Il 24 aprile scorso ha segnato il centesimo anniversario dello sterminio degli armeni, il primo genocidio del XX secolo, un evento terribile che ha ancora ripercussioni sull’odierna a politica estera americana. Come per gli altri genocidi che sarebbero seguiti nei decenni successivi, gli Stati Uniti non trovarono il coraggio di intervenire contro quella che l’ambasciatore americano Henry Morgenthau definì “la condanna a morte di un’intera razza”.
Nel 1908, una nuovo “triumvirato” politico di alti esponenti militari aveva preso il potere in Turchia. Conosciuto come “il vecchio malato d’Europa”, l’Impero Ottomano si stava sgretolando. Aveva perso il suo territorio nei Balcani e non era più considerato una potenza mondiale. La nuova leadership aveva promesso di modernizzare e “turchizzare” l’impero. Allo scoppio della Grande Guerra, gli ottomani temevano un’invasione russa. Dopo aver perso la Battaglia di Sarikamish nel 1915, il governo turco accusò gli armeni. Il 24 aprile, ordinò l’esecuzione di leader e intellettuali armeni, che furono arrestati e giustiziati. Il 13 luglio, i dirigenti turchi emanarono un altro ordine: “Ogni armeno, senza eccezioni, deve andarsene”. In tutto l’Impero, venne data la caccia agli appartenenti a questa etnia, che morirono fuggendo nel deserto o annegati o fucilati. Le donne furono rapite, violentate, vendute come schiave o uccise. asphyxiate
I cristiani della regione implorarono l’aiuto dell’ambasciatore americano a Costantinopoli, Henry Morgenthau. Morgenthau se ne fece portavoce negli Stati Uniti, chiedendo aiuti immediati. Nel 1915, il “New York Times” pubblicò 145 articoli sull’Armenia, usando espressioni come “sterminio”, “intenzionale”, “autorizzato”, “sistematico”. Il presidente Wilson assicurò agli americani: “Gli Stati Uniti sta facendo tutto ciò che è diplomaticamente possibile per bloccare questa terribile operazione”. Dedicò anche un fine settimana di ottobre alla raccolta di fondi per armeni e siriani: sforzi a dir poco flebili, cui non fece seguito alcun aiuto militare. Nel 1923, un milione e mezzo di armeni – due terzi della popolazione – erano morti.
La realtà era che Wilson voleva mantenersi neutrale il più a lungo possibile. Non volendo intervenire, deviò l’attenzione degli americani verso la minaccia tedesca. In un discorso davanti al Congresso, Wilson dichiarò che Turchia e Bulgaria “sono meri strumenti e non si trovano sul percorso che dobbiamo necessariamente intraprendere. Andremo ovunque questa guerra ci obbligherà ad andare, ma ritengo che si debba andare soltanto dove ci conducono considerazioni immediate e pratiche, senza prestare attenzione a nient’altro”.
Il mancato intervento non sarà né il primo né l’ultimo. Ancor oggi, nel 2015, il presidente Obama si rifiuta di chiamare genocidio le atrocità in Armenia, poiché la Turchia ha minacciato di tagliare i rapporti diplomatici con l’America se lo fa. Agli occhi dei dirigenti turchi, gli eccidi non sono stati che la repressione di un movimento nazionalista sovversivo. Come nel 1915, il governo americano si sforza ancora di stare in equibrio tra autorità morale e pragmatismo politico.
da We’re History