A partire dal 1866, subito dopo l’annessione del Veneto all’Italia, il fenomeno dell’emigrazione ha pesantemente contraddistinto il popolo veneto; all’inizio con dimensioni bibliche quando paesi interi partivano per la Merica sperando di far fortuna, e creando un altro Veneto al di là dell’Oceano, specialmente nei tre stati meridionali del Brasile (Rio Grande do Sul, Paranà e Santa Catarina). Ancor oggi quella comunità mantiene in maniera straordinaria la propria identità linguistica, culturale e sociale. L’emigrazione è poi proseguita in maniera costante con significativi aumenti di partenze dopo le due guerre mondiali, fino agli anni sessanta, per poi ripartire in maniera consistente nei nostri giorni, quando centinaia e centinaia di venete e veneti – il più delle volte con una laurea in mano – riprendono la strada dei nostri antenati per cercare un’affermazione all’estero.
Oltre che nei cinque continenti, c’è stata anche una notevole migrazione veneta anche all’interno dello Stato italiano, sia in maniera autonoma (rivolta soprattutto verso i poli industriali lombardo e piemontese) sia “organizzata”; in quest’ultima forma vanno ricordate in particolare le tre emigrazioni portate avanti durante il ventennio: ad Arborea, nella provincia sarda di Oristano, nelle paludi pontine e – meno conosciuta anche perché numericamente assai inferiore – nella Maremma grossetana, ad Alberese.
Proprio di questa vorrei parlare, anche perché poco nota anche agli stessi veneti, prendendo spunto da un volume particolarmente interessante intitolato I Veneti di Maremma. Storia di una migrazione, di Paolo Nardini e Massimo De Benetti con fotografie di Giovanni Bredariol, edito nel 2004 dal Comune di Grosseto.
Alberese è una frazione di Grosseto, estrema propaggine del capoluogo verso i monti dell’Uccellina, un territorio piuttosto vasto e poco popolato che ospita la tenuta di Alberese. In questo contesto decisamente suggestivo, nel XI secolo veniva fondata l’abbazia benedettina di Santa Maria Alborense, poi San Rabano; essa per quasi 500 anni fu il punto di riferimento di tutta la zona per passare poi all’Ordine di Malta. Nel frattempo attorno al luogo di culto era sorto un piccolo borgo.
Nel 1839 l’abbazia fu acquistata dal granduca Ferdinando IV di Lorena, per essere poi espropriata dal Regno d’Italia durante la prima guerra mondiale in quanto considerata “bene del nemico”; per la verità c’era stato nel 1915 il tentativo degli Asburgo-Lorena di venderla alla famiglia Lante della Rovere, ma il governo italiano non riconobbe valido tale atto.
Fu così che nel 1923, dopo il decreto di esproprio del prefetto di Grosseto, la tenuta (6500 ettari) fu assegnata all’Opera Nazionale per i Combattenti (ONC). Nel 1928 iniziarono i lavori di bonifica, in quanto la zona dell’Alberese era soggetta alla malaria per il gran numero di zone acquitrinose, e nel 1930 furono costruiti i poderi da assegnare alle famiglie provenienti dal Veneto. A ciascun podere veniva assegnato un nome legato alla prima guerra mondiale: Ortigara, Bainsizza, Buccari, Cadore, Carso, Istria, Dalmazia e via discorrendo… Il podere era composto da casa colonica, stalla per sedici capi, pollaio, un annesso rustico con il forno, due recinti per i maiali, concimaia in muratura, pozzo con la pompa, abbeveratoio e lavatoio.
Va ricordato che nel 1926 il governo italiano aveva istituito il Comitato Permanente per le Migrazioni Interne, con il compito di gestire lo spostamento di grandi masse di popolazioni con l’obiettivo di evitare la corsa dei disoccupati verso le grandi città del nord.
Nel 1930 arrivarono le prime famiglie dal Veneto e l’immigrazione continuò anche nel 1931-32: in tutto arrivarono oltre un centinaio di famiglie, soprattutto dal Veneto centrale, e i cognomi lo testimoniano ancor oggi: Caoduro, Bottazzo, Casarin, Riello, Maggiotto, Pegoraro, Zorzi, Segato, Marangon, Bettiol, Perin, Zampieri, Cavallin e tanti altri…
Nel volume citato si sfogliano le fotografie dell’epoca con diverse didascalie interessanti: “Ci si sposava più fra veneti, perché… la mì moglie, il sù babbo abitava là e noi si abitava qui… era ‘na questione di vicinanza”, “Quando siamo venuti qui, loro avevano il pane sciocco, senza sale, e noi non s’era boni a mangiarlo”, “Anche il prete era veneto… quando non aveva niente da mangiare, andava a casa dei contadini e diceva ‘deme un piato de menestra anca a mi’”.
E Roberto Ferretti nel volume Segare la Vecchia e bruciare di Marzo del 1984 annotava che “ad Alberese i veneti si pongono come comunità alloglotta: continuano a parlare come nella loro terra patria e solo quando si trovano in presenza di altri si forzano di usar l’italiano”.
E ancor oggi nelle case di Alberese si sente parlar veneto, anca se sempre manco…