Gianni Sartori intervista Yilmaz Orkan, responsabile di UIKI, il centro informazione del Kurdistan in Italia.
Mi sembra che tuttora per i curdi in generale, non solamente in Bakur, gran parte dei problemi provenga, come già in passato, da Ankara. Non solo, appunto, nei territori curdi all’interno dei confini dello Stato turco o in Rojava sottoposto a invasione militare, ma anche nel Kurdistan del sud (Bashur), la regione curda entro i confini dell’Iraq dove Ankara interviene con decisione sia politicamente sia militarmente. Alimentando ed esasperando divisioni interne al popolo curdo e aspri contenziosi tra le sue diverse organizzazioni (in particolare tra PKK e PDK).
È possibile tracciare un quadro generale di questa intricata situazione, e in particolare di quel che comporta per le minoranze oppresse come gli yazidi?
Storicamente, soprattutto dalla caduta del regime di Saddam e la costituzione della Federazione regionale, la Turchia ha appoggiato i curdi iracheni allo scopo di alimentare conflitti tra il PDK e il PKK (oltre che con gli altri movimenti legati a quest’ultimo).
Anche nei primi giorni di novembre 2020 abbiamo assistito a nuove frizioni tra questi due partiti curdi nel nord dell’Iraq. È evidente che la Turchia – qui già illegalmente presente per combattere i guerriglieri curdi – sta spingendo i dirigenti del PDK a intervenire militarmente contro il PKK.
Non dimentichiamo poi che da quando la comunità internazionale ha riconosciuto la Regione del Kurdistan (Herema Kurdistane, federale e autonoma con capitale Erbil) e il governo regionale curdo (KRG), Ankara sembra – stando alle dichiarazioni sia di politici sia di generali turchi – essersi pentita di averla in qualche modo sostenuta, allo scopo di strumentalizzare il PDK, in quanto potrebbe costituire un pericoloso precedente. In Rojava per esempio.
Ecco perché nel gennaio 2018 l’esercito turco aveva attaccato Afrin: per impedire il costituirsi di un’altra regione autonoma curda riconosciuta a livello internazionale (stavolta magari nel nord della Siria) e avendo intuito che sia Washington sia Mosca e Damasco non avevano nessuna intenzione di proteggere il Rojava. Inizialmente il progetto era occupare in profondità per almeno trenta chilometri dal confine siriano. Per ora sono arrivati a circa 25 chilometri occupando alcune città curde.
È probabile – dato che stanno accumulando armamenti pesanti vicino alla frontiera – che sia in preparazione un nuovo attacco, un’altra invasione. I tempi, più che dal risultato delle elezioni americane, dipendono dall’atteggiamento di Russia e Iran. Infatti Assad rimane al potere in quanto ha il sostegno militare di Mosca (soprattutto aereo) e di Teheran (sul terreno), e se queste due capitali daranno parere favorevole, o comunque un tacito assenso, Erdogan non esiterà a compiere un’ulteriore invasione.
Come contropartita, la Turchia potrebbe assecondare la richiesta russa di allontanarsi dalle aree ormai controllate da Assad. Va anche ricordato che storicamente la Turchia non ha mai accettato tali confini. Ankara vede alcuni di quei territori esattamente come vede alcune isole greche e anche una parte di Iraq, ossia come territori turchi. In particolare, dato che non riconosce l’identità curda né tantomeno la nazione curda, per la Turchia tutti i territori dove vivono dei curdi sono (o dovrebbero essere) parte integrante della Turchia.
Purtroppo non si percepisce da parte della comunità internazionale e dall’ONU alcuna intenzione di fornire un riconoscimento ufficiale per la nazione curda. Così, mentre la Palestina e il Sahara Occidentale godono – nonostante tutto – di un qualche riconoscimento internazionale, per i curdi non se ne parla.
Le spropositate ambizioni turche
Tra l’altro le ambizioni turche di espandersi in altri territori non si limitano a quelli che hai citato, mi pare.
Infatti. Nelle mire della Turchia c’è anche la regione di Sengal [Sinjar, nell’Iraq nord occidentale al confine con la Siria], abitata dai curdi yazidi. Soltanto sei anni fa abbiamo assistito a un vero e proprio tentativo di genocidio nei loro confronti per mano dello Stato Islamico. A migliaia vennero massacrati (almeno un’ottantina le fosse comuni finora ritrovate), rapiti, violentati, schiavizzati. Un tentativo che non venne adeguatamente contrastato dalle milizie del PDK di Barzani che, in pratica, si defilarono abbandonando gli yazidi al loro terribile destino. Soltanto l’intervento di HPG (PKK), YPG e YPJ, tramite la costituzione di un corridoio umanitario verso il Rojava, rese possibile la salvezza di migliaia di altre potenziali vittime.
Centinaia di donne e bambine vennero vendute dall’ISIS – anche su internet – come schiave sessuali. Molti ragazzi vennero invece costretti ad arruolarsi. E altre decine, centinaia di persone morirono di stenti, talvolta di sete, durante la fuga sulle montagne. Sono oltre tremila i bambini yazidi rimasti orfani, e di altrettante donne non si sa più che fine abbiano fatto [oltre 4mila invece quelle salvate da PKK, YPG, YPJ e Forze democratiche siriane, NdA]. Quanto a profughi e sfollati interni, si parla di decine di migliaia.
E non dimentichiamo le discriminazioni a cui sono sottoposti i curdi yazidi che vivono in altre zone, come per esempio a Erbil [capoluogo della regione curda autonoma governata dal KRG], dove viene loro proibito perfino di aprire un ristorante.
Negli ultimi mesi ci sono stati nuovi accordi tra la Turchia e il PDK, accordi che hanno principalmente lo scopo di distruggere l’autonomia amministrativa, politica e anche militare (dispongono di circa settemila guerriglieri per l’autodifesa) degli yazidi.
Ovviamente quelli di Sengal dicono: “Ma voi chi siete? Come potete pretendere, dopo averci abbandonati nelle grinfie di ISIS, di venirci a governare?”. In realtà dietro tutto questo c’è sempre la Turchia. Del resto il PDK ha arruolato e addestrato a Erbil, con la collaborazione dell’intelligence turca, circa cinquemila “peshmerga” prelevati in Rojava per esautorare dall’interno anche il governo autonomo in Rojava.
Recentemente l’organizzazione delle donne Kongra Star aveva accusato l’ENKS (Consiglio Nazionale Curdo, sostanzialmente la branca siriana del PDK ), oltre che di maschilismo per aver boicottato la copresidenza paritaria, di collaborazionismo. Sia con Ankara sia con Damasco. Del resto, così come il PDK, in passato l’ENKS ha talvolta collaborato con la Turchia (per esempio all’epoca dell’invasione di Afrin nel 2018). Lo scopo è sempre quello di distruggere l’autonomia curda, in Rojava come a Sengal.
Così come – con il medesimo intento – i turchi si apprestano ad attaccare nuovamente le montagne di Qandil dove sono insediati i guerriglieri del PKK.
Per concludere. Mi sembra evidente che la Turchia non consentirà mai la nascita di una autentica autonomia curda. E questo i nostri fratelli ancora non lo capiscono. 1)
Eppure i precedenti per capire quali siano le reali e costanti intenzioni della Turchia non mancavano…
La storia ce lo insegna. Al tempo di Ataturk vennero create le fondamenta (un “sistema”) per uno Stato nazione turco dove si parlasse solo la lingua turca. Non potendo agire contro 25 milioni di curdi come fecero con altre “minoranze” (assiri, greci, yazidi, armeni…), ossia non potendo massacrarli tutti, cercarono di assimilarli. Per inciso, questo è avvenuto con altri popoli, come circassi e ceceni. All’epoca erano oltre una settantina le nazioni minorizzate presenti all’interno dei confini turchi e ora praticamente scomparse. Restano, oltre ai curdi, soltanto gli arabi nelle aree vicine alla Siria (ma anche molti di loro sono di fatto assimilati).
I curdi, oltre che più numerosi, erano culturalmente più forti. Parlavano la loro lingua, conservavano le loro tradizioni. Possedevano – e possiedono – una cultura autentica, ben radicata in quei territori e le cui origini risalgono praticamente al neolitico, si calcola a circa 12mila anni fa: vedi le città di Urfa (Riha), vedi Hasankeyf, ora forse non per caso sommersa dalle acque di una diga sul Tigri. Qui hanno prosperato diverse antiche civiltà, come accadi, sumeri, ittiti. Ma i curdi – un popolo indigeno costituito ormai da 45 milioni di persone – sono sempre lì!
Invece quella turca è una cultura costruita a tavolino, non essendosi sviluppata su queste terre (i turchi provengono presumibilmente dalla Mongolia). La stessa popolazione “turca” (soprattutto quella che vive in Anatolia) è in parte costituita da turcomanni, azeri, kirghisi, eccetera.
Potremmo definire la Turchia “uno Stato creato artificialmente”. E ciò spiegherebbe anche certi eccessi, certe forzature. Per esempio nell’insegnamento (ne parlo per esperienza diretta): nelle scuole, fino all’università, si insiste sistematicamente sulla grandezza ottomana.
Per questo dico che forse sarebbe stato più facile per noi scrollarci di dosso un colonialismo esterno (inglese, francese, portoghese…) come hanno saputo e potuto fare molte ex colonie in Medio Oriente, in Africa o in America latina.
Il confederalismo democratico: una speranza per l’umanità
Il “confederalismo democratico”: sicuramente una speranza per l’umanità, non solo per i curdi. Ma vien da chiedersi come possa funzionare in situazioni così drammatiche, sostanzialmente di guerra.
Al momento quanto ne rimane di ancora operativo?
Certo non è semplice. Soprattutto se pensiamo che in questa situazione è già difficile anche solo rimanere in piedi. Tuttavia, come ha spiegato il nostro presidente Ocalan, la lotta dei curdi in Bakur, in Rojava, a Sengal, è al 90% una lotta con l’antico feudalesimo, il maschilismo, il capitalismo, l’islamismo politico, il patriarcato, e solo al 10% contro il nemico.
Mi spiego meglio. È principalmente una battaglia ideologica, politica. È una lotta impensabile senza il confederalismo democratico e l’applicazione dei suoi princìpi. Se questo dovesse venir meno anche una vittoria militare sarebbe illusoria.
I municipi, le scuole, l’università funzionano ancora in base al paradigma che consente la convivenza tra i popoli. Per inciso, è per questo che in Rojava non li abbiamo lasciati entrare nelle città, né gli statunitensi, né i russi.
Ed è sempre per questo, per lasciar annientare quella convivenza garantita dal confederalismo democratico, che Assad quasi nemmeno protesta per l’invasione turca del suo Paese. Tantomeno Damasco protesta presso il Consiglio di Sicurezza per il dirottamento delle acque che dissetavano il nord della Siria. Così come nessuno ha richiesto l’istituzione di una no-fly zone, consentendo invece ai turchi di bombardare impunemente le aree abitate dai curdi con aerei e droni.
In sostanza, Assad preferisce lasciare alla Turchia il “lavoro sporco”, quello di distruggere l’autonomia curda. E lo stesso discorso vale per l’Iran, ovviamente.
Oggi come oggi, noi curdi abbiamo dalla nostra parte soltanto l’opinione pubblica, la solidarietà internazionale. Certo, se uno o due Stati riconoscessero la nazione curda le cose potrebbero andare diversamente.
E della prospettiva tradizionale di molte lotte di liberazione, cioè la costruzione di uno Stato per i curdi, cosa ne diresti?
Questo poteva valere in passato. Ma oggi per i curdi, e in particolare per il PKK, l’importante è la libertà. Abbiamo imparato che lo Stato nazione può diventare una trappola per i popoli. Se chiedessimo, per esempio, l’indipendenza del Rojava potrebbero scoppiare conflitti con gli armeni o con i turcomanni qui presenti. Per questo noi parliamo di una confederazione, in cui a tutti i popoli sia garantito il diritto all’autodeterminazione.
Una tua valutazione sulla questione – recentemente riesplosa – del Nagorno-Karabakh. Pensando anche a quanto è avvenuto e sta avvenendo in Francia; non solo per gli attacchi jihadisti, ma anche con le recenti aggressioni dei Lupi Grigi turchi contro cittadini francesi di origine armena.
Qualche sedicente “antimperialista” nostrano ha criticato Macron per la sua difesa a oltranza della libertà di stampa (anche per le vignette di Charlie Hebdo). Oppure viene evocato lo scontro tra una “potenza imperialista” (la Francia) e una “potenza sub-imperialista” (la Turchia), mostrando talvolta comprensione per le presunte ragioni di Ankara. Altri invece hanno parlato esplicitamente di “islamo-fascismo” alimentato da Ankara…
Cosa pensi stia accadendo in realtà?
Sul contenzioso Francia-Turchia consentimi di dire che una parte della sinistra europea non sempre ha le idee chiare. Non si tratta a mio avviso di “islamofobia” da parte della Francia, ma piuttosto di un conflitto tra due sovranità. Mi sembra evidente che dove la Turchia interviene e attacca, lì di solito ci sono interessi francesi. Il discorso vale non solo per la Libia ma anche per il Nagorno-Kabakh, visto e considerato che in Francia vivono oltre mezzo milione di armeni, in gran parte integrati, assimilati. Di conseguenza i francesi sentono di dover sostenere gli armeni, non soltanto perché questi hanno già subìto un genocidio.
Aggiungo che anche noi curdi siamo vicini agli armeni. Tra l’altro, nel Nagorno-Karabakh fino agli anni trenta del secolo scorso vivevano insieme armeni, azeri e curdi. Questi ultimi vennero deportati da Stalin in Ucraina, in Uzbekistan, in Kazakistan, in Russia, in Kirghizistan, in quanto, dato che vivevano sia al di qua che al di là delle frontiere dell’URSS, temeva che “importassero” in qualche modo il capitalismo.
Personalmente sono convinto che se Ankara non si fosse intromessa nel Nagorno-Karabakh, questa regione avrebbe potuto rimanere autonoma (anche se garantita e tutelata dall’Armenia). L’attuale conflitto è stato avviato e alimentato direttamente dalla Turchia la quale, oltre ad aerei e droni, ha inviato almeno duemila mercenari.
Quanto alle recenti prese di posizione di Parigi, come lo scioglimento dei Lupi Grigi, mi sembra si stia andando nelle giusta direzione (così come sta avvenendo anche per l’Austria).
Quello dei Lupi Grigi che hai citato è uno spettro che si aggira da tempo anche in Europa, mi pare…
Appare chiaro che i Lupi Grigi, almeno in Europa, non si muovono apertamente, ufficialmente, ma sotto l’ombrello protettivo di alcune moschee. Paradossalmente, talvolta finanziate proprio dallo Stato che le ospita (e di recente in Germania si è scoperto che parte di questi finanziamenti finivano poi in Turchia).
Attualmente AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi – Partito per la Giustizia e lo sviluppo, il partito di Erdogan) e MHP (Milliyetci Hareket Partisi – Partito del Movimento Nazionalista, sostanzialmente la vetrina politica dei Lupi Grigi) governano insieme.
Una curiosità: per nobilitare la loro origine hanno utilizzato, riciclandola, perfino la leggenda di Romolo e Remo raccontando di un mitico antenato del popolo turco allattato appunto da una lupa grigia. Ma io dico che per loro, vista l’affinità etnica con gli inuit, un simbolo più appropriato sarebbe forse il cane. Sono comunque sotto il diretto controllo dell’intelligence turca (il Mit -Milli Istihbarat Teskilati – Organizzazione di Informazione Nazionale) che li utilizza per le operazioni di guerra sporca. Sia nell’esecuzione delle tre nostre compagne assassinate in rue La Fayette a Parigi nel 2013, sia contro gli armeni che vivono in Francia.
In aprile è stata concessa un’ampia amnistia che ha portato alla liberazione di molti Lupi Grigi detenuti nelle carceri turche, in quanto si temeva che potessero rivelare segreti scomodi sui loro rapporti con i servizi segreti. Costituiscono insomma un’organizzazione molto pericolosa, con diverse “cellule dormienti”.
Per questo non credo sia giusto accusare il governo francese come “antidemocratico” per i provvedimenti recentemente adottati. Basta fare un confronto. Se attualmente in Francia ci sono circa 11.000 chiese, vi sono anche 2800 moschee. Invece in Turchia, dove le chiese distrutte si contano a migliaia, attualmente di aperte ne esistono solo un centinaio. Per non parlare di Santa Sofia che ora è diventata una moschea.
Io penso che la sinistra europea dovrebbe comprendere che l’attuale politica francese è sostanzialmente rivolta contro l’islam politico (jihadismo), non contro i musulmani. Anche noi curdi ovviamente siamo contro l’imperialismo, ma non per questo possiamo accettare passivamente l’operato della Turchia e dei seguaci dell’ISIS in Europa.
In Turchia la repressione sta colpendo soprattutto HDP (il Partito Democratico dei Popoli, un’alleanza tra movimenti curdi e sinistra turca, ecologisti, femministe, libertari, eccetera) con sindaci, esponenti politici e semplici militanti incarcerati a migliaia. Per quale ragione Erdogan infierisce così sistematicamente su questo partito?
Una premessa. Esattamente quattro anni fa, il 4 novembre 2016, la Turchia ha messo in campo un colpo di stato contro le scelte del popolo curdo arrestando alcuni deputati di HDP, tra cui il co-presidente Figen Yukseksag e Selahattin Demirtas. In nemmeno tre anni dalla sua costituzione, il partito HDP era riuscito a superare la soglia del 10% entrando nel 2015 nel parlamento turco con diversi deputati. Questo evento costituiva una sconfitta evidente per il partito di Erdogan (AKP) che per la prima volta perdeva la maggioranza parlamentare.
Parte da qui la vera e propria guerra, la sistematica criminalizzazione condotta da Erdogan contro HDP. Con migliaia di suoi esponenti arrestati, sedi politiche assalite e manifestazioni impedite con la forza. Un contesto repressivo in cui andrebbero collocati anche alcuni sanguinosi attentati come quelli di Amed (Diyarbakir) e di Ankara nel 2015.
E questo perché HDP ha indicato una via per il superamento di un sistema presidenziale senza alcun reale contropotere. Un sistema fondato su razzismo, sessismo e nazionalismo guerrafondaio, apertamente incamminato sulla via del panturchismo e del panislamismo. Un sistema in cui le minoranze etniche e religiose rischiano di scomparire (in quanto, di fatto, non sono riconosciute).
In qualità di unico valido rappresentante di un’alternativa democratica, dal 2015 il partito HDP ha visto più di 16mila suoi esponenti (tra cui 200 eletti e 7 deputati) venire arrestati. Inoltre il governo turco ha nominato una cinquantina di amministratori al posto di sindaci eletti con HDP nel 2019. Altri sei sindaci si son visti togliere il mandato con pretesti vari.
Oltre una trentina di co-sindaci di HDP eletti nel 2019 sono stati imprigionati e una quindicina di loro sta ancora dietro le sbarre. Anche quelli rilasciati rischiano comunque di tornare in prigione dato che i processi sono tuttora in corso. Rimangono poi ancora in carcere oltre 20 degli 80 sindaci curdi arrestati in precedenza, tra il 2014 e il 2019. Inoltre vengono arrestati anche molti semplici militanti che, dopo due-tre anni di carcere, si vedono interdire per almeno cinque, spesso dieci anni ogni possibilità di attività politica.
È evidente come Erdogan tenti di estromettere questo partito usando tutti gli strumenti a disposizione, istituzionali e non. Ben sapendo che in Bakur altri partiti di una certa consistenza non esistono (compresi i kemalisti di CHP, teoricamente dei socialdemocratici, ma di fatto sciovinisti, schierati a sostegno di Erdogan in tutte le sue avventure militari, dal Rojava alla Libia, al Nagorno-Karabakh).
Tutto ciò spiega perché, ogni due mesi circa, Erdogan ordina indagini e sondaggi elettorali e – vedendo che HDP si mantiene al di sopra della soglia dello sbarramento al 10% – avvia immediate azioni repressive contro sindaci e deputati. In questi giorni sta portando in parlamento una proposta di legge per togliere l’immunità a 25 deputati di HDP. Come del resto era già avvenuto per altri tre deputati: due curdi incarcerati, di cui uno ancora detenuto, e un altro di CHP, il partito kemalista (che però non era mai andato in prigione). La procedura è semplice. Per prima cosa la procura stende un’accusa, poi questa va in parlamento e viene votata.
La posizione di Assad
Qualche considerazione sul ruolo – e sul comportamento – di Assad e Damasco nei confronti del Rojava e dell’autonomia: a volte, come ho detto, si ha l’impressione che preferisca attendere e lasciare il “lavoro sporco” a Erdogan. È plausibile? E cosa puoi dirci in merito ai recenti incidenti scoppiati con alcune tribù arabe filo Assad (almeno teoricamente)?
Ricordo che con Assad ci sono stati almeno cinque incontri ufficiali in cinque anni. In Rojava chiedevamo al regime di Damasco di riconoscere l’autonomia per poi affrontare la questione di una Siria democratica. Noi non siamo separatisti, ci consideriamo siriani. Da questo punto di vista, diplomaticamente parlando, la porta per il regime è sempre aperta. Per discutere, per le trattative, per mandare via finalmente tutti gli Stati stranieri – e in particolare i mercenari – per una reale convivenza che garantisca i diritti, la cultura, l’identità di tutti.
Quelli con gli arabi sono stati a mio parere incidenti provocati artificialmente, forse dall’intelligence siriana. In parte si sono risolti con la liberazione di 631 siriani appartenenti all’ISIS (ma non colpevoli di fatti di sangue) e legati ad alcuni clan arabi che hanno garantito per loro. Ossia che non torneranno ad integrarsi con gli islamisti.
Quanto all’ISIS, in Siria rimangono ancora alcune cellule dormienti e temiamo che la Turchia possa riattivarle. In varie occasione hanno tentato di riaprire le carceri dove sono rinchiusi i miliziani jihadisti. Così come con il campo di Al-Hol.
Da parte nostra abbiamo contattato tutti i Paesi (oltre una cinquantina) i cui cittadini, in precedenza arruolati con Daesh, sono attualmente detenuti nella regione autonoma. Affinché intervengano (anche tecnicamente, inviando magistrati e funzionari), collaborando per organizzare tribunali e processi. Da parte nostra in Rojava possiamo processare i siriani, non gli stranieri.
N O T E
1) In riferimento, direi, soprattutto ai curdi del PDK. Meno ostile verso il PKK sembrerebbe la posizione dell’altro grande partito curdo in Iraq, l’UPK.