oltre che della guerra, di una devastante carestia criminalmente indotta. Conflitto documentato in tempo quasi reale grazie alla televisione e che determinò la nascita di alcune organizzazioni umanitarie (Aktion Biafrahilfe da cui deriverà la Gesellschaft für bedrohte Völker e presumibilmente anche Médecins sans Frontières).
Ma l’insorgenza era destinata alla sconfitta e il Biafra si arrendeva nel gennaio 1970 per essere reintegrato nella Nigeria.
Quanto al leader dei ribelli, il generale Ojukwu, come da manuale era scampato alla cattura fuggendo all’estero, in Costa d’Avorio. Tornerà in Nigeria solo con l’amnistia del 1982.
Quella del Biafra fu una tragedia ampiamente raccontata dai media in occidente. Sia dagli articoli che, soprattutto, dalle immagini. A volte forse anche enfatizzata, strumentalizzata a fini politici.
Si parlò esplicitamente di una “campagna mediatica” intelligentemente promossa dal dipartimento della propaganda del governo provvisorio biafrano. Dipartimento che sarebbe stato coordinato dalla Markpress, un’agenzia svizzera di pubbliche relazioni appartenente a un pubblicitario statunitense. Tra i compiti dell’agenzia, organizzare i viaggi in Biafra dei corrispondenti stranieri (tra cui il futuro scrittore Frederick Forsyth) garantendo l’ottenimento dei visti e il passaggio in aereo nonostante il blocco imposto da Lagos.
Immagini spettrali che si credeva ormai disperse nel flusso del tempo, dimenticate. E che invece, se pur in forma mano inquietante, eventi recenti hanno riportato alla memoria.
Nella notte tra il 3 e il 4 gennaio un’autobomba esplosa in Nigeria a Imo State ha ucciso quattro funzionari della sicurezza (in un primo tempo si era parlato anche di altre vittime, forse civili). L’obiettivo dell’attentato, l’ex funzionario Ikedi Ohakim, è rimasto ferito, ma non gravemente.
È l’ultimo episodio di una serie di attacchi spesso mortali, come quello del settembre 2022 costato la vita a cinque soldati nello stato di Anambra.
In entrambi i casi i responsabili venivano individuati nei separatisti del Biafra. In particolare nell’organizzazione Ipob (Popolo indigeno del Biafra). In realtà non esistono prove convincenti e la situazione dell’intera Nigeria è tutt’altro che tranquilla in generale. Negli ultimi due-tre anni si contano una cinquantina di attentati contro uffici delle commissioni elettorali.
Nonostante un candidato alle prossime presidenziali, Peter Obi, sia di etnia igbo, i separatisti dell’ipob (il cui leader Nnamadi Kanu rimane in carcere ad Abuja) hanno dichiarato pubblicamente di non volerlo sostenere. In quanto non vogliono “aver a che fare con un sistema marcio e corrotto”. Il portavoce di ipob ha anche specificato di non aver nulla a che fare con gli attentati (opera di personale altamente specializzato, professionisti), a suo avviso realizzati proprio per screditare il movimento. In ogni caso, pur sentendosi estranei alla campagna elettorale, essi non intendono assolutamente ostacolarla. Fermo restando che per quanto li riguarda l’unica soluzione accettabile è quella dell’indipendenza.