Tsai Ing-wen ha vinto le elezioni presidenziali di Taiwan il 16 gennaio 2016 con un ampio margine, guadagnando oltre il 56 per cento dei voti. Questo risultato ha segnato una svolta nella democrazia di Taiwan, con il Partito Democratico Progressista che ha ottenuto la maggioranza dei seggi nello yuan legislativo (corrispondente più o meno al consiglio dei ministri). Tsai ha accettato la “volontà del popolo di Taiwan” come un segno che i cittadini volevano un cambiamento significativo alle precedenti politiche fallimentari e alle promesse mai mantenute.
Poco dopo l’insediamento, l’amministrazione Tsai si è subito impegnata a una fase di transizione per quanto riguarda la giustizia. Il piano prevede la creazione di una commissione giustizia contro gli abusi subiti dai cittadini durante il lungo periodo di legge marziale (1946-1987), nonché una dedicata agli abusi contro i cittadini autoctoni di Taiwan.
Quando la presidente ha annunciato che avrebbe presentato scuse formali alle popolazioni indigene per conto del governo, alcuni osservatori si sono rallegrati, ma numerosi altri hanno espresso dubbi sulla possibilità di effettivi cambiamenti. I più dubbiosi hanno citato la Legge di base per i popoli indigeni emanata il 5 febbraio 2005, durante l’amministrazione di Chen Shui-bian, ricordando che non aveva adeguatamente protetto i loro diritti, soprattutto quando le pratiche tradizionali entravano in conflitto con le leggi di Taiwan. Il pessimismo indigeno è rafforzato anche dalle promesse fatte dall’ex presidente Chen, mai onorate.
Tornando alle scuse formali, i leader indigeni hanno espresso la speranza di assistare a passi avanti rispetto a varie questioni, come il diritto alla terra, i diritti di caccia e l’autonomia tribale. Non è mancata la preoccupazione per possibili litigi tra i vari gruppi nativi per le limitate risorse offerte per la riconciliazione, soprattutto se il governo comprende le tribù pingpu (gli aborigeni della pianura), che non sono attualmente riconosciute. Altra preoccupazione, che le nuove politiche siano portate avanti senza una consultazione diretta con le popolazioni indigene e le comunità. Un professore alla National Dong Hwa University ha ricordato agli indigeni che la ricerca della verità e della giustizia sarà estremamente complicata, in quanto siamo di fronte a “un crimine senza colpevoli né beneficiari, ma solamente vittime”.
Ma, al di là dei timori, le scuse formali alle popolazioni autoctone di Taiwan sono state presentate il 1° agosto 2016, dichiarato ufficialmente Giornata dei Popoli Indigeni. I leader, provenienti da tutte le tribù taiwanesi riconosciute, vestiti in abiti tradizionali, sono entrati nel palazzo presidenziale dal portone principale per essere accolti dalla presidente. Dopo la chiusura delle porte i manifestanti, alcuni dei quali avevano camminato per centinaia di chilometri dai loro villaggi d’origine e si erano accampati di fronte al palazzo dalla notte precedente, hanno tentato di forzare l’ingresso per essere ascoltati. Sono stati tenuti a bada dalla polizia in assetto antisommossa e nessuno è rimasto ferito.
Il discorso della presidente è stato sostanziale ma anche circostanziato, con una netta ammissione di responsabilità. Scusandosi per “quattro secoli di dolore e di maltrattamenti”, ha ammesso che nel corso degli ultimi 400 anni ogni regime ha “brutalmente violato i diritti delle popolazioni indigene mediante invasioni armate e sequestro di terreni”. Ha riconosciuto la “cancellazione” di migliaia d’anni di storia taiwanese da parte dei governi. Ha espresso rimorso per l’erosione delle lingue e delle identità culturali attraverso politiche governative di assimilazione, in particolare contro le tribù pingpu. Si è scusata per i danni sofferti dalla tribù yami dopo lo stoccaggio di scorie nucleari su Orchid Island. Ha ammesso che alla Legge di base per i popoli indigeni non era stato dato un peso sufficiente da parte delle agenzie governative.
Da parte di Tsai, presentare scuse formali alle popolazioni indigene è stata una mossa politicamente rischiosa, in netta controtendenza alla regola non scritta degli asiatici di evitare scuse e ammissioni per salvare la faccia. Nell’offrirle, la presidente di Taiwan ha fatto quello che nessun altro capo di governo del continente aveva mai fatto. Taiwan è per ora soltanto il quarto governo al mondo a fare mea culpa di fronte ai suoi popoli indigeni.
Rispondendo ai timori di dirigenti e attivisti indigeni che si trattasse soltanto di parole non seguite dai fatti, la presidente ha accettato di discutere l’istituzione di commissioni presidenziali per esaminare le situazioni storiche e gli aspetti giuridici di transizione. Tsai ha promesso che le commissioni “daranno la massima importanza alla parità tra il Paese e i popoli indigeni”, definendole “uno strumento per il processo decisionale collettivo dalle popolazioni indigene, a garanzia che le voci dei membri tribali trovino la vera espressione”. Si è inoltre impegnata a esaminare i progetti di legge per iniziare a conferire status e diritti alle tribù pingpu; ha incaricato le agenzie competenti di indagare il processo decisionale che ha portato alla scelta di Orchid Island e di trovare una soluzione definitiva per lo stoccaggio dei rifiuti nucleari; e ha offerto un risarcimento adeguato alla tribù yami che abita sull’isola. Capen Nganaen, rappresentante del popolo yami, ha commentato: “Taiwan ha avuto molti presidenti nel corso della sua storia, ma mai prima d’ora uno che sia stato capace di offrire le sue scuse ai popoli indigeni”.