Nel febbraio scorso ha fatto il giro del mondo l’appello disperato di un esponente degli yazidi, il gruppo etno-religioso che sta subendo lo sterminio per mano dei terroristi islamici dell’ISIS. L’appello riassume con poche semplici parole la situazione di questo popolo, il cui territorio ancestrale è stato conquistato nell’estate 2014 dal califfato: “Per favore, aiutateci. Ci stanno uccidendo e rapendo le nostre donne e bambini “.
Può essere utile un riassunto di come i fanatici abbiano invaso l’antica patria degli yazidi nell’agosto 2014. Questa aggressione discende da una tradizione plurisecolare di attacchi da parte dei musulmani che li attorniano, arabi e turchi, e che li hanno sempre accusati di essere “adoratori del diavolo.” È la storia tragica dei seguaci di una tranquilla religione, con origini che si perdono nella notte dei tempi in Mesopotamia, la cui stessa esistenza è minacciata da una combinazione di fanatismo islamico e indifferenza delle potenze occidentali.
Inconsapevoli “adoratori del diavolo”
Per comprendere la loro religione segreta, con il mio collega professor Adam Sulkowski – che mi aveva in precedenza affiancato nell’esplorazione del regno montano degli antichi pagani kalash sul confine afghano-pakistano – decidemmo di recarci nel luogo più sacro al mondo per gli yazidi, il complesso del tempio di pietra a Lailish. Il sito è raccolto in una stretta valle tra le colline del territorio autonomo del Kurdistan iracheno, a pochi chilometri dalle prime linee contro l’ISIS. La nostra guida era uno yazidi di nome Thamer Alyas, ansioso di mostrarci questo luogo sacro che per secoli era stato precluso ai forestieri.
Mentre viaggiavamo attraverso le colline brumose del Kurdistan iracheno, Thamer spiegava che il suo popolo adora un unico Dio Creatore, proprio come i vicini musulmani curdi e arabi, e la comunità cristiana degli assiri (anch’essa presa di mira da al Qaeda in Iraq e dall’ISIS, e ridottasi dal milione e mezzo di anime del 2003 alle 200.000 di oggi).
Il dio degli yazidi è chiamato Khude ed è clemente e misericordioso. Khude creò se stesso e sette arcangeli guidati da Melek Tawus, l’Angelo Pavone. Melek Tawus fu inviato sulla terra per far nascere la vita dal caos primordiale e agire quale messaggero tra l’uomo e Dio. Il primo essere umano era stato creato senza anima, così Melek Tawus soffiò in lui il respiro della vita. Poi volse Adamo verso il Sole, simbolo del Creatore Supremo, che gli yazidi – come gli antichi mesopotamici – adorano tuttora.
Ci sono molti altri aspetti arcaici in questa fede che ne fanno una delle più antiche esistenti, come il suo calendario risalente a 6756 anni fa, quasi 5000 prima di quello cristiano o gregoriano, e quasi 1000 prima del calendario ebraico.
Finora, gli elementi storici appaiono quantomai innocui. Nulla, in questo antico mito della creazione, sembra giustificare secoli di repressione da parte delle autorità turche ottomane o gli attuali massacri dell’ISIS.
Sfortunatamente, destino volle che la storia di Melek Tawus avesse inquietanti analogie con quella di Shaytan, il jinn (genio) caduto dell’Islam che equivale al nostro Satana. Secondo la tradizione yazidi, Khuede aveva ordinato a Melek Tawus di non inchinarsi ad altri esseri. Poi Dio aveva creato l’uomo dalla polvere e aveva messo alla prova l’angelo ordinandogli di inchinarsi ad Adamo. Melek Tawus aveva risposto: “Come posso sottomettermi a un altro essere? Io sono nato dalla tua luce, mentre Adamo viene dalla polvere”. Perdonatolo, Dio ne fece il governatore della terra, dopo aver pianto 7000 anni per estinguere l’inferno con le sue lacrime.
Purtroppo, nella tradizione islamica Shaytan o Iblis era un jinn, che aveva nel medesimo modo rifiutato l’ordine divino di inchinarsi ad Adamo. Per questo peccato di superbia, Allah lo maledisse, cacciandolo dal cielo alla terra. A partire dal XV secolo, i vicini musulmani turchi e arabi cominciarono a equiparare Melek Tawus a Shaytan il Tentatore. Iniziarono così secoli di massacri e persecuzioni che obbligarono gli yazidi a rifugiarsi sui monti dell’Iraq settentrionale.
Lassù questo popolo – che è etnicamente curdo e parla il dialetto curdo kurmanji – è stato a lungo protetto dai “cugini”, che hanno una tradizione di tolleranza e ospitalità verso le minoranze represse. I curdi, tra l’altro, credono che loro stessi osservassero nei tempi antichi la fede yazidi, e vedono in questa minoranza la loro memoria e la loro coscienza. In altre parole, li considerano i depositari delle loro tradizioni preislamiche. C’è del vero in questo, visto che molti costumi degli yazidi – come la fede negli angeli, negli alberi sacri, nella purezza di terra, aria, fuoco e acqua – provengono da antiche credenze mesopotamiche e iranico-zoroastriane.
Ma il santuario yazidi tra i curdi verrà minacciato dalla crescita fanatica dei gruppi jihadisti arabi sunniti a partire dal 2003, dopo l’operazione americana Enduring Freedom.
L’ISIS proclama una jihad totale contro gli infedeli yazidi
Come la maggior parte degli iracheni che avevano sofferto sotto Saddam Hussein, gli yazidi festeggiarono la caduta del dittatore; ma, come le antiche comunità cristiane del nord Iraq, divennero ben presto il bersaglio di gruppi jihadisti sunniti quali al Qaeda in Iraq (AQI), che era cresciuto per combattere gli americani. Nel 2007 AQI prende di mira le comunità yazidi irachene di Kathaniya e Jazeera con il più sanguinoso attentato suicida del mondo dopo l’Undici Settembre. Ben 796 yazidi restano uccisi e altri 1500 feriti in una spaventosa esplosione che coinvolge un’autocisterna e tre autobombe che trasportano due tonnellate di esplosivo.
Ma il peggio deve ancora venire. AQI confluisce nell’ISIS e nell’agosto 2014 lancia un’offensiva nella regione del Monte Sinjar, nel nord-ovest dell’Iraq. Il Monte Sinjar è protetto dai leggendari peshmerga curdi (letteralmente, “coloro che affrontano la morte”), ma questi combattenti si ritirano prima dell’attacco ISIS, lasciando la regione alla mercé dei fanatici. Il Sinjar è un obiettivo geografico primario, in quanto gli yazidi lo considerano una montagna sacra: ritengono che questo massiccio, sorgente in modo spettacolare dal deserto piatto, sia il primo luogo in cui Noè aveva toccato terra dopo il diluvio, e vi hanno costruito sette templi con bracieri che ardono senza sosta.
Appena conquistata la città di Sinjar, posta ai piedi del monte omonimo, i tagliagole uccidono almeno 5000 yazidi in quello che l’ONU definisce un “genocidio”. Si legge nel rapporto: “Alcune delle esecuzioni furono brutalmente sbrigative, con gente messa in fila ai posti di blocco, uccisa con armi da fuoco, quindi sepolta con le ruspe in fosse comuni. Altri furono ammassati in templi che poi furono fatti saltare in aria”.
Gli jihadisti catturano anche centinaia di donne yazidi, trasformate in sabiya (le schiave del sesso legittimate dal Corano) e vendute come oggetti nei mercati ai combattenti ISIS. Queste donne, molte appena ragazzine, vengono sistematicamente violentate e stuprate dai loro padroni, e la maggior parte di loro vivono ancora nella disperazione come schiave sessuali per fanatici che legittimano il loro abuso etichettandole come “idolatri” e “infedeli” (il loro dramma non ha destato altrettanta attenzione del rapimento delle studentesse da parte di Boko Haram in Nigeria). Le donne più anziane non ritenute degne di diventare sabiya vengono messe da parte e assassinate in massa a sangue freddo.
Ben 50.000 yazidi in preda al panico si rifugiano nelle inospitali, inaccessibili altitudini del Monte Sinjar per sfuggire ai macellai. Per evitarne il genocidio, Obama lancia una campagna di bombardamenti che ferma l’avanzata di ISIS e un ponte aereo che fornisce cibo e acqua ai profughi intrappolati sulla montagna. I peshmerga curdi sfondano le linee dell’ISIS creando un corridoio che permette alla maggior parte dei rifugiati – ma non a tutti – di fuggire dal Sinjar.
Ma a quel punto è troppo tardi, il cuore della popolazione e della cultura yazidi è stato cancellato, e molti santuari tipici, con la loro forma conica e le torri scanalate, sono distrutti. Per fortuna, nel dicembre 2015, le forze curde sostenute dall’aviazione americana sconfiggono gli occupanti della città di Sinjar, e alcune famiglie possono provvisoriamente far ritorno a casa. Ma per la maggior parte si sono disperse lontano dalle loro terre sacre, e molte si sono unite alla processione di rifugiati verso l’Europa. L’esilio degli yazidi lontano dagli antichi santuari della loro tradizione rischia di distruggerne l’identità etnica.
Questa è la situazione che ha fatto da sfondo alla nostra visita nel santuario di Lailish, situato a est del Monte Sinjar, al sicuro dietro le linee dei peshmerga curdi nel Kurdistan nordoccidentale.
Al santuario di Lailish
Dentro i segreti della fede yazidi
Come appuriamo, Baba Chawish è membro di una delle tre caste cui tutti gli yazidi appartengono, quella più elevata degli sheikh (sacerdoti). Ha condotto una vita di preghiera e castità, e ora dirige il santuario. È assistito dalle feqrayyāt, “suore” nubili o vedove, dedite alla cura del complesso sacro. Le altre caste sono i pir (anziani), e i murid (discepoli) cui appartiene la maggior parte degli yazidi. L’appartenenza sia alla casta sheikh sia alla pir è ereditaria, e si dice collegata spesso a doti speciali. Ogni loro famiglia, per esempio, possiede una certa capacità di guarigione, mentre alcune sono in grado di curare morsi di serpente, follia, febbre, cefalea, artrite, eccetera.
All’interno della casta sheikh si trovano i kochek (“veggenti”) che godono di doni spirituali come la chiaroveggenza. Hanno la capacità psichica di diagnosticare le malattie e conoscono il destino di un’anima una volta staccatasi dal corpo del defunto.
All’apice della struttura sociale troviamo il Mir, il principe, sovrano temporale degli yazidi, e il Baba Sheikh, il capo religioso della comunità. Entrambi i capi appartengono alla casta sheikh i cui membri discendono dai Sei Grandi Angeli che hanno assistito Melek Tawus. Essi officiano circoncisioni, matrimoni, funerali, battesimi e feste religiose. Queste ultime svolgono un ruolo chiave nella fede yazidi e molte hanno radici antichissime.
La più importante è la Festa dei Sette Giorni, che si tiene i primi di ottobre. Si crede che durante il suo svolgimento i sette arcangeli, Melek Tawus compreso, visitino il santuario di Lailish. Gli yazidi tentano di effettuarvi il pellegrinaggio proprio in questo periodo, al fine di rinvigorire le amicizie, affermare la loro identità religiosa e partecipare alle sette giornate di festa. I due eventi più importanti sono la Danza della Sera e il Sacrificio del Toro. La prima viene eseguita dagli sheikh ogni giorno subito dopo il tramonto nel cortile del complesso. Quattordici sacerdoti vestiti di bianco, il colore della purezza, si esibiscono alla musica e procedono in processione intorno a una torcia sacra che rappresenta sia il Sole sia la suprema divinità Khuede.
Il sacrificio del Toro ha luogo il quinto giorno della manifestazione. Festeggia l’arrivo dell’autunno e raccoglie le preghiere yazidi affinché cada la pioggia durante il prossimo inverno e la primavera sia ubertosa. Dopo una salva di cannone sparata dalle guardie, un torello viene spinto fuori dalla porta maestra del santuario. Gli uomini lo inseguono sulle colline, lo catturano, lo macellano, ne cuociono le carni e le distribuiscono tra tutti i pellegrini presenti a Lalish. Evidente la correlazione con il culto persiano del dio solare Mitra, onorato con il sacrificio di un toro.
Gli yazidi non credono nella dannazione eterna. Credono invece nella reincarnazione, ovvero nella trasmigrazione delle anime attraverso un ciclo di purificazione graduale. Le anime dei peccatori rinascono in forma di animali per un periodo di prova prima di passare nuovamente alla forma umana. Alla fine, esse ascendono al cielo.
Gli yazidi non accettano conversioni alla loro fede, e chi si sposa al di fuori della comunità è bandito. È vietato indossare il colore blu, mangiare lattuga e pronunciare la parola Shaytan. Oltre a venerare il sole gli yazidi, al pari degli zorastriani, considerano sacro il fuoco e non possono spegnerlo con l’acqua o parlare volgarmente in sua presenza. Festeggiano il capodanno in aprile con uova colorate, e hanno anche una Festa del Sacrificio, allorché una pecora viene sacrificata dal Baba Sheikh e tutta la valle di Lailish risplende di torce.
Ci sono molti altri aspetti della fede che non abbiamo avuto il tempo di imparare durante la nostra visita al santuario a Lailish, ma è stato affascinante lo sguardo che ci è stato concesso di rivolgere a questa religione segreta, che solo di recente ha aperto le sue porte agli stranieri. Nel dire addio al protettore del santuario, Baba Chawish, lasciando il luogo incantevole che è stato la “mecca” per i circa 700.000 yazidi sparsi nel mondo, abbiamo provato un caldo apprezzamento per questa bellissima costruzione di credenze che sembra appartenere a un’altra èra dell’uomo.
Il santuario valligiano di Lailish è un luogo di meditazione, serenità e contemplazione, in cui siamo stati accolti con generosità e genuino desiderio di interagire con visitatori estranei. In una parte del mondo in cui la distruzione insensata delle comunità preislamiche e delle antichità pagane sembra la norma, è stato un monito a non dimenticarci che nel mondo islamico sopravvivono fedi antiche; come gli zoroastriani parsi in Iran, i pagani kalash nelle montagne del Pakistan, e yazidi, mandeani, shabak, e assiri in Iraq, che affrontano il rischio reale di estinzione nel nostro tempo.