Un popolo vive fin quando vive la sua lingua; come questa si estingue, anche il popolo che la parla rischia prima o poi di estinguersi. È ciò che nel silenzio generale dell’Europa sta accadendo nella Repubblica di Lettonia, uno dei tre Stati baltici dell’ex Unione Sovietica entrati a far parte dell’Unione Europea nel 2004. Qui, pochi anni dopo la storica adesione, è morta Kristina Grizelda, l’ultima persona del popolo dei liv (o livoni) che fin dalla nascita aveva parlato la lingua natia: il livone. E dato che per i linguisti una lingua muore quando muore il suo ultimo parlante, sul livone è come se fosse stata posta una lapide tombale.
In realtà un pugno di studiosi e appassionati tra gli stessi livoni sta provando a tenerla in vita, conservando la memoria di poesie e canzoni popolari, catalogando lemmi e modi di dire, pubblicizzandola perfino su alcuni social e su internet, grazie ad alcuni siti appositamente creati.
Ma è ovvio che ciò che è perso non potrà più davvero rinascere: il livone non diventerà mai di nuovo un linguaggio di uso comune, cioè parlato abitualmente dalla gente, e di ciò sono convinte le stesse persone che con accanimento e amore si stanno sforzando di non lasciarlo morire del tutto.
Appare chiaro che, se questa lingua non la parla più nessuno dalla nascita e nessuno a maggior ragione la insegna ai figli, non ha un destino diverso: se ne possono studiare le parole, le regole grammaticali, si possono continuare a comporre poesie e testi, ma alla fine sarà soltanto una lingua morta come tante altre che l’hanno preceduta storicamente e altre che certamente la seguiranno in futuro.
E se c’è chi, leggendo questo articolo, pensa che ad analogo destino è andato incontro anche il latino (parlato da milioni di persone nell’antichità), si sbaglia: il latino non è affatto una lingua morta, non solo perché ancora ci sono Paesi, come l’Italia, in cui viene insegnato a scuola, ma soprattutto perché rimane la lingua ufficiale della Santa Sede.

Una storia drammatica

Ma chi sono i livoni che per secoli l’hanno parlata e che pure adesso non sono stati capaci di tenerla in vita? I liv (come tra loro si denominano) sono un popolo affine al finlandese e all’estone che da almeno un millennio si è stanziato nella parte sud-orientale del mar Baltico, abitando un territorio molto più vasto dell’attuale, ora limitato alle regioni di Vidzeme e di Kurzeme in Lettonia.

Probabilmente i primi insediamenti sono assai più antichi e c’è chi azzarda l’ipotesi che tribù provenienti dagli Urali abbiano raggiunto nei loro spostamenti verso occidente le coste baltiche all’incirca tremila anni prima dell’èra cristiana. Altri storici individuano invece nella collaterale migrazione delle prime tribù slave verso l’Europa l’insediamento dei livoni in questa regione, evento che sarebbe databile attorno al VI-VII secolo d.C. In ogni caso i livoni hanno occupato un territorio che si estendeva ben oltre l’attuale area della Lettonia, coprendo sicuramente la parte occidentale dell’Estonia e tutta la costa del golfo di Riga (l’attuale capitale lettone).
A loro volta i livoni erano divisi in due macro-tribù: i rāndalist (la gente della costa) a occidente, che anticamente vivevano di pesca, agricoltura e allevamento di animali; e i kalāmīed (i pescatori), dediti soprattutto alle attività marinare, dalla pesca ai commerci marittimi, stanziati più a oriente. Ciascun gruppo aveva una lingua leggermente diversa, ma entrambi in origine comprendevano ed erano compresi dai finlandesi, evidenziando così una certa unità linguistica tra i popoli del nord e del sud dell’area baltica orientale.
Controllando poi il corso dell’importante fiume Daugava (chiamato in livone Väina), le tribù dei livoni svilupparono un’economia più florida rispetto a quella dei popoli vicini, grazie soprattutto ai commerci con le popolazioni dell’isola di Gotland (oggi la più grande tra le isole svedesi, al centro del braccio di mare che separa il sud della Svezia dalla Lettonia) e con i russi, oltre che con i “cugini” finlandesi e, successivamente, anche con i vari popoli germanici e scandinavi dell’area come danesi e svedesi.
Fino a quel momento i livoni erano rimasti un popolo pagano, assai restìo a convertirsi al cristianesimo, nel frattempo abbracciato dalle tribù germaniche e slave vicine; e vani erano stati molti tentativi di convertirli, anche per mano armata, portati avanti soprattutto dai vescovi tedeschi. Fu per questo che nel 1199 l’arcivescovo Hartwig II di Brema affidò l’incarico di cristianizzare con le buone o con le cattive gli ultimi pagani del Baltico al nipote, il giovane canonico Albrecht von Buxhoeveden. Egli venne a tale scopo nominato vescovo e posto a capo della cosiddetta “crociata baltica”, aiutato in questo dai grandi feudatari imperiali e da una bolla di papa Innocenzo III secondo cui la lotta contro i pagani del Baltico sarebbe stata per i cavalieri che l’avessero portata a termine pari a una crociata in terra santa.
Fu così che nei trent’anni successivi i cavalieri teutonici, riuniti nell’ordine dei “Portaspada”, finirono col conquistare tutte le coste baltiche, cristianizzando con la forza i vari popoli che qui vivevano, tra cui i livoni, e fondando nel cuore del loro territorio Riga, che sarebbe di lì a poco divenuta la testa di ponte per l’espansione della lega anseatica sulle coste baltiche orientali.
Da allora la Livonia e i territori baltici rimasero tutti sotto il controllo tedesco, come testimoniano le antiche fortezze teutoniche disseminate a presidio e difesa dell’area. Fu tuttavia costituita la Confederazione della Livonia, in vita dal 1419 al 1560 e composta da cinque diversi territori: quello dei cavalieri Portaspada, l’arcivescovado di Riga, il vescovato di Dorpat, il vescovado di Ösel-Wiek e il vescovado di Curlandia.

A governarla fu proprio l’ordine dei Portaspada che con alterne fortune provò a difendere l’indipendenza di quei territori baltici dalle mire espansionistiche dirette del clero tedesco e dalla loro mano armata, i cavalieri teutonici. Per questo i Portaspada nel 1237 mutarono il loro nome in Ordine di Livonia, le cui vicende riguardarono essenzialmente le continue lotte di potere con le arcidiocesi e i vescovadi locali in mano ai tedeschi e con le potenze confinanti, dal Granducato di Lituania ai principati russi di Novgorod, Pskov e Mosca.
Non cessarono nemmeno i conflitti alimentati dalle mire espansionistiche degli svedesi e dei polacchi, popoli tutti interessati come i russi a conquistare quell’area costiera. Poi, nella prima metà del ‘700, lo zar Pietro il Grande riuscì a bloccare definitivamente le mire espansionistiche degli svedesi nell’area baltica orientale, e con il trattato di Nystad tutto il territorio oggi identificabile con l’Estonia e la Lettonia entrò a far parte della Russia, mentre più a sud la Lituania entrava nell’orbita polacca.
Nei decenni successivi i livoni, divisi fino a quel momento tra il cattolicesimo imposto dai cavalieri germanici e il luteranesimo portato nel frattempo dagli svedesi, iniziarono anche a convertisti al culto ortodosso, come conseguenza della profonda russificazione zarista avviata nei territori baltici, perdendo ulteriormente la libertà della loro lingua anche nelle cerimonie religiose che in qualche modo erano state in grado fino a quel momento di alimentarla. 


Una politica di assimilazione forzata e la mescolanza con i nuovi conquistatori fecero sì che i livoni e la loro cultura fossero ben presto quasi totalmente assorbiti in particolare dai lettoni, popolazione di cultura balto-slava.
La debolezza della cultura livone fu causata in particolare a metà dell’800 dal fatto che i liv si ritrovarono a occupare due aree isolate su entrambi i lati del golfo di Riga: i livoni di Salaca oltre il confine tra Lettonia ed Estonia; e i livoni di Curlandia sulla penisola di Curlandia (la “costa livoniana”), dove rimasero più esposti alle successive vicende belliche tra metà ‘800 e metà ‘900. Quest’area baltica fu infatti terreno di aspri scontri tra russi e tedeschi nel corso della prima guerra mondiale, alla fine della quale, con la capitolazione tedesca e la caduta degli zar, i popoli baltici riuscirono a ottenere, seppur per pochi anni, la tanto agognata indipendenza con la nascita delle repubbliche indipendenti di Estonia, Lettonia e Lituania, ma dalle quali scomparve di fatto definitivamente la denominazione territoriale di “Livonia”. La costa che negli ultimi secoli aveva rappresentato l’ultimo baluardo di territorio dei livoni entrò così a far parte quasi tutta del territorio assegnato alla Lettonia.
Tuttavia, tra le due guerre mondiali, la lingua e la cultura dei livoni conobbero un risveglio grazie anche all’istituzione nel 1923 della Società Livone, che si prefisse il compito di ridare vita alla lingua e alle tradizioni culturali dell’antica Livonia. Fu perfino creata una bandiera nazionale con i colori verde (per le foreste), bianco (per le spiagge) e blu (per il mare) e una struttura a bande orizzontali simile alla bandiera lettone.
Il governo di Riga approvò anche una legge che consentiva l’insegnamento della lingua livone come materia facoltativa nelle scuole elementari degli insediamenti livoni della costa, e iniziarono anche a essere pubblicati alcuni testi in tale lingua. Nel 1939 fu pure fondato il Centro Comunitario Livone di Mazirbe con fondi giunti dai governi estone e finlandese. Questo risveglio culturale del periodo interbellico fornì nuovamente alla Livonia una chiara consapevolezza della propria identità etnica.
Ma tutto finì nel 1940 allorquando l’Unione Sovietica si annesse le tre repubbliche baltiche. L’occupazione staliniana precedette di un solo anno l’invasione nazista, che pose fine definitivamente a tutti i progressi compiuti per la riaffermazione della cultura della comunità livone: ogni espressione culturale venne a quel punto proibita e addirittura la popolazione civile delle coste baltiche fu quasi tutta deportata con l’obiettivo di militarizzare il territorio, mentre agli uomini in grado di combattere fu data la possibilità di scegliere se arruolarsi nelle file dell’esercito del Reich (in particolare nella marina, trattandosi soprattutto di gente di mare) o finire nei campi di concentramento come altri popoli (ebrei e rom).
Proprio il territorio della Livonia – e in particolare la costa di Kurzeme sulla quale sorgevano dodici villaggi di pescatori da sempre considerati la culla della cultura dei livoni – fu tra le aree in cui le truppe tedesche si asserragliarono fino alla resa finale del mese di maggio del 1945, il che portò alla distruzione di fatto di quasi tutte le infrastrutture civili della regione, così come di tutte o quasi le abitazioni storiche e le vestigia che ne ricordavano l’antica cultura.
Tornati i sovietici, le deportazioni in particolare verso la Siberia (al tempo quasi spopolata) segnarono il loro ultimo destino, dopo che nell’immediato dopoguerra l’agricoltura era stata collettivizzata e la pesca proibita, così come la navigazione, per consentire la difesa militarizzata di tutta la zona costiera, completata nel cuore della guerra fredda con la realizzazione della grande base navale del Baltico nell’area di Kaliningrad, più a sud, una delle poche zone costiere a non ghiacciare mai nel corso dell’anno grazie a un clima particolarmente favorevole. Per questo furono proprio i livoni, da sempre pescatori e marinai, a essere i più duramente colpiti dalle misure repressive attuate da Stalin nei confronti delle popolazioni baltiche, misure che ebbero il loro picco tra il 1949 e il 1955, in coincidenza del periodo che intercorse tra la costituzione della nato (1949) e del patto di Varsavia (1955). 1)
Il risultato fu che già nel 1959 i livoni ancora presenti nell’area dei loro storici insediamenti baltici erano scesi ad appena tremila persone, ma solamente un sesto di costoro erano ancora capaci di usare la loro lingua almeno all’interno della sfera familiare, cioè come parlata quotidiana. 2) Ovviamente la Società Livone dopo poco più di trent’anni di vita era stata bandita e chiuso il Centro Comunitario dei Livoni, nato appena nel 1939, con la sua sede trasformata in una caserma militare sovietica.

La Livonia oggi

Con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 e la successiva indipendenza delle repubbliche baltiche, la Lettonia tornata libera ha nuovamente riconosciuto ai livoni lo status di “minoranza etnica nativa”, varando una legge per la tutela della loro lingua e della loro cultura. Contemporaneamente ha anche restituito loro i diritti e le proprietà che erano state confiscate da Stalin, tra cui il vecchio Centro Comunitario Livone di Mazirbe, oggi trasformato in sede museografica.
Nel 1992 il governo di Riga ha poi istituito un’area geografica regionale con uno status autonomistico speciale, la Līvõd rānda (costa della Livonia), comprendente tutti i dodici villaggi storici dei pescatori della Livonia: oltre a Mazirbe (Irē), Lūžņa (in livone Lūž), Miķeļtornis (Pizā), Lielirbe (Īra), Jaunciems (Ūžkilā), Sīkrags (Sīkrõg), Košrags (Kuoštrõg), Pitrags (Pitrõg), Saunags (Sǟnag), Vaide (Vaid), Kolka (Kūolka) e Melnsils (Mustānum). Inoltre, la lingua madre è stata reintrodotta in alcune delle scuole elementari di Riga, Staicele, Ventspils, Dundaga e Kolka; e nel 2018 è nato anche un ente di ricerca dedicato alla cultura livone presso l’Università della Lettonia, che ha sede nella capitale Riga.
Per mera informazione, nel 2011 un originario di quest’area, Dāvis Stalts, è stato eletto per la prima volta nel parlamento lettone; mentre nel 2018, un’altra livone, Janīna Kursīte-Pakule, illustre studiosa della storia, delle tradizioni e della lingua del suo popolo, eletta anche preside della Facoltà di Filologia dell’Università della Lettonia, è entrata in Parlamento prestando giuramento in lingua livone prima di pronunciare le stesse parole in lingua lettone.
La diaspora livoniana appare comunque ormai irreversibile, anche se alcuni membri della comunità dei livoni in “esilio” hanno iniziato a intrattenere legami con i pochi discendenti degli antenati baltici storicamente ancora presenti nell’area. Ma è del tutto impossibile che poche centinaia di persone (o forse un paio di migliaia che ancora si identificano come “liv”) possano ipotizzare la rinascita di una comunità indipendente in un territorio nazionale che non ha nemmeno un toponimo ufficiale, essendo chiamato in livone Līvõmō, in estone Liivimaa, in tedesco, in inglese e nelle lingue scandinave Livland, in lettone e lituano Livonija, in polacco Inflanty, in russo Лифляндия.

Mazirbe, Museo Storico della Livonia.

Anche la visibilità del patrimonio considerato autenticamente livoniano rimane oggi purtroppo assai scarsa, in gran parte confusa nelle informazioni o nei prodotti turistici locali esistenti. L’eredità livoniana semmai ha lasciato tracce nel paesaggio culturale, e in particolare nei toponimi. Tuttavia, a invertire il declino culturale sono iniziati almeno i raduni dei superstiti livoniani, che organizzano annualmente alcune manifestazioni: il Festival Livoniano a Mazirbe, connesso a un campo estivo per i giovani livoniani; il Festival Transfrontaliero della Livonia settentrionale ad Ainaži; e le Giornate della Cultura Livona a Ventspils, con mostre folkloristiche, convegni storici, festival di poesia e musica.

A ricordare l’esistenza di un popolo rimane la bandiera a strisce verde, bianca e blu a cui è stato affiancato anche un inno nazionale il cui testo, scritto dal poeta Kōrli Stalte, è intitolato Min izāmō (la mia patria). Parla dell’unione dei livi con il mare ed è accompagnato da una dolce melodia composta da Fredrik Pacius che – incredibile a dirsi – è anche alla base degli inni nazionali finlandese ed estone (gli altri due popoli fratelli). Ecco il testo di quest’inno:

Min izāmō, min sindimō

Min izāmō, min sindimō,
ūod ārmaz rānda sa,
kus rāndanaigās kazābõd
vel vanād, vizād piedāgõd.
Min ārmaz īlmas ūod set sa,
min tõurõz izāmō!

Min izāmō, min sindimō,
ūod ārmaz rānda sa,
kus lāinõd mierstõ vīerõbõd
un rāndan sūdõ āndabõd.
Min ārmaz īlmas ūod set sa,
min tõurõz izāmō!

Min izāmō, min sindimō,
ūod ārmaz rānda sa,
kus jelābõd īd kalāmīed,
kis mīer pǟl ātõ pǟvad īed.
Min ārmaz īlmas ūod set sa,
min tõurõz izāmō!

Min izāmō, min sindimō,
ūod ārmaz rānda sa,
kus kūltõb um vel pivā ēļ,
min amā ārmaz rāndakēļ.
Min ārmaz īlmas ūod set sa,
min tõurõz izāmō!

Mia patria, mia terra natia

Mia patria, mia terra natia,
tu sei la cara spiaggia,
dove crescono vicino alla riva
pini sempre più vecchi e possenti.
Tu sei il mio unico amore al mondo,
mia amatissima patria!

Mia patria, mia terra natia,
tu sei la cara spiaggia
dove le onde del mare si infrangono
per dare un bacio alla spiaggia.
Tu sei il mio unico amore al mondo,
mia amatissima patria!

Mia patria, mia terra natia,
tu sei la cara spiaggia
dove vivono i pescatori,
che giorno e notte sono al mare.
Tu sei il mio unico amore al mondo,
mia amatissima patria!

Mia patria, mia terra natia,
tu sei la cara spiaggia
dove si parla ancora la lingua sacra,
il mio tanto amato livone.
Tu sei il mio unico amore al mondo,
mia amatissima patria!

La cultura

Torniamo brevemente sulla lingua, che molti tra gli stessi liv considerano più nota per la sua difficoltà – oltre che per la sua quasi totale scomparsa – piuttosto che per il suo uso letterario anche nel passato (e così è in effetti). A parte alcuni testi sacri tradotti in livone tra il ‘700 e l’800, si sono conservati soprattutto testi lirici e qualche glossario; ma si tratta comunque sempre di opere sporadiche.
Il periodo di maggiore produzione letteraria, come accennavamo, è stato quello tra le due guerre mondiali, e sono state soprattutto alcune raccolte di poesia a essere pubblicate, evidenziando un forte legame tra il ritmo cadenzato dei versi e quello della musica che spesso l’accompagnava. Non a caso la figura letteraria più importante della letteratura livone è ancora ritenuta Kōrli Stalte che, come già evidenziato, è stato l’autore del testo dell’inno nazionale; sua una raccolta di poesie dal titolo Līvõ lōlõd (canzoni livone) pubblicata a Tallinn nel 1924.
Un altro autore di una certa notorietà è stato Pētõr Damberg, autore di Jemakīel lugdõbrāntõz skūol ja kuod pierast (libro di lettura della madrelingua per la scuola e la casa), che già dal titolo rivela il suo scopo di antologia della cultura e della lingua livone a uso scolastico e divulgativo. Ma l’importanza di Pētõr Damberg è legata soprattutto alle poesie da lui scritte o tradotte in livone da altre lingue (lettone, finlandese, eccetera) e al lavoro di catalogazione delle antiche manifestazioni della tradizione popolare della Livonia che lo ha impegnato per tutta la vita, con lo scopo di svilupparne la conoscenza al di fuori del suo popolo.
Oggi un portale internet, ovviamente in lingua livone, nato e sostenuto dal ministero della Cultura della Repubblica di Lettonia, dal Fondo statale per il capitale culturale e dal Centro culturale nazionale della Lettonia, raccoglie in modo organico tutte le principali informazioni sulla storia, la lingua, la cultura, le strutture museografiche, le manifestazioni in programma nel corso dell’anno e le personalità di spicco della minoranza.
Ed è soprattutto ad alcuni musei che è affidata la conoscenza e la trasmissione della cultura di questo popolo. Tra questi vi è il Latvijas Etnogrāfiskais Brīvdabas Muzejs (museo etnografico all’aperto della Lettonia), fondato nel 1924 vicino alla capitale Riga; qui, in una sua sezione, sono state trasportate e rimontate alcune strutture abitative della comunità costiera livone tra cui una storica fattoria appartenuta a un pescatore di Kurzeme, una casa nobiliare, un’abitazione-fattoria con le attrezzature per l’apicoltura, un granaio, un fienile e una stalla. In questa sezione è possibile ammirare anche una collezione di oggetti domestici, agricoli e di pesca donata al museo dalla poetessa Paulīne Kļaviņa.
Dedicato al mare e alla pesca è invece il Rojas Jūras Zvejniecības Muzejs (museo della pesca e del mare di Roja), vicino alla punta occidentale del golfo di Riga. Fondato nel 1968, il museo racconta la storia dei villaggi costieri e lo sviluppo della navigazione e delle tecniche di pesca dei liv; vi sono esposti velieri, pescherecci e barche di vario tipo, e all’interno di una “fattoria collettiva” di epoca sovietica attrezzi per la pesca e la lavorazione del pesce antichi e moderni. In estate nel cortile davanti alla fattoria si tengono anche concerti all’aperto.
A Mazirbe, sulla costa occidentale a pochi chilometri dall’estrema punta che chiude il golfo di Riga, si trova invece lo Stūrīši Lībiešu Viesu Nams un Muzejs, un museo privato appartenente a un vasto complesso agrituristico che ha riadattato a uso espositivo alcune antiche costruzioni e fattorie livoni, creando anche un percorso di visita molto interessante che include interni di abitazioni con mobili e oggetti antichi, barche e attrezzi di pesca, antichi alveari e attrezzi per l’apicoltura, eccetera.
Infine più a sud, a Ventspils, importante città portuale alla foce del fiume Venta, è imperdibile il Piejūras Brīvdabas Muzejs (museo all’aperto del mare), il quale raccoglie una grande esposizione di edifici in legno che ospitavano un tempo le case dei pescatori di quest’area, oltre a un grande mulino e a varie imbarcazioni piccole e grandi usate per la pesca o per il commercio sul Baltico.

Interni del Castello dell’Ordine di Livonia.

Nel centro storico della città si trova il Castello dell’Ordine di Livonia, costruito alla fine del ‘200 ma più volte rimaneggiato se non proprio abbattuto e riedificato ex novo; l’attuale edificio, situato sulla Jăna iela, dopo essere stato sede di un battaglione sovietico, ha perso il suo ruolo militare per ospitare il Museo di Storia e di Arte della Livonia, con una sezione archeologica-storica e una etnografica, dedicata quest’ultima al lavoro e alle tradizioni della popolazione livone di tutta la regione costiera.
Le esposizioni proseguono anche nel parco attorno al castello con alcuni antichi edifici in legno dell’800 pazientemente restaurati (abitazioni, granai, fienili, magazzini per la pesca, oltre a un mulino a vento e a una chiesetta luterana), con alcune imbarcazioni usate per la pesca e i commerci marittimi e una collezione di oltre sessanta ancore di tutte le epoche. Un altro edificio è stato trasformato per ospitare un centro espositivo di artigianato e un’aula didattica con un laboratorio di tessitura e di arte ceramica per bambini e adulti.
Tutto affinché della cultura livone nulla vada più perduto.

Museo di Kurzeme: Edrom Velde davanti alla fattoria Delini.

 

N O T E

1) L’area di Kaliningrad (città d’origine prussiana denominata Königsberg fino al 4 luglio 1946) è una sorta di corridoio tra Polonia e Lituania, quindi in realtà più a sud della storica costa della Livonia, e com’è noto è l’unico territorio rimasto alla Russia in questa zona baltica dopo la proclamazione dell’indipendenza delle tre repubbliche baltiche. Qui Mosca ha mantenuto ancora oggi la sua exclave baltica come un oblast’ militarizzato, non accessibile quindi dall’esterno se non ai militari russi e alle loro famiglie, proprio perché ancora oggi qui ha sede la strategica base della sua flotta del Baltico meridionale.
2) Ronald Wixman, Peoples of the USSR: an ethnographic handbook, Londra 2017.