Un luogo perfetto per ospitare un sito protostorico… ma cosa sono i misteriosi fossati che serpeggiano per centinaia di metri sulla sua superficie?
Mentre, con Google Earth, sorvolavo il Monte Giogo – o meglio lo stretto altipiano ondulato da cui è costituito – sentivo crescere una sensazione di fastidio. Più osservavo le circonvoluzioni color terra che attraversavano prati e macchie di vegetazione, più mi convincevo che ad attendermi lassù doveva esserci un vasto complesso di piste per motocross. Strano, perché il luogo sembrava remoto, distante da abitati e persino da case isolate.
Inoltre, il consueto approccio al computer per determinare i percorsi d’accesso a un luogo – un misto di tracciamento su mappe catastali georeferenziate e di conferma visiva dei sentieri con le immagini satellitari – mi suggeriva che il viaggio in fuoristrada per raggiungere il Monte Giogo non sarebbe stato né breve né agevole. 1) Ora, i motocrossisti (purtroppo) arrivano dappertutto, ma mi sembrava strano che squadre di appassionati ogni volta si sobbarcassero a una simile trasferta per raggiungere il loro punto di ritrovo.
Un insediamento d’altura?
Fatto sta che, caricata la traccia precedentemente elaborata sul cellulare, mi misi in viaggio per raggiungere quello che ovviamente non si chiama Monte Giogo, ma il cui vero nome tengo per ora riservato in attesa di studiare meglio il luogo. Anzi, era stato proprio il suo oronimo originale – che spesso attesta la presenza di insediamenti antichi – a incuriosirmi e a spingermi a visitare anche questa altura la quale, a differenza delle circostanti ugualmente poste al confine ideale tra le civiltà umbra ed etrusca, non vantava nessuna segnalazione di tipo archeologico.
In genere, come raccontavo in un precedente articolo, dal Trasimeno su verso Sansepolcro la dorsale che divide la valle del Tevere dalla Valdichiana è ricca di monti e colli appuntiti, in cima ai quali le popolazioni protostoriche hanno costruito i cosiddetti siti d’altura: rozzi santuari, castellieri, punti di osservazione, a testimoniare come il mondo italico e quello etrusco avessero qui la loro linea di scambio e interrelazione.
Negli elenchi specializzati, questi siti – sconosciuti alla quasi totalità della popolazione – vengono tutti quanti riportati, persino con qualche sovrabbondanza dovuta a generose interpretazioni di pietrami che in realtà hanno origini più recenti. Ma del Monte Giogo neanche il minimo accenno. E neppure in qualche memoria locale, in qualche cronaca degli ultimi secoli, nei resoconti di qualche estinta parrocchia. Silenzio anche dalle mappe granducali, le preziose carte ottocentesche digitalizzate e georeferenziate dalla Regione Toscana.
Ben strano, perché sia il satellite sia le mappe IGM 1:25.000 e catastali 1:10.000 mostravano chiaramente un rilievo a forma di amigdala nella parte più eminente e avanzata dell’altipiano, a un migliaio di metri d’altitudine: un plateau di 13-14.000 mq precisamente disegnato, spianato, nettamente orlato da contrafforti ripidi, come sagomati, di circa 3 metri d’altezza. Una condizione a stento naturale. 2)
Dirò di più. Arrivando dallo sterrato che sale faticosamente dalla valle e imboccato quello quasi indistinguibile che attraversa per lungo l’altipiano fino a raggiungere il misterioso plateau, ci si rende conto che il complesso del Monte Giogo è una sorta di molo che si stacca dal resto dell’orografia per spingersi verso est-sud-est, circondato per tre lati da pendici abbastanza scoscese e dotato di una vista strabiliante. E ci si guarda attorno attoniti, pensando a quale eccezionale luogo abitativo sarebbe stato in ogni secolo questo corridoio ondulato in cima al mondo, che sale senza fretta verso una terrazza da cui dominare 200 e passa gradi di territorio…
Disegni sull’altipiano
Comunque, contrariamente a ogni previsione, quando raggiunsi per la prima volta questo splendido ambiente (dove spuntano qua e là persino i rarissimi fiordalisi), non lo trovai per nulla deturpato dalle piste per motocross. E proprio qui sta l’altro mistero, quello non archeologico. Le circonvoluzioni che per centinaia di metri percorrevano l’altipiano, spingendosi anche ad attraversare il plateau, non sembravano tracciate da ruote di alcun tipo.
La sostanza è che in questo luogo, che tornai a visitare nelle diverse stagioni dell’anno, non esiste segno di pneumatici, neppure di bicicletta. Un terreno che ospita il motocross presenta di solito un fondo ampiamente rovinato, fangoso quando piove, fitto di piccoli solchi affiancati dovuti alle diverse traiettorie delle curve fino a formare piste disordinate larghe metri. Sul nostro monte, invece, osserviamo perplessi una quantità di solchi larghi e profondi in media 50-70 centimetri, a sezione semicircolare, “scavati” in modo estremamente pulito nel terreno per l’intera superficie dell’altipiano.
I fossati hanno un andamento che ricorda i tracciati ferroviari nei plastici dei fermodellisti, con tante curve e anse per mettere alla prova i convogli, tutte di forma chiusa, senza interruzioni. La prima cosa che viene in mente sono le linee di Nazca, come concetto, tranne che qui non esistono raffigurazioni di senso compiuto.
Un’altra considerazione, l’ennesima, a sfavore della “pista” è che i percorsi si spingono attraverso roveti a altri punti inagibili, ma soprattutto rasentano alberelli i cui rami inferiori sbalzerebbero di sella qualsiasi centauro, in moto o in bici che fosse. Piante magari cresciute dopo l’abbandono del circuito? Difficile: nei fossati non c’è traccia di erba, mentre qualsiasi vecchia pista abbandonata finirebbe divorata dalla vegetazione.
Se è per questo, la terra fresca e pulita, che sembra appena scavata, non reca tracce proprio di nulla. Ci sono qua e là orme di cinghiale e talvolta di lupo, ma indicano che gli animali hanno attraversato le linee ma non le hanno percorse. Malgrado ciò ho voluto chiedere il parere di un paio di esperti, un cacciatore di selezione e un rinomato studioso del lupo appenninico: entrambi hanno escluso che lupi o cinghiali si mettano a fare jogging lungo piste circolari, senza tra l’altro lasciare tracce, e soprattutto che lo facciano soltanto sul Monte Giogo.
Cosa resta? Una spiegazione geologica? Forse l’acqua, ovviamente piovana non essendoci sorgenti: l’altipiano in effetti è ondulato e le linee si inanellano anche in leggero saliscendi; tuttavia, ripeto, si tratta di circuiti chiusi e pertanto l’acqua piovana dovrebbe tracciarli scorrendo non solo in discesa ma anche in salita, per poi ricominciare il percorso all’infinito.
Qualche influsso sotterraneo? E qui qualcosa di archeologico potrebbe anche entrarci, visto lo strano comportamento di molti terreni in presenza di rovine sepolte. Per capirlo, ho cercato di recuperare le ortofoto dagli archivi regionali dalla Toscana e dall’Umbria, con risultati abbastanza interessanti. Per esempio, le riprese aeree ci raccontano che decenni fa le linee sinuose erano già presenti, ma i tracciati non erano gli stessi, mostrandosi di forma e posizione leggermente diverse a seconda dell’anno di sorvolo. Quindi nessun influsso sotterraneo “fisso”. E se invece “qualcuno” da lustri continuasse a scavarli, dove sarebbe la terra di riporto? E dove sono le tracce di eventuali macchine di scavo? Insomma, qualunque sia la causa, essa:
- non è recente
- non è collegata a eventuali insediamenti antichi
- non è di origine animale
- non è legata a veicoli meccanici
- non agisce in punti fissi
- non è stagionale
- non dipende dalle piogge
- non agevola la ricrescita di vegetali
L’assenza assoluta di terra di riporto può far pensare allo sprofondamento, ma quale cedimento del terreno disegnerebbe eleganti volute di centinaia di metri invece che buche casuali? Le quali oltretutto cambiano lentamente forma e posizione negli anni. E perché l’erba ricresce soltanto fino al bordo dello scavo?
L’unica speranza è che a qualche lettore venga in mente una soluzione, che magari sarà semplicissima e ci indurrà a darci una manata sulla fronte. A patto, sia chiaro, che non si parli di UFO…
N O T E
1) Un piccolo approfondimento. Per chi sia interessato a questo sistema di ricerca sul campo utilizzando i fuoristrada (a piedi è molto poetico e green, ma non si va lontano a 2 km orari senza potersi portare praticamente nessuna attrezzatura), il primo passo è capire se esista un modo per raggiungere la zona da investigare. Questo, in territorio italiano, si può ottenere individuando i sentieri su mappe dopo averle digitalizzate e georeferenziate, come per esempio IGM 1:25.000 o topografiche 1:10.000 (o anche meno), oppure scaricate già digitalizzate, come OpenStreetMaps e OpenTopo. Dopo avere caricato la mappa su un programma per pc tipo OziExplorer, si disegna una traccia ipotetica seguendo i sentieri; quindi la si salva in formato GPX o KML così da poterla visualizzare su GoogleEarth. Se la copertura del terreno non è troppo boscosa, potremo così verificare grazie al satellite che il sentiero esista ancora, sia abbastanza largo e non presenti troppi ostacoli. Dopo eventuali correzioni (GoogleEarth è più aggiornato e preciso delle carte), la traccia va trasferita sul telefono cellulare (il navigatore offroad per android migliore in assoluto, anche se complesso, è OruxMaps) per seguirla tramite il gps. Sul dispositivo deve ovviamente essere presente una versione apposita per l’app delle medesime mappe usate in precedenza sul computer.
Tecnologia a parte, per ricerche storiche o archeologiche è importante in alcuni casi utilizzare la cartografia IGM 25k, anche e soprattutto se si tratta di edizioni obsolete. Ci sono situazioni abbastanza frequenti in cui i tracciati rurali risalgono alla protostoria e spesso sono stati dismessi soltanto nei primi decenni del ‘900. Nella storia dell’uomo, quest’ultimo periodo – diciamo fino agli anni ’50 – rappresenta lo spartiacque per la frequentazione “naturale” delle aree rurali: con l’abbandono delle campagne e l’urbanizzazione, i sentieri a due tracce non sono più stati percorsi dai carri, i tratturi sono stati abbandonati dalle mandrie in transumanza, e le foreste si sono richiuse sugli antichi percorsi dell’uomo. Un collo di bottiglia geografico ma soprattutto culturale che solo la vecchia cartografia e i ricordi di qualche anziano riescono a superare.
2) Il plateau è di fatto un terrapieno, un terrazzamento di 177 x 110 metri, non circondato né sostenuto da manufatti visibili, con una rampa di accesso presso la base più larga dell’amigdala. In alcuni punti del pianoro sono presenti accumuli di pietre grezze. Uno di questi mucchi appartiene senza alcun dubbio a una costruzione rurale rettangolare che era visibile nelle ortofoto fino a qualche anno fa e ora è crollata.
Aggiornamento del 14 agosto. Due studiosi del suolo hanno espresso il loro parere dopo aver visionato il nostro materiale: Annamaria, dirigente geologa dell’ISPRA, e Marco, docente di Geologia stratigrafica e sedimentologica all’Università di Firenze. Mi scrive Annamaria: “Ti posso solo confermare l’origine antropica dell’altipiano [il plateau], non secondo me anche delle strane tracce. Ma tu sei sicurissimo che non siano piste di moto cross o simili? Certo, il lasso di tempo in cui compaiono è lungo… Mi spiace non ti so aiutare, ma non è nulla di ‘naturale’”.
Marco è sostanzialmente dello stesso parere: “ll rebus è davvero curioso ma non credo di poter dire nulla di sensato in termini geologici. non credo che vi possa essere una spiegazione geologica né geomorfologica (erosione da acqua) ai solchi che documenti. Da quel che vedo le tracce cambiano negli anni e quindi si tratta di un fenomeno dinamico presumibilmente di origine antropica, che quindi chiama in causa l’attuale frequentazione umana (per farci cosa non saprei…) piuttosto che quella di tempi remoti. Che sull’altipiano vi siano accumuli di rocce attestanti frequentazioni più antiche può essere, ma che queste siano collegate ai solchi la vedo dura”.
L’analisi dei due studiosi è impeccabile e spietata: così come stanno le cose, la geologia non può considerare naturali questi fenomeni. E la loro spiegazione diventa sempre più difficile.