Il sufismo – cioè l’ “altro islam”, quello che ricerca il contatto mistico e spirituale con Dio oltre le parole coraniche e i dettami ortodossi – ha anche un’espressione femminile, viva soprattutto in Turchia. Ecco il racconto di una visita a una tarika, il centro in cui si raduna la confraternita delle donne mevlevite.
Il misticismo mevlevita femminile turco ha subìto insieme all’islam ortodosso un processo di rafforzamento in virtù della politicizzazione culturale sostenuta dall’attuale Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), di cui è voce predominante l’attuale presidente della repubblica Recep Tayyip Erdoğan. Questa politica è stata perseguita dai partiti islamici alternatisi al potere sin dagli anni ‘80. Diventa quindi importante analizzare le pratiche rituali mevlevite per comprendere le forme di socialità femminile nella Turchia odierna.
Nella vita che si svolge all’interno dell’ordine mistico, le pratiche rituali mevlevite, consistenti in canti e danze, sono strettamente riservate alle adepte per i contenuti religiosi, spirituali e intimi espressi, oltre che per la segretezza e l’esclusività tipiche delle confraternite mistiche. L’accesso all’ordine è infatti subordinato all’autentica fede negli insegnamenti manifestata dalle credenti. Riservatezza generalmente rivolta anche alle estranee alla fede, per una diffidenza culturale nei confronti dell’Occidente cristiano o – ancor più grave ai loro occhi – ateo. Neppure gli uomini possono accedere alle pratiche rituali, a causa della concezione islamica per cui il “seducente” canto femminile distoglierebbe l’uomo dall’adorazione di Dio.
Dunque, nella segretezza delle confraternite mevlevite, nelle sale o negli appartamenti in cui si svolgono gli incontri, quali sono gli aspetti di dialogo e socializzazione tra donne musulmane? In che modo le fedeli si rapportano al misticismo? Quali sono i caratteri distintivi delle pratiche rituali?
Queste domande mi hanno suggestionata a tal punto da indurmi a partecipare a un incontro di fedeli a Bursa, nel settembre 2014, periodo in cui conducevo una ricerca etno-sociologica sulle cerimonie del mevlid (ricorrenza della nascita di Maometto, profeta dell’islam, durante la quale la cantante recita una serie di testi islamici) sia a Bursa sia in una cittadina poco distante, Gemlik, nell’area occidentale della Turchia affacciata sul Mar di Marmara. 1)
Il tramite con l’ordine mistico è stato un gruppo di tre cantanti (mevlithan) che officiava una delle venticinque cerimonie del mevlid a cui ho partecipato tra agosto e settembre 2014. Inizialmente mi hanno invitata a seguirle nella loro scuola coranica (madrasa), ossia in uno spazio dichiaratamente ortodosso, che però in un secondo momento si è rivelata una confraternita mevlevita. Tale apertura piuttosto insolita nei riguardi di persone estranee e non musulmane è stata probabilmente frutto di un dialogo basato su fiducia, ascolto e desiderio di conoscenza reciproca. La giovane età delle cantanti è stata un fattore aggiunto su cui basare le nostre conversazioni.
Le radici
La corrente mistica mevlevita è nata in Turchia dal pensiero e dall’esperienza del mistico Jalāl al-Dīn Rūmī, noto come Mevlana (letteralmente Nostro Signore). 2) Egli nacque nel 1207 a Balkh, un antichissimo centro spirituale zoroastriano in Afghanistan, da dove, forse per scappare dalle invasioni mongole, si spostò nella capitale selgiuchide di Konya. A Konya morì nel 1273. Istruito dal padre predicatore nelle scienze teologiche, visse una vita interamente dedita alla ricerca di Dio dal punto di vista esoterico.
Le sue dottrine religiose vertevano principalmente sulla conoscenza individuale e intima di Dio mediante particolari forme di contemplazione e di estasi. Tra queste la danza estatica, detta sema, che lo rese famoso nel mondo occidentale come capostipite dell’ordine dei dervisci rotanti. Il suo ordine trovava seguito nella classe medio-alta urbana e contava molti poeti e musicisti. 3)
La corrente mevlevita nasceva come tutti gli altri sufismi dal bisogno intimo di “entusiastica aderenza al divino”, laddove la Legge di Dio con le sue prescrizioni (l’adempimento dei cinque pilastri dell’islam) e le sue norme non riusciva a colmare la necessità di scoprire l’essenza divina. 4) A tal fine, i mistici ricercavano significati nascosti sotto quelli letterali della parola del Corano e della Sunna, la Tradizione di detti (non detti) e fatti (non fatti) del Profeta (‘ilm al batin, scienza conoscitiva dell’interiorità). Per i sufi, la figura di Maometto rappresentava l’Eletto di Dio, un modello di credente a cui fare riferimento nelle azioni, nei pensieri e nei sentimenti, pur essendo un semplice essere umano. La bellezza di Maometto non era altro che un “riflesso meramente fenomenico della divina”. 5) L’amore e l’ammirazione che i mistici provavano nei confronti del Profeta erano modi per venerare “quel riflesso divino” 6) sulla terra, per adorare quindi Dio e per elevarsi al di là del mondo dei sensi al fine di raggiungere spiritualmente il Creatore. Amare il Profeta significava amare Dio.
Osservazioni su un ritrovo di fedeli nella tarika mevlevi
La mia visita ha luogo nel primo pomeriggio di un venerdì di settembre nel quartiere Değirmenönü di Bursa. La tarika – termine con il significato di “via”, “strada” verso Dio e riferito alla confraternita – è situata in un appartamento al primo piano di un edificio basso e dimesso, che non presenta segni di attività interna probabilmente per la necessità di mantenere una sua segretezza. L’appartamento è diviso da un corridoio centrale che conduce, su lati opposti, a due spaziose sale piuttosto spoglie. In quella più ampia solitamente le donne eseguono le pratiche e discutono in gruppo, nell’altra si riuniscono per mangiare e conversare insieme ai bambini immersi nel gioco.
Elemento che si nota immediatamente entrando nella prima sala, è un vistoso quadro di colore verde in cui sono scritti in turco i “sette consigli per la vita” dati dal mistico Mevlana, che recitano:
- sii come il fiume nell’aiutare gli altri e per la generosità
- sii come il sole per la compassione e per la pietà
- sii come la notte nel nascondere i difetti degli altri
- sii come un morto nella furia e nel nervosismo
- sii come la terra per la modestia e l’umiltà
- sii come il mare per la tolleranza
- sii come sembri o sembra come sei.
Entrando nell’appartamento, una seguace mi spiega che alcune giovani credenti si stanno riunendo per preparare un corso coranico per bambini, un corso per suonare il ney (strumento a fiato) e un altro per imparare il sema, la danza estatica. Le attività di gruppo si svolgono il venerdì e talvolta il lunedì o il giovedì di ogni settimana. A quanto sembra si vuole rendere evidente la natura istruttiva, di svago e di socializzazione ricercata dalla confraternita, desiderosa di includere nella sua sede persone di tutte le fasce d’età.
Nel centro si riuniscono solitamente oltre cento fedeli, sebbene durante la mia visita ne abbia incontrate soltanto una quindicina. L’intera confraternita è diretta da una hoca, una maestra di circa settant’anni, divenuta tale per essere stata a suo tempo discepola di un’insegnante della stessa tarika.
Durante l’incontro la hoca, madre di una delle mevlithan conosciute alla cerimonia del mevlid, mostra una profonda conoscenza dell’islam e dei testi religiosi a partire dal Corano e dagli insegnamenti del mistico Mevlana, letti esclusivamente in lingua turca (ella non conosce la lingua araba e persiana). Le seguaci dell’ordine si rivolgono a lei per ottenere informazioni sull’islam e consigli riguardanti la propria vita intima e familiare, e per conoscere il significato di certi sogni in cui compaiono elementi legati alla religione. 7)
All’inizio del nostro incontro e dopo avermi presentata al gruppo, due giovani mevlithan chiedono alla hoca qualche parere sulla recitazione del panegirico Vesîletü’n Necât, recitato durante il mevlid e composto dal poeta turco ottomano Süleyman Çelebi, e sulla scelta più adeguata di inni e poesie da cantare. Ciò sembra essere frutto di un rapporto di fiducia e rispetto tra le giovani e la maestra, che con le sue conoscenze riesce a dar loro risposte sagge e mature.
Nella sala dove vengo introdotta, le donne capeggiate dalla hoca sono immerse nella pratica tesbih e nella recitazione di inni e di poesie. Il tesbih è un atto devozionale, una forma di zikr (menzione di Dio), che prevede la ripetizione di brevi espressioni in lode a Dio servendosi, per il calcolo, di una corona di grani. L’espressione “Gloria a Dio” viene ripetuto 33 volte, “Grazie a Dio” 33 volte e “Dio è grande” 34 volte. Le 100 menzioni indicano i 100 nomi di Dio. Il centesimo nome è in realtà sconosciuto e ricercato dai mistici poiché completa la conoscenza dell’essenza divina.
Durante il tesbih, le seguaci stanno sedute per terra su cuscini e materassi attorno alla hoca nella sala più spaziosa dell’appartamento. Subito dopo aver eseguito il tesbih, le donne iniziano a praticare lo zikr, la menzione di un nome di Dio, mentre la hoca improvvisa un canto di inni in lode a Maometto e al Creatore. La pratica finisce tra vivi pianti, sussulti d’estasi e preghiere silenziose. 8)
Dopo pochi minuti mi fanno cenno di spostarci nella sala dall’altro lato dell’appartamento per dare inizio al pranzo collettivo. Durante il pasto, parliamo della mia ricerca sulle cerimonie del mevlid e sul significato della leggenda relativa alla stesura del panegirico Vesîletü’n Necât. La leggenda racconta di una controversia scaturita in moschea tra un credente arabo e la comunità, per cui lo stesso poeta Çelebi, presente alla discussione, volle rispondere alla confusione e probabile miscredenza con la scrittura del panegirico suddetto. Sempre durante il pranzo la hoca mi chiede i motivi della mia mancata fede nell’islam indicandomi “la bellezza di appartenere alla religione del Corano e la profondità degli insegnamenti di Mevlana”… un evidente invito alla conversione e all’accettazione della loro fede.
Finito di conversare, una giovane donna si rivolge alla hoca per conoscere l’interpretazione di un suo recente sogno dai contenuti significativamente simbolici. Sembra, questa, una vera e propria consuetudine secolare che sappiamo aver coinvolto tra gli altri il sultano Murad III (1546-1595) e il sufi Şüca Dede dell’ordine degli halvati. Nelle numerose lettere il sultano descriveva i propri sogni ed esprimeva dubbi su problemi personali, come il matrimonio, o su questioni mistiche e spirituali. L’interpretazione dei sogni, quindi di una parte intima del sultano, e le confidenze consolidavano il legame di fiducia tra discepolo e maestro, come tuttora potrebbe avvenire nell’ordine mevlevi.
Più tardi, dopo aver raccontato la mia esperienza in una mevlevi tarikatı maschile a Istanbul, dove avevo assistito al sema nell’agosto 2013, una donna si offre di danzare. Questa danza, realizzata per la prima volta da Mevlana, consiste in una rotazione su se stessi girando attorno a una sala. Durante la rotazione, il danzatore tiene sollevato il braccio destro e volge il palmo della mano destra verso il cielo con lo scopo di ricevere i doni da Dio; il braccio sinistro resta abbassato con il palmo della mano rivolto verso terra al fine di dispensare a tutti i presenti i doni ricevuti.
Secondo la tradizione dell’ordine, il sema viene eseguito rigorosamente da uomini vestiti con un abito bianco, un mantello nero e un alto cappello di feltro marrone. Nessun altro colore o indumento sembra permesso. Diversamente da tale costume, la danzatrice porta il velo, indossa una maglia con maniche lunghe e un paio di pantaloni con sopra una pesante e lunga gonna di svariati colori. La danza, inoltre, viene effettuata tradizionalmente seguendo precise fasi rituali permeate di particolari significati simbolici. Essa necessita della presenza di musicisti esperti di specifici strumenti musicali (tef, ney), di cantori, di un gruppo di danzatori e di una persona che dirige la danza.
Rientrate nella prima sala, alcune donne m’invitano ad assistere al sema. La maestra inizia a cantare degli inni e sei donne sedute per terra cominciano a praticare lo zikr: si alzano lentamente, poi si posizionano una di fianco all’altra prendendosi sotto braccio. Mentre aumenta il ritmo della menzione di uno dei nomi di Dio, Hu!, dondolano contemporaneamente avanti e indietro. Nel frattempo la danzatrice ruota su se stessa in mezzo alla stanza, sul piede destro, aumentando la velocità delle rotazioni. La pratica si conclude nel momento in cui tutte le donne vivono simultaneamente l’estasi, quando la hoca arriva al culmine sonoro del suo canto, quando le donne raggiungono l’apice della menzione del nome di Dio, che si unisce ai movimenti sfiancanti, e quando la danzatrice, assorta nel rapimento estatico, sta per perdere il controllo della danza.
Conclusi i riti saluto le seguaci che ormai si relazionano a me con maggiore disinvoltura e interesse. Le giovani credenti e la hoca mi salutano invitandomi ad assistere nuovamente alle pratiche. Tale invito, che non ho modo di accettare per il mio imminente ritorno in Italia, mi colpisce e mi lascia il ricordo di un contesto sociale di apertura, armonia e confidenza, che andrebbe forse compreso maggiormente per poter riflettere sull’islam in Turchia.
N O T E
1) L’analisi delle cerimonie è approfondita in Crescenti M., Le cerimonie del mevlid a Bursa e Gemlik. Rito, ruolo, identità, in Ethnorêma, vol. 12, 2016.
2) Si veda Lewis B., La Sublime Porta. Istanbul e la Civiltà ottomana, Lindau, Torino 2007, p. 169. Quando Bursa divenne capitale ottomana, l’ordine mevlevi fu molto importante per la popolazione cittadina e straniera. Segni di questa presenza sono le semahaneler (sale per la danza mistica) vicino alle medrese coraniche.
3) Nel 1648, il gran maestro dell’ordine mevlevita ufficiò per la prima volta la cerimonia che contrassegnava la salita al trono del nuovo sultano: il maestro cinse il sultano con la spada di Osman. Tale atto ci spiega il forte legame tra il potere e l’ordine.
4) Bombaci A., La letteratura turca, Sansoni Accademia, Milano 1969, p. 57.
5) ibid., p.57
6) ibid., p.57
7) Negli ordini mistici, i maestri leggevano ed interpretavano i sogni dei loro discepoli. Ne sono un esempio le lettere scritte dal sultano Murad III al sufi Şüca Dede in cui raccontava i propri sogni. Le corrispondenze epistolari di tale genere interessavano i maestri fra loro e maestri e discepoli; in quest’ultimo caso le lettere riguardavano questioni personali del discepolo, come il matrimonio, o questioni mistiche e spirituali. In diversi ordini mistici, come gli halvati, di cui Murad III faceva parte, il racconto dei sogni e delle esperienze mistiche creava un solido legame di fiducia fra discepolo e maestro. A quanto pare questa pratica esiste tuttora fra alcune donne dell’ordine mevlevi.
8) Nell’ordine tutte le donne sedevano a terra. Al contrario, le partecipanti nelle cerimonie del mevlid sedevano su sedie e poltrone sia nelle case sia nelle strutture pubbliche. Durante la preghiera, la postura delle appartenenti all’ordine era particolarmente rilassata, mentre quella delle donne nel mevlid era piuttosto rigida.