Assai complesso, rispetto alle formule riduttive tipiche della politica e delle ideologie, è (e sarà sempre più in futuro) il fenomeno delle migrazioni, che in realtà non è assolutamente un fenomeno nuovo nemmeno per l’Europa, dato che l’attraversa da secoli (persino la storia dell’umanità intera può essere vista dal punto di vista specifico di una storia delle migrazioni). Semmai il fenomeno risente del fatto di essere sempre più analizzato in chiave politica e ideologica, cosa che ha avuto inizio soprattutto a partire dal periodo post-coloniale e della lotta di liberazione dei popoli un tempo colonizzati dalle grandi potenze del passato; in primis, tra quelle europee, la Gran Bretagna e la Francia.
Sia che si tratti di Paesi ad alto tasso di immigrazione, proprio come la Francia e la Gran Bretagna o, in tempi più recenti, il Belgio, la Germania o la Svezia, sia che si tratti di Paesi dove ancora il fenomeno migratorio rimane percentualmente più marginale, come avviene in Italia (nonostante gli sbarchi continui sulle sponde siciliane di migranti dal sud del Mediterraneo, che tuttavia spesso considerano l’Italia una tappa di transito), nelle analisi socio-antropologiche le migrazioni appaiono strettamente collegate a due fenomeni opposti: da un lato quello dell’ibridazione delle culture e del cosiddetto “pensiero meticcio”, laddove si riesca a gestire le politiche migratorie in senso inclusivo e gli stessi immigrati abbiano anch’essi voglia di entrare a far parte della società “ricevente”, pur senza perdere la propria identità originaria; dall’altro quello del rifiuto (reciproco) all’integrazione, che può portare spesso ai fenomeni di emarginazione sociale e di autoemarginazione identitaria ampiamente testimoniati in molte grandi città.
L’ibridazione delle culture
Le migrazioni dei popoli, come già accennavamo, sono sempre avvenute fin dalla preistoria, portando con sé scambi continui di culture, modi di pensare e di agire, pacificamente o con la forza. La storia stessa del Mediterraneo è riassumibile in un succedersi millenario di migrazioni, frutto di scambi commerciali o di invasioni, di confronti o di scontri e conflitti.
Ma oggi l’insieme degli spostamenti delle masse da un continente all’altro, o spesso da aree più povere ad aree più ricche di uno stesso territorio geografico (com’è avvenuto in Europa, per esempio, dai Paesi dell’ex blocco sovietico verso ovest), si è notevolmente accelerato e ampliato non solo per ragioni economiche ma anche per motivazioni socio-politiche legate a discriminazioni etniche e religiose o semplicemente a conflitti e guerre locali, come quelle che continuano a insanguinare il continente africano o il vicino e medio oriente.
Le dimensioni specifiche di questi fenomeni (dal sud al nord del Mediterraneo, ma anche dalle ex colonie ai Paesi un tempo coloniali, eccetera) si intrecciano in una dimensione globale e globalizzata che diventa una delle nuove scommesse su cui l’antropologia può puntare per cercare di comprendere quel che appare ai più come un calderone planetario che sta mescolando lingue, idee, gusti, usi e costumi.
L’effetto di questa ibridazione, proprio perché interessa a vari livelli i modelli linguistici, i comportamenti, le abitudini dei singoli e dei gruppi, modificando anche le norme di comportamento o banalmente anche i gusti e le scelte del cibo, non è però lineare, dato che l’attuale potente e continua spinta sincretica è in grado di produrre un duplice e speculare effetto: da una parte mostra una pericolosa tendenza all’omologazione e al “pensiero unico”, frutto della globalizzazione di mode, idee, atteggiamenti, eccetera, anche per “merito” dei mass media e di internet; dall’altra può alimentare, come reazione identitaria, anche alcune posizioni fortemente diversificate che provano con ogni mezzo – il più delle volte pacifico ma talora anche violento – a contrastare l’assimilazione e che considerano qualsiasi mescolanza come una contaminazione della propria identità originaria.
Il senso dell’identità si può quindi trasformare “in una potente arma di difesa, che funziona nel senso della chiusura del ‘noi’: chiusura nel confronto degli ‘altri’ che ci assediano e ci accerchiano”. 1)
In mezzo a questi due estremi sta quella forma di “meticciato” 2) che si propone di trovare una via di mezzo alternativa sia alla passiva fusione o all’osmosi, sia alla chiusura in nome di una purezza “razziale”, ideologia spesso affiorante in alcuni governi o politici dell’occidente, ma anche in vari Paesi dell’Africa scossi da decenni di guerre intestine e tribali: scontri spesso alimentati da “signori della guerra” a loro volta foraggiati da Paesi terzi, direttamente o attraverso industrie di armamenti e gruppi di “sicurezza” privati al soldo del miglior offerente.
In realtà dobbiamo anche chiarire subito che il meticciato, se malinteso, potrebbe persino implicare che si stia parlando dell’incontro e della mescolanza di due individui o di due gruppi di individui originariamente “puri”, espressione cioè di un’omogeneità (razziale, intellettuale, linguistica, culturale) che nella realtà non esiste storicamente né è possibile razionalmente ipotizzare, dato che altrimenti darebbe corpo alla necessità di opporvi un opposto di “impurità” o “eterogeneità”. Il meticciato culturale, invece, “si contrappone alla polarità omogeneo/eterogeneo. Si presenta come una terza via tra la fusione totalizzante dell’omogeneo e la frammentazione differenzialista dell’eterogeneo. Il meticciato è una composizione le cui componenti mantengono la propria integrità”. 3)
Di questo meticciato culturale siamo testimoni quotidiani anche attraverso le forme del melting-pot o la dilagante affermazione di culti sincretici persino nelle nostre periferie urbane, ma anche più banalmente attraverso la moda della cucina internazionale o l’interesse diffuso per la world music. Questi fenomeni in qualche modo ci hanno coinvolto nella vita e testimoniano un radicale mutamento culturale che ha portato alla nascita di un “mondo meticcio”, dove le dimensioni locali si intrecciano irreversibilmente con questa nuova dilagante dimensione globale generata dal crollo di molte barriere e dalla mescolanza abituale di individui portatori di lingue, idee, abitudini e costumi diversi che tendono a un miscuglio più o meno spontaneo e magari inconsapevole.
D’altronde, tra gli effetti delle continue migrazioni di massa vi è stato quello della creazione di tipologie umane radicalmente nuove: persone “che sono radicate alle idee piuttosto che ai luoghi, ai ricordi piuttosto che alle cose materiali, persone che sono state obbligate a definirsi, poiché gli altri le hanno obbligate a definirsi in tal modo in relazione alla loro diversità; persone nel cui profondo avvengono strane fusioni, unioni senza precedenti tra ciò che erano e dove si trovano”. 4)
L’umanità appare sformata e trasformata da una sindrome del migrante che colpisce tutti, anche chi non si è mai mosso dal Paese natale. Destino che accomuna chi è post-moderno, non certo per talento proprio né per vocazione, ma solo per essersi incarnato in quest’epoca, mondo, realtà.
Come suggerisce Paolo Cianconi, abitiamo uno spazio transnazionale “che rimescola protocolli, pezze d’appoggio reali o presunte, ma soprattutto carte d’identità convenzionali” al punto che più facile è dire chi non siamo piuttosto che chi potremmo mai essere. Si tratta forse di “un’umanità strapazzata, rivoltata da un ‘vento globale’, scossa dalla scomparsa della coincidenza fondante tra esistenza e luoghi, identità e geografia; alle prese con la complessità e il caos dei sistemi, caratteri che si traducono in psicopatologie d’intensità e quantità senza precedenti nella storia umana”. 5)
Interrogarsi su chi siamo è esercizio utile per tutti gli studiosi di scienze umane, ma diventa doveroso che venga fatto almeno dagli antropologi e persino dagli psicoterapeuti, non solo da psicologi sociali e sociologi. Se questo è divenuto il contesto della nostra quotidianità, scopo dell’antropologia diventa oggi anche lo studio di queste culture ibride, del modo in cui esse incidono nella perdita di identità secolari, dell’intensità e della rapidità delle variazioni e delle evoluzioni che avvengono nel mondo, di ciò che alla fine caratterizza l’incontro stesso tra diversità, in mezzo a combinazioni e ricombinazioni di apporti ed esperienze, ricordi e oblii. “È per questo motivo che gli scienziati sociali si interrogano, oggi più di un tempo, sulle dinamiche che caratterizzano i fenomeni di ibridazione culturale e sulle implicazioni che tali dinamiche rivestono per i modi di vivere, i rapporti politici, giuridici, economici e per l’immaginario dell’umanità contemporanea” 6)
Per l’Europa, che è uno dei grandi poli d’attrazione dell’immigrazione (al pari degli Stati Uniti per i latinos dell’America centro-meridionale), non è solo l’afghano, il siriano o l’eritreo che, insieme a un manipolo di altre persone di varie nazionalità, giunge su un barcone sulle coste siciliane o su un’isola greca a portare con sé la cultura del suo popolo d’origine e a volerla/doverla contaminare con i valori e le tendenze di quella del Paese che lo accoglierà o che proverà a rifiutarlo; è anche la cultura dei popoli dell’occidente, che vedono con i propri occhi o attraverso le immagini televisive i continui sbarchi e le continue morti in mare di questi migranti, a mutare anche inconsapevolmente, erigendo barriere o invece modelli di accoglienza o ancora sistemi di “smistamento” verso altri Paesi con cui condividere le ondate migratorie sempre più pressanti dal sud del mondo.
Questi fenomeni, che interessano più o meno tutti i continenti, e che per tale ragione possono essere definiti globali, una volta assunti dalla cultura che li riceve non sono più considerabili a essa esterna, ma diventano parte di essa, dato che anche la cultura “ricevente” deve continuare a formulare le proprie risposte ai bisogni dei propri componenti e i propri significati alle esigenze locali tenendo conto dell’allargamento contestuale del numero e delle diversità dei referenti; caso emblematico è quello degli Stati Uniti d’America, dove continuano a mescolarsi e ibridarsi decine e decine di culture diverse, anche se poi questo fenomeno inarrestabile produce, come conseguenza, il proliferare di vari movimenti suprematisti con le azioni eclatanti che troppo spesso balzano all’onore delle cronache.
Ribadendo che le culture e le società umane non hanno mai costituito degli isolati dotati di confini netti e stabili, la difficoltà dell’antropologia sta spesso nel riuscire a comprendere davvero, senza ideologismi o teorie inattuabili sul piano concreto, la globalizzazione e le interferenze tra culture diverse nello stesso territorio, per esempio tra i quartieri di una metropoli, magari nelle sue periferie dove, oltre agli abitanti da tempo residenti, si vanno a insediare i nuovi arrivati creando nuovi centri di conservazione ed emanazione delle loro culture d’origine o banalmente andando a sostituire i precedenti residenti, talora costretti per motivi legati anche alla sicurezza personale a cambiare residenza avendo perso la “tranquillità di un tempo”, come in molte occasioni viene affermato dagli interessati, in cui aleggia un sentimento di angoscia e paura per i nuovi arrivati che vanno a occupare un territorio che è stato il loro magari per varie generazioni.
È chiaro che non sempre, o forse quasi mai, si può parlare facilmente di un’integrazione sul piano socio-culturale, soprattutto perché i tempi di contatto e reciproca accettazione tra contingenti diversità sono sempre lunghi o perché manca del tutto la volontà reciproca a qualsiasi forma reale di integrazione; si pensi ai quartieri periferici di città europee come Parigi, Lione, Strasburgo, Bruxelles o la stessa Milano, dove nelle banlieues 7) sembrano confinate le generazioni originarie di immigrati insieme alle generazioni successive, composte da coloro che, per diritto di nascita o di residenza, sono divenuti cittadini della nazione “ospitante” pur considerandosi, spesso ostinatamente, di culture diverse.
I problemi non affiorano solamente, per esempio, tra parigini e maghrebini o tra milanesi e latinos, ma anche tra gli stessi immigrati di diverse etnie e culture che vivono nelle medesime periferie urbane. Spesso tra loro esplode quella che è stata definita l’intifada delle banlieues: un moto, una sommossa, una rivolta, un’insurrezione o addirittura una nuova “invasione di barbari” (di altri barbari, per intenderci, più barbari di quelli già da tempo “nazionalizzati”), com’è stata variamente definita spesso dai mass media che, a torto o a ragione, non riconoscono nemmeno le diversità tra tunisini e marocchini, tra sudanesi e senegalesi, e così via. Alla fine sono tutti, semplicemente, stranieri, cioè “diversi”.
Protagonisti di queste “azioni collettive”, per riprendere la fredda espressione tecnica di certi sociologi d’oltralpe, sono in Francia alcuni giovani immigrati o figli o nipoti d’immigrati, in gran parte originari delle ex colonie dell’Africa nord-occidentale: sono i maghrebini (come i francesi chiamano chi proviene dalle loro ex colonie del sud del Mediterraneo), spesso già cittadini francesi per aver acquisito la cittadinanza in virtù dello jus soli lì vigente; “ma sono anche i “beurs”, come preferiscono definirsi essi stessi, con una parola del loro slang (il verlan, la langue à l’envers) che storpia e rovescia il termine arabo, quasi a simbolo di un’identità dimezzata e distorta”. 8) Basta poco perché organizzino azioni violente contro simboli dell’occidente, come auto di lusso e vetrine di boutique dei grandi marchi della moda. Ma basta poco perché anche tra gruppi di etnia diversa scoppino disordini e liti che poi coinvolgono gruppi via via più numerosi da entrambe le parti, con il farsi e il disfarsi anche di alleanze tra gruppi etnici di vari continenti che si coalizzano contro comuni “nemici”.
La partecipazione soprattutto dei giovani ad azioni di questo genere, che appaiono come risposta al rifiuto dei francesi di un regime di supposta “reciprocità”, in realtà è un fenomeno sempre più complesso che sicuramente la sociologia non riesce a comprendere, al di là delle sue indagini statistiche, e che l’antropologia stenta a trasformare in oggetto dei propri interessi, dato che in una percentuale tutt’altro che trascurabile queste azioni violente hanno luogo non solo nelle banlieues, cioè nelle periferie lontane del mondo “civile”, ma anche negli stessi centri storici delle città d’Europa. Esse richiamano con maggiore risonanza l’attenzione dei media sulle azioni dei maghrebini contro altri giovani originari dell’Africa a sud del Sahara o di ex colonie sparse nelle terre d’oltremare (i “blacks”, come amano da tempo definirsi col termine inglese diffusosi alla fine degli anni ’90 del ‘900). E così l’incontro/scontro tra civiltà non è solo quella tra “noi” e “loro”, ma tra parti diverse di questi “loro”.
Questo intrecciarsi di rapporti, relazioni e conflitti diventa quindi multipolare anche all’interno delle nostre città, riproponendo in tal modo, in un luogo alternativo (il nostro), conflitti etnici storicamente nati e cresciuti altrove, nei luoghi d’origine di questi giovani, portatori loro malgrado di idee, culture e pregiudizi tipici di madrepatrie spesso mai conosciute direttamente, cioè personalmente.
Se è vero, quindi, che le pratiche di costruzione dell’identità non hanno radici in una dimensione preculturale o universale, quanto piuttosto nella dimensione individuale e collettiva dell’esperienza, è altresì vero che le dinamiche di costruzione dell’identità possono determinare il cambiamento, liberare processi di trasformazione e produzione culturale o dissolvere la coscienza del soggetto nelle precarietà di condizioni materiali di esistenza, dove non sempre è possibile ricreare le condizioni della propria cultura d’origine, se questa è malvista nei territori di immigrazione. Tuttavia essa è in grado di riemergere prepotentemente (e talora anche violentemente) se si tratta di non soccombere di fronte a fenomeni discriminatori lesivi di una storia, di un’identità, di un’esperienza diversa che non vuole perdere questa diversità, che vuole ribadirla di fronte a minacce esterne, che non accetta nemmeno di ibridarsi laddove modelli diversi risultino incompatibili tra loro, per esempio in àmbito familiare, sociale o religioso, considerando che la stragrande maggioranza di questi immigrati o dei loro figli ha mantenuto la fede islamica originaria facendone spesso un vessillo della propria diversità culturale.
L’antropologo Marc Augé, il quale ha ridimensionato l’importanza dell’integrazione sociale (espressione a suo dire per lo meno equivoca e ambigua), attribuiva questa tipologia di proteste, da lui ritenute senza contenuti ideologici e senza alcun rapporto con l’islam politico, alla concorrenza tra le bande giovanili dei quartieri periferici per apparire, grazie a spettacolari atti di violenza, sugli schermi televisivi, nuovo centro virtuale frammentato, moltiplicato e disperso dei non-luoghi della vita quotidiana. 9) Né sono mancate altre analisi in termini di “inassimilabilità dei nuovi venuti”, come quella del sociologo tedesco Ulrich Beck il quale icasticamente definisce queste azioni come “la rivolta dei superflui”, 10) per sottolineare il fatto che i suoi protagonisti non sarebbero solo dei disoccupati o dei sottoccupati, ma degli inoccupabili nella società francese o comunque nell’àmbito dei processi economici del lavoro occidentale tout-court.
Ovviamente, non è solo la Francia il teatro di questi eventi, dato che anche altri Paesi europei hanno conosciuto gravi fatti di sangue riconducibili più o meno direttamente all’immigrazione, come quello del 2004 nei Paesi Bassi: il regista Theo Van Gogh, per aver realizzato un documentario sulla condizione delle donne musulmane assai sgradito ai seguaci di Maometto, fu accoltellato e poi ucciso a colpi di pistola da un estremista islamico di origine marocchina. Nel Regno Unito fin dal 1980 i conflitti interetnici non sono stati solo degli eventi occasionali limitati a pochi quartieri o a poche città, ma hanno costituito un’espressione importante della realtà sociale del Paese, interessando soprattutto le grandi città affette dalla profonda e protratta crisi della disindustrializzazione, come Liverpool, Manchester, Birmingham, Sheffield, Nottingham, Leeds, Bradford, Leicester, Newcastle e alcuni sobborghi della stessa Londra, tra cui Brixton e Tottenham.
Ma anche in Italia, a Milano, a Genova o a Roma, sono all’ordine del giorno risse tra immigrati, spesso imputate al controllo delle piazze di spaccio della droga o collegate a banali o presunte motivazioni religiose (per esempio tra islamici africani e cattolici centro e sud-americani).
Ma, a parte queste azioni, come dimenticare l’attentato ai redattori parigini di Charlie Hebdo massacrati da terroristi islamici per aver osato pubblicare vignette considerate “blasfeme” su Maometto? O la guerra dichiarata da Al Qaeda agli Stati Uniti con l’attacco alle torri gemelle di New York?
Insomma, sul piano globale il meticciato culturale non è affatto una soluzione certa e applicabile facilmente anche se pochi sono ancora i tentativi di realizzazione fattiva. Brilla in tutto ciò troppo spesso, però, anche l’assenza della mediazione culturale che l’antropologia potrebbe offrire. L’antropologo, infatti, può essere quella presenza operativa all’interno dei centri di accoglienza, cioè delle strutture a cui vengono affidati i migranti al loro arrivo in Europa, che presenta una doppia utilità: da un lato grazie al suo bagaglio scientifico è capace di mettere in luce le logiche istituzionali e sociali che reggono il sistema di accoglienza svelandone le “istruzioni segrete e i loro effetti concreti sull’ambiente circostante”, composto quest’ultimo dall’insieme degli ospiti, degli operatori, dei responsabili delle istituzioni, dalla società o dall’opinione pubblica; dall’altro lato può affrontare due compiti politici fondamentali, come sottolinea Sebastiano Ceschi:
Il primo è aiutare i richiedenti, ma anche gli operatori, a prendere coscienza dei loro posizionamenti intrisi di condizionamenti esterni e delle loro relazioni sbilanciate, a prendere le distanze da certi automatismi e a socializzare e condividere con loro sentimenti discordanti e ambivalenti, allo scopo di identificare la violenza simbolica e materiale del dispositivo istituzionale e, dove possibile, disinnescare il meccanismo passivizzante e vittimizzante, provocando invece percorsi di soggettivazione tra i migranti come tra gli operatori, nell’ottica di concorrere alla costruzione di “un soggetto sociale e politico capace di azioni e traiettorie di vita”. Il secondo è quello di utilizzare il posizionamento dei migranti nelle strutture per ampliare i loro livelli di partecipazione alle relazioni circostanti, per aprire il centro al contatto e all’interazione con il contesto limitrofo, attivando collaborazioni con strutture pubbliche e della società civile, promuovendo relazioni di prossimità con il vicinato, impegnando i richiedenti in lavori socialmente utili anche retribuiti che possano allargare il consenso alla presenza nel quartiere e nel territorio. 11)
Le diverse prospettive culturali dei popoli migranti
Da quanto fin qui esposto appare evidente che il fenomeno del meticciato culturale è solo una variabile dell’incontro tra culture diverse, dato che al contrario il migrante può non avere voglia o stimoli per un’integrazione nel Paese dove si è rifugiato o ha deciso di insediarsi. In ogni caso, anche nel corso della sua vita e con il passare del tempo, come abbiamo già accennato, si può assistere per vari motivi a una sua reazione opposta a quella del tentativo di integrazione, una sorta di rifiuto della cultura del Paese di nuova residenza, per esempio a causa della marginalità in cui il migrante e la sua famiglia si trovano a vivere anche dopo anni di tentativi di integrazione o semplicemente nei casi in cui la voglia di integrazione con la cultura ospitante non è stata nemmeno presa in considerazione, preferendo l’isolamento sociale o rapporti esclusivamente con altri membri della propria comunità d’origine.
In questo caso ci troviamo di fronte a una situazione del tutto opposta a quella del meticciato culturale di cui abbiamo parlato in precedenza. Se infatti muta, a un certo punto dell’esistenza, il contesto socio-culturale dell’individuo, per esempio a causa del suo sradicamento dall’ambiente sociale in cui è cresciuto e di cui ha quasi istintivamente assorbito le regole e le logiche comportamentali, la sua psiche si trova costretta a rielaborare fin dalla base le regole che ne hanno determinato fino a quel momento la vita individuale e sociale. E questa trasformazione non è indolore, in nessun caso, né quando lo sradicamento da una cultura e da un Paese d’origine avviene su base volontaria (come per la ricerca di un lavoro o di un contesto sociale migliore), né a maggior ragione quando ci si trova davanti a problematiche legate alla sfera della salute e della sopravvivenza, per esempio quando si è vittime di violenze, guerre, catastrofi naturali, carestie, situazioni tutte che costringono le persone a cercare un altro Paese in cui trovare asilo per sfuggire ai pericoli che comprometterebbero la propria stessa esistenza e ricreare quindi altrove le condizioni di vita sociale che sono costrette a lasciare contro la loro libera volontà. Il problema delle migrazioni, in questo caso, inizia da tale consapevolezza, contribuendo a complicare l’equilibrio tra corpo e mente che già all’origine può vacillare per patologie latenti o manifeste del singolo, originate per esempio da traumi e violenze subite o dall’estrema povertà della propria esistenza passata.
Che le migrazioni costituiscano in molti casi un problema assai complesso da vari punti di vista (politico ed economico, ma ovviamente anche antropologico, sociologico e psicologico) è evidente anche se esaminiamo la nostra incapacità sociale di accettare senza paure il diverso, l’estraneo, soprattutto se incapace di adeguarsi ai nostri standard e di accettare a sua volta la nostra “normalità”; e questo sempre che l’atteggiamento non sia solamente di puro rifiuto, discriminazione razziale e quindi ostracismo.
Già qui appare evidente come la percezione fisica alimenti la nostra percezione psichica e alimenti a livello inconscio angosce e paure (reciproche), collegando per esempio una diversità dei tratti somatici o del colore della pelle a fatti prettamente culturali come possono essere l’espressione linguistica o tutte quelle altre espressioni simboliche (il modo di vestire, di approcciarsi agli altri, di cosa e come mangiare, eccetera) che fanno riferimento invece alla sfera socio-culturale.
Questa esperienza è ambivalente: non si manifesta solo nella nostra (spesso abituale) incapacità di accettare accanto a noi chi è diverso da noi stessi (si pensi a quanto accade ancora oggi tra gli stessi cittadini americani tra bianchi e afroamericani o latinos); vale anche per gli “altri”, con le loro paure, i loro drammi storici e i loro traumi esistenziali, che ne hanno magari devastato il corpo e la mente, soprattutto se sfuggono a guerre e genocidi da Paesi dove hanno anche lasciato parenti e amici per tentare di giocare il loro futuro alla roulette di un altro diverso tavolo, di cui magari non conoscono nemmeno le regole (diverse) del gioco.
Come acutamente nota Isabelle Stengers,
gli immigrati non hanno come prima funzione quella di costituire per noi uno specchio deformante, in cui il volto gentile dei nostri ideali di giustizia, libertà, razionalità si mette a fare smorfie in modo sinistro. Non sono là nemmeno per ricordarci le nostre responsabilità nelle miserie del mondo, per richiamarci all’esercizio di una solidarietà effettiva. E non sono là per offrirci il ricordo di ciò a cui avremmo voltato le spalle […]. Non sono là per “noi”. Vengono da un altrove, e per ragioni che appartengono a questo altrove. 12)
Ma il loro trauma è anche il nostro trauma: loro ne portano spesso i segni nei corpi, e ne soffrono per le ovvie ricadute psichiche, ma fanno soffrire anche noi nel vederli, nel tentativo anche buonista di relazionarci con loro magari senza necessariamente riuscirci o al contrario producendo in noi semplicemente il desiderio o il bisogno psicologico di evitarli, di scansarli, di allontanarli in quell’altrove da cui sono fuggiti, o in un altro altrove che comunque sia tale anche per noi, cioè comunque lontano. La conseguenza (traumatica) di questa reazione, per altro spesso ambivalente, è nel lasciarli emarginati o addirittura nel respingerli come persone e come gruppi (dato che essi non costituiscono a loro volta nemmeno un unico omogeneo gruppo). E, se appare spesso evidente la loro incapacità di “adattarsi” al nostro mondo anche quando noi proviamo a integrarli, il nostro peccato originario è quello di volerli comunque adeguare a noi, se non nel corpo quanto meno nelle nostre forme sociali e culturali; ma è come pretendere che, “regolarizzandoli”, essi mettano i propri antenati, i propri riti, i propri ricordi, insomma le proprie identità, in una soffitta o nel ripostiglio dove noi mettiamo le nostre cose inutili.
D’altronde, ci dobbiamo chiedere anche cosa significhi per i migranti la loro “regolarizzazione”, cosa implichi sul piano sociale e anche su quello psicologico, alimentando senso di alienazione o, nel peggiore dei casi, anche sindromi psicotiche gravi; che, se non curate in tempo, possono generare conseguenze di particolare gravità non solo su se stessi ma anche sugli altri, visti addirittura come nemici (da qui, per esempio, si alimenta spesso anche il radicalismo religioso islamico antioccidentale).
Se eludiamo questo piano di analisi, perdiamo una parte importantissima della comprensione del fenomeno migratorio dal punto di vista antropologico. La richiesta e poi l’attesa talora lunghissima, di anni, dei maledetti “feticci di carta” (il permesso di soggiorno, l’ottenimento della nazionalità, la residenza in una casa propria) sono spesso l’oggetto di un desiderio che diventa, se possibile, spasmodico perché si ha coscienza da parte dello straniero che il loro possesso può cambiare il suo destino; anche se poi, quando si viene finalmente “naturalizzati”, si può anche scoprire troppe volte che nulla cambia nel proprio ruolo sociale e nella visione che gli altri hanno dell’immigrato stesso, che continua a essere considerato comunque un individuo di serie B.
Ma intanto, “come ignorare che una famiglia immigrata vive spesso anni di attesa, di dubbio, d’incertezza intorno a questi rituali di cittadinanza? Come dimenticare che l’arrivo dei documenti sia salutato spesso come un miracolo, e accolto con gioia incontenibile?”, si chiede Roberto Beneduce. 13) Ovviamente non esiste alcun manuale nel quale trovare la “ricetta” che possa consentire di interpretare e valutare le ansie o i disturbi della popolazione immigrata o il senso della sofferenza di ogni straniero prima e dopo l’ottenimento agognato di questa residenza, né tanto più le sue “stranezze” di comportamento, i suoi incubi o le sue metafore, spesso ricondotti banalmente a schemi standardizzati di pensiero o di comportamento ritenuti tipici della sua cultura d’appartenenza, qualunque essa sia, proprio perché straniera, cioè “strana”, banalmente (ma incomprensibilmente) “diversa”.
Il dibattito sull’argomento è acceso, lo sappiamo, ma è alimentato non solo da incomprensioni reciproche e ideologie politiche tra loro insanabilmente alternative, ma anche da logiche etno-psicologiche difficilmente conciliabili, soprattutto quando a essere oggetto di diversità sono argomenti che impattano con diritti e norme legali di salvaguardia che sono stati, almeno da noi, traguardi raggiunti dopo storiche battaglie “di civiltà”, a partire dal rapporto di parità uomo-donna, dai diritti alla non discriminazione tra sessi e classi sociali, dalla salvaguardia delle minoranze, e così via, secondo principi sanciti formalmente dalla nostra Costituzione, anche se magari non sempre sono pienamente attuati. 14)
Regolarizzare un immigrato comporta a questo punto che anche quella persona accetti di vivere seguendo le regole del nostro sistema sociale, il che in alcuni casi pone in contraddizione le nostre norme nazionali con le consolidate abitudini o con le leggi del Paese d’origine dell’individuo, elementi ai quali egli può non essere disposto invece a rinunziare: ne è esempio lampante la considerazione diversa del ruolo della donna, intesa in alcuni Paesi o nell’àmbito di alcune culture e religioni come essere inferiore all’uomo, o l’obbligo di contrarre matrimonio per una figlia anche adolescente con il marito scelto dal padre, anche di molti anni più anziano di lei, solo perché le leggi del suo Paese d’origine lo consentono e considerano questo “contratto” una norma legalmente o anche solo socialmente accettata; mentre da noi vigono regole stringenti diverse che possono risultare inammissibili per gli “altri”, adottate proprio per tutelare prima di tutto i minori e per contrastare le violenze di genere, come quelle di una donna (ancor peggio se minore) costretta a rapporti sessuali contro la sua volontà.
Per fare un esempio chiaro, giusto per tracciare un’evidente demarcazione tra norme culturalmente inconciliabili, numerosi sono anche i passi del Corano che fanno riferimento alla condizione femminile nel mondo islamico, mondo dal quale provengono la maggior parte dei flussi migratori in Europa. Per quanto tali precetti siano soggetti a interpretazioni che variano da Paese a Paese, quindi da cultura a cultura, oltre che tra mondo sunnita e mondo sciita, il Corano prevede una chiara supremazia dell’uomo sulla donna, che trova evidenza, tra l’altro, nel fatto che la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo, così come l’eredità spettantele alla morte dei genitori, sempre la metà di quanto tocca a un fratello.
Sempre guardando alle differenze culturali di gran parte del mondo islamico, possiamo prendere in considerazione anche la dipendenza della donna dall’uomo. Socialmente si tratta di un evento abituale laddove l’islam sia vissuto nella sua totalità religiosa e sociale anche nell’àmbito familiare: finché rimane all’interno della sua famiglia d’origine, la donna è sottoposta dal Corano all’autorità del padre, mentre quando si sposa passa, sempre secondo i sacri precetti dell’islam, sotto l’autorità del marito.
Né va sottovalutata la questione altrettanto importante delle mutilazioni genitali femminili effettuate in molte culture (non solo islamiche, in verità), soprattutto in Africa, in un’età variante dalla prima infanzia all’adolescenza a seconda delle etnie e del tipo di mutilazione, per evitare che le donne provino piacere nell’atto sessuale, pratica che, se attuata in occidente, non solo è combattuta dai movimenti femministi in nome dell’emancipazione della donna, ma è regolarmente perseguita dalle legislazioni dei vari Paesi.
Spesso, quindi, l’emancipazione di una donna islamica immigrata è contrastata da episodi abituali di violenza (quanto meno considerati tali nella cultura occidentale) perpetrati su di lei persino dai suoi stessi genitori e parenti, ingenerando così questioni non solo politiche e sociali, ma anche medico-psicologiche, con tutte le conseguenze del caso.
Quanto all’obbligo di portare il velo per coprire il volto e alle diatribe sorte in sede legale in alcuni Paesi sulla questione (a partire dalla Francia), pur non essendoci alcuna parte del Corano che lo prescriva espressamente, ricordiamo che il versetto 59 della sura sulle fazioni alleate afferma: “Dì alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano dei loro mantelli, che sono grandi veli che vanno dalla testa ai piedi”. Questo giustifica legalmente nell’islam l’obbligo del velo per coprire almeno i capelli delle donne, a partire dall’età della pubertà, anche se in alcuni Stati è diventata più una consuetudine che un obbligo religioso e legale. Ve ne sono altri come l’Iran in cui la donna che non indossa il velo a copertura completa dei suoi capelli è soggetta a fustigazione (e per questo le donne stanno lottando contro l’autorità religiosa che guida quel Paese); e altri, come l’Afghanistan dove sono tornati al potere i talebani, nei quali vige a pieno titolo la sharīa che prescrive espressamente alle donne di indossare il burka, cioè un velo che ne copra tutto il corpo lasciando una fessura solo in corrispondenza degli occhi per la vista, ma che vieta loro anche di uscire da sole, cioè senza un familiare di sesso maschile accanto, e di studiare al di là di quella che è la nostra istruzione elementare: per questo sono state chiuse tutte le scuole superiori e le università in cui avevano iniziato a studiare le ragazze nel breve periodo in cui l’oltranzismo talebano era stato sconfitto e sono state licenziate le insegnanti che vi lavoravano.
Si tratta di precetti che vanno pedissequamente osservati anche dalle donne immigrate in occidente da quei Paesi o no? E cosa succede se qualcuna di loro vuole vivere “all’occidentale” mentre la famiglia non è d’accordo?
Sappiamo bene, anche da recenti episodi di cronaca, i risvolti di queste incrinature tra migranti di prima e seconda generazione, che in alcuni casi tendono a seguire pedissequamente i precetti dell’islam come nella loro nazione d’origine mentre in altri provano a ribellarsi alle tradizioni ataviche. Con tutte le conseguenze nell’àmbito della loro stessa comunità, talora persino per mano degli stessi genitori o dei parenti prossimi, come nel caso di Saman Abbas, la ragazza pachistana uccisa dallo zio Danish col “permesso” (o su richiesta?) dei suoi stessi genitori perché non voleva accettare il matrimonio con un uomo più vecchio che i genitori le avevano “combinato” in Pakistan, ma desiderava semplicemente vivere all’europea, senza più portare il velo, studiando e frequentando un ragazzo italiano di cui si era innamorata.
La salute psichica (e talvolta anche fisica) di alcune persone viene quindi messa a rischio dalla deflagrazione di questi contrasti, e l’antropologia ha il compito di studiarne le evidenze, le radici e le conseguenze, senza indurre in banali ipocrisie sul multiculturalismo laddove appaiono insanabili le divergenze interculturali, con ricadute sul piano della legalità e dell’etica sociale.
Anche per quanto riguarda i diritti politici e l’accesso al lavoro, la situazione è molto variegata tra gli Stati di cultura islamica, con la donna non sempre è libera di lasciare le sue incombenze domestiche di moglie e madre per lavorare come fanno le donne occidentali, che sono libere di farlo al pari degli uomini (talora è una conquista di pochi decenni fa, ma rimane sempre una libertà conquistata in occidente e spesso preclusa altrove); questa divergenza culturale si manifesta in molti casi anche tra quelle famiglie immigrate dove il ruolo della donna, per cultura del Paese d’origine, rimane assoggettato al potere del maschio.
Per non parlare del ruolo dei bambini e degli adolescenti, spesso considerati adulti in culture che non hanno alcuna remora a sfruttarne la manodopera anche per lavori duri (come quelli delle miniere di molti Paesi dell’Africa o dell’Asia centrale) mentre in occidente il lavoro minorile è diventato pian piano uno stigma e un reato perseguito dalla legge. 15)
Già da questi esempi possiamo facilmente comprendere il peso che la dimensione corporale acquista nelle logiche sociali e nella dialettica culturale e religiosa, impedendo in alcuni casi facili integrazioni, semmai generando ulteriori traumi reciproci tra singoli individui e all’interno di gruppi sociali portatori di istanze e tradizioni diverse, che diverse spesso vogliono anche rimanere nei Paesi dove è avvenuta l’emigrazione.
Ma, oltre alle grandi differenze che possono esistere tra le varie culture nell’àmbito dei rapporti tra uomo e donna e tra adulti e minori, e che possono diventare inconciliabili in seguito ai processi migratori contemporanei, all’attenzione degli antropologi vi sono poi le discriminazioni di genere; in realtà abbiamo problemi a gestirle già al nostro interno, cioè nella nostra stessa società, che su questo punto è divisa anche sul piano religioso e non solo culturale, etico e legale. Ma la situazione si aggrava in molte culture lontane dalla nostra, rese però molto più vicine, anzi collaterali alla nostra, dai fatti contingenti dello stesso fenomeno migratorio.
Anche queste sono problematiche che emergono sul piano antropologico-sociale, oltre che su quello normativo-legale, su quello religioso-fideistico, e che non possono essere ignorate nella silente accettazione delle forme manifeste delle culture altre nemmeno nell’analisi etno-antroprologica. Sul punto non è sempre facile riuscire a gestire l’integrazione: si tratta di aspetti anche diversi da quelli affrontati per le relazioni sociali e familiari, che diventano oggetto di interesse non solo per l’antropologia ma anche per la psicologia, in seguito all’analisi dei traumi che i migranti possono subire individualmente o in gruppo nel volere o dovere rinunziare alle abitudini consolidate della loro cultura d’origine; o, al contrario, nell’essere obbligate a seguirle anche nei nuovi contesti territoriali dove si sono insediate se non vogliono farlo, solo perché imposte da genitori, parenti o altri membri della loro stessa comunità di immigrati. Si tratta di persone a cui viene sostanzialmente impedito di integrarsi nella nuova società che li ospita anche volendolo, facendo proprie le nuove regole e le nuove logiche culturali.
Particolarmente grave appare già alla base, sul piano della diversità fisico-corporea e su quello dei processi simbolici e interpretativi dell’universo psichico individuale e sociale, la soluzione delle questioni legate alla differenziazione di genere che, oltre a essere un fatto “naturale” è anche (e sempre più) concepito come un fatto “culturale”. Premesso che “sesso” e “genere” sono due termini che identificano due diverse concezioni delle differenze biologiche, sociali e culturali dell’umanità, la dualità, un tempo preminente nell’identificazione e nella classificazione delle persone in base all’aspetto fisico e biologico del loro sesso, ha ormai lasciato in occidente il posto a un modello “liquido”, per dirla alla maniera di Zygmunt Bauman, 16) che evita di categorizzare i rapporti e le differenze anatomiche solo su base naturalistica, in nome di una pluralità di atteggiamenti comportamentali i quali, al di là dei fatti “biologici”, materiali, interpretano l’umanità anche in base agli aspetti immateriali, non necessariamente visibili sul corpo biologico ma presenti in particolare nella sfera psicologica, affettiva e sessuale.
Come afferma la sociologa Lia Lombardi, “maschi e femmine si nasce ma uomini e donne si diventa attraverso il processo di socializzazione che si prospetta diverso per i due sessi”. 17) Anche in relazione a questo, se l’orientamento sessuale è il modo in cui gli individui provano attrazione e piacere sessuale, e ancora predominante rimane la logica che l’identità eterosessuale sia la “normalità”, per giunta stabile e immutabile, le ricerche etnografiche dimostrano che quanto è normale presso una società non è detto che lo sia in un’altra, e questo al di là del fatto che alcune ricerche in campo medico e psicologico hanno già ampiamente dimostrato che queste tendenze possono per giunta modificarsi (anche più volte) nel corso dell’esistenza.
Venendo al punto, vi sono quindi culture che in occidente già accettano da tempo o che stanno comunque imparando magari con difficoltà, come anche l’Italia, 18) a considerare normale la proliferazione dei generi. Ma vi sono anche culture che invece negano anche sul piano formale l’esistenza di una sessualità “ibrida”, basandosi su dogmi religiosi o leggi e tradizioni di per sé ritenute, ideologicamente, inconfutabili.
Se prendiamo in considerazione alcuni dei Paesi da dove si muove l’immigrazione africana verso l’Europa, possiamo verificare che nel solo continente africano vi sono stati come la Mauritania, il Sudan, la Nigeria e la Somalia dove gli omosessuali rischiano la pena di morte se scoperti nelle loro tendenze o accusati di tale “illegittimità” (che è tale sul piano giuridico così come su quello religioso); altri, come il Gambia, la Sierra Leone, l’Uganda, il Kenya, la Tanzania o lo Zambia, dove la legge prevede il carcere a vita, sempre nella considerazione di una illegittimità che lega diritto locale e religione; altri ancora come l’Eritrea e il Sud Sudan in cui si rischiano condanne fino a dieci anni di carcere, in Camerum una multa e una pena detentiva fino a cinque anni, e così via. Ma anche laddove, come in Egitto, l’omosessualità non è criminalizzata per legge, i comportamenti omosessuali divengono uno stigma sociale.
E allora, al di là delle polemiche politiche e ideologiche che investono anche l’Italia o altri Paesi occidentali che non hanno ancora risolto definitivamente la questione, ma dove comunque non è considerato un reato penale convivere tra persone dello stesso sesso (e dove anche il Papato prova ad allargare la sua morale dogmatica un tempo intransigente sull’argomento), come comportarsi con i migranti da questi Paesi che giungono in occidente portando con sé le loro tradizioni e che non accettano le libertà sessuali dell’occidente, spesso tacciato dalla propaganda islamista di immoralità, corruzione e lassismo proprio dei costumi sociali? Anche se magari tra loro c’è chi scappa in occidente proprio perché, trovandosi al centro della questione, vuole sfuggire allo stigma o alle persecuzioni che ha subìto o che ha paura di subire per il suo orientamento sessuale, quanti sono invece i migranti che provengono dalle citate parti del mondo a chiedere la regolarizzazione senza tuttavia voler abbandonare le credenze della loro tradizione secolare (convenzioni sociali, diritto islamico e statale), per di più convinti a doverle perseguire anche qui da noi proprio nei riguardi di propri connazionali che si macchiano dell’infamia di una sessualità che nella loro terra sarebbe tradizionalmente inaccettabile, vergognosa e perseguibile legalmente? Il problema appare evidente in tutte le sue implicazioni.
Un altro problema riguarda le culture di quei popoli per i quali la poligamia è socialmente considerata normale, al di là delle “unioni di fatto” o dei rapporti extraconiugali che magari si svolgono nella clandestinità rispetto all’altro coniuge, mentre in occidente la poligamia non è lecitamente possibile.
Sono una cinquantina gli Stati dove è consentito il matrimonio tra più persone, in buona parte Stati religiosamente a maggioranza musulmana tra Asia e Africa (tra le eccezioni invece vi sono Turchia e Tunisia). Ma che non sia una logica da correlare solamente alla religione lo testimonia il fatto che non mancano nazioni a maggioranza cristiana (tra queste la Repubblica Democratica del Congo, lo Zambia o l’Uganda) o buddista (come la Birmania) che hanno dato valore giuridico o hanno in qualche modo permesso la poligamia in quanto consuetudine socialmente accettata, anche se per il cristianesimo e il buddismo tale pratica non è affatto lecita.
La riflessione va fatta anche per questa fattispecie sul piano delle logiche dell’integrazione o della mancata integrazione dei migranti: non è facile in questi casi fornire risposte legate a certezze “istituzionali”, dato che vacilla chiaramente anche quell’insieme di basi gnoseologiche di cui qualunque antropologo dispone e che fanno chiaro riferimento al relativismo culturale e all’accettazione delle culture altre senza atteggiamenti palesemente o velatamente etnocentrici.
Sempre nell’àmbito del fenomeno migratorio, le asimmetrie tra cultura d’origine e cultura del nuovo contesto sociale in cui si è immersi svolgono un ruolo decisivo anche quando diverse visioni della cultura medica si affacciano nei momenti di maggiore criticità del ciclo della vita di un soggetto immigrato, come quello della gravidanza e del parto della donna. Al di là delle diverse forme di tutela delle donne nei mesi in cui si sviluppa la loro gravidanza e poi avviene il parto, lo stesso momento del parto è uno degli elementi che segnano spesso in modo profondo la diversità delle culture dei vari popoli.
Se in occidente è ormai abituale la presenza del padre nella sala del parto accanto alla propria donna, la presenza maschile è generalmente impedita in molte culture, a meno che non venga richiesta quella dello sciamano della comunità per propiziare il buon esito del parto stesso o la nascita di un maschio, essendo considerata la nascita di una bambina presso alcuni popoli addirittura una sciagura, come peraltro avveniva nella storia antica anche a Roma o in Grecia. Per quanto difficili e rare, situazioni di questo genere sono state documentate anche in occidente presso alcune comunità di immigrati, come quella cinese e quella nigeriana, solitamente restie anche per tale ragione a ricorrere a strutture ospedaliere o a personale medico-sanitario “ufficiale” in caso di parto.
Le donne anziane ancora oggi espletano in alcune comunità il compito che nelle società più attrezzate dal punto di vista medico-scientifico è devoluto alle ostetriche e ai medici ginecologi, come peraltro avveniva ancora fino a pochi decenni fa nella stessa Italia, in particolare al sud. Semmai, in certe culture è d’uso che anche il marito, in un luogo vicino a quello del parto della propria donna, partecipi all’esperienza della moglie mimando simbolicamente la sua sofferenza e le doglie fino a parto avvenuto, in una consuetudine rituale che ha ovviamente stretti legami con il mondo magico collegato all’esperienza stessa della procreazione.
Analogamente, in questi casi l’uomo resterà a riposo per lo stesso tempo della moglie per riprendersi anch’egli dalle… fatiche del parto. Come negare che il processo migratorio ha comunque portato anche in occidente alcune di queste consuetudini, sebbene la presenza femminile nell’àmbito delle varie comunità di immigrati rimanga inferiore a quella maschile? Tradizioni e abitudini inveterate finiscono quindi con l’essere così spesso replicate anche al di fuori del proprio contesto geografico d’origine, magari proprio per rafforzare, seppur da lontano, i legami identitari con quel mondo che si è lasciato ormai alle spalle.
Ovviamente anche le pratiche mediche, la farmacologia e le stesse tecniche diagnostiche in uso nella pratica medica occidentale possono essere oggetto di rifiuto da parte di persone di altre culture, anche se apparentemente integrate in occidente. Ed ecco allora la presenza persino nelle periferie di grandi capitali come Londra e Parigi di figure alternative di guaritori che vengono ricercate dalla popolazione immigrata, dato che anche attraverso di esse si perpetua la cultura dei propri antenati e quindi il senso identitario della propria storia. D’altronde, perché meravigliarci se anche in molte aree del nostro stesso Paese alcune persone, anziché rivolgersi al proprio medico di base, a uno specialista o a uno psicologo, chiedono aiuto in caso di malesseri a figure di guaritori e majare tuttora operanti alla “luce del sole”, che tanti punti in comune hanno con gli sciamani delle terre lontane?
Conclusioni
Alla fine, tutto ciò che si muove intorno alla dimensione delle migrazioni e delle politiche di contrasto e di contenimento delle mobilità contemporanee è un aspetto di fondamentale importanza per osservare, interpretare e disvelare il presente, per cogliere il gioco ininterrotto di forze e di rifrazioni che attraversano oggi le relazioni interumane ai più diversi livelli. Attraverso quello che può essere definito “il prisma dell’accoglienza” diventano un valore aggiunto lo sguardo, l’analisi e la comprensione che si possono trarre dal lavoro dell’antropologo che, posizionandosi al centro dei flussi del razzismo, delle questioni delle diaspore e del multiculturalismo, nonché del dibattito sulle frontiere interne ed esterne, sarà in grado di empatizzare con le storie orali e di vita, con le sofferenze delle vittime, con la ricerca delle loro identità e delle loro diversità, “così da dedicarsi a un’antropologia della marginalità che diventi strumento dell’intervento umanitario trasformandosi da “antropologo dell’accoglienza” in “antropologo nell’accoglienza”. 19)
Come ha notato il sociologo franco-algerino Abdelmalek Sayad, la marginalità degli immigrati è legata anche al fatto che “essi sono geograficamente lontani dalla loro realtà di origine e non possono fare affidamento sulla propria rete sociale; al contempo sono anche assenti, anche se fisicamente presenti, dalla nuova realtà in cui vengono accolti”. 20) Alla condizione di emigrato-immigrato, d’altronde, è spesso associata una colpa: da un lato, quella che Sayad definisce “storica” e che riguarda il fatto di essere fuggito, di aver abbandonato la propria realtà, una colpa reale o percepita in relazione alla distanza dalla propria precedente quotidianità; dall’altro lato, la colpa definita “comportamentale”, correlata allo stigma sociale diffuso che lega immigrazione e delinquenza, devianza o criminalità. 21) Sarebbe interessante che il lavoro antropologico potesse a questo punto agevolare l’integrazione aiutando i migranti richiedenti asilo, attraverso la mediazione culturale, a impiegare le proprie conoscenze, le abilità e le capacità variamente acquisite durante il corso della loro vita personale e lavorativa, per sostenersi e al contempo portare un contributo attivo nelle società di destinazione in cui sono o saranno inseriti, sopperendo forse alle mancanze che nel frattempo esistono nel mercato del lavoro degli stessi Paesi in cui andranno o tenteranno di andare a vivere. Proprio su questo argomento l’UNHCR (l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite) ha di recente pubblicato uno studio in cui riporta come siano gli stessi rifugiati a voler essere considerati delle risorse. 22)
Ma ci si consenta un’ultima osservazione: davanti al vuoto che caratterizza spesso le procedure di accoglienza nei Paesi destinatari dei flussi di immigrazione, le resistenze all’integrazione colpiscono non solo i migranti ma anche i loro eventuali figli (i cosiddetti immigrati di seconda generazione), che anche a distanza di anni sembrano cercare con mezzi propri le prove di una trasformazione, di una metamorfosi, anche ricorrendo a esperienze limite, spesso micidiali, quali la caduta nella tossicomania, l’abitudine alla delinquenza, persino alla violenza anti-occidentale, spesso anti-femminista, considerando la donna occidentale non come persona ma come preda sessuale per il solo fatto che non si conforma agli obblighi del Corano o delle leggi morali del proprio Paese d’origine (magari non conosciuto nemmeno personalmente), giungendo in casi limite persino a diventare strumenti dello stragismo ideologizzato politicamente e religiosamente, a fronte di un disagio psichico che non è stato visto e trattato in tempo, ma è stato lasciato a covare in se stesso; un disagio che, dopo uno strano periodo di latenza rispetto all’evento traumatico che l’ha originato (la traversata in mare su un barcone, episodi di discriminazione sociale o religiosa, l’incapacità di apprendere bene la lingua del Paese ospitante, la mancanza di un lavoro stabile che apra la porta di quell’ascensore sociale tanto agognato per chi cercava fortuna lontano dal suo Paese, ecc.), sembra risvegliarsi improvvisamente allo scoccare di una scintilla accidentale, come l’ennesima discriminazione, l’ennesimo rifiuto di un posto di lavoro, eccetera, ma che finisce ancor più col rappresentare “un’ulteriore e ben più grave esperienza traumatofila”.
Per di più parliamo di traumi che agiscono molto in profondità nella psiche di persone esposte continuamente al disagio sociale derivante anche dallo stesso vivere in mezzo a persone che non accettano facilmente la loro diversità, qualunque essa sia. “Il trauma genera modificazioni, sconvolgimenti non solo nella psiche individuale, ma anche e sempre nel campo sociale”: 23) ciò si evidenzia in particolare nei bambini e negli adolescenti che non possono sottrarsi all’influenza dell’adulto sotto il peso della paura e dell’angoscia, perché nell’adulto (un genitore, un parente, un conoscente rispettato) ripongono la loro solida fiducia più di quanto non possano riporla nelle persone tutt’attorno a loro che non appartengono però alla loro cultura d’origine e nemmeno nelle istituzioni di uno Stato che non è stato in grado di fornire sufficienti tutele e integrazione (soprattutto rispetto alle aspettative spesso idealizzate di partenza).
I problemi del fenomeno migratorio sono anche questi; e certamente non sono le ideologie a poterli risolverli, né solamente le leggi di uno stato che pure si è dato l’obiettivo di attuare autentiche politiche di integrazione ed efficienti sistemi di welfare anche per gli stranieri: l’esempio lampante è la Svezia, dove ad anni di pacifica accettazione dei flussi migratori che hanno fatto di questa nazione un esempio per molti altri stati (non solo europei) è adesso sopraggiunta una spinta a frenare con ogni mezzo la spinta migratoria, soprattutto di persone di fede musulmana, dato che la società nel suo insieme, e specialmente la popolazione che vive nelle aree meno densamente popolate, da un lato non ha voglia di perdere per sé quegli strumenti di assistenza che lo stato, con l’aumentare della percentuale di stranieri, non è più in grado di erogare, garantendo quell’alta qualità della vita in cui gli svedesi sono stati abituati a crescere e a far crescere i propri figli, dall’altro ha reagito sentendosi indifesa di fronte agli innumerevoli episodi di violenza e di intolleranza (anche religiosa) che si sono succeduti negli ultimi tempi, appannando quella sensazione di sicurezza della quale la popolazione si è sempre vantata, per esempio non chiudendo spesso le porte di casa o costruendo edifici che anche in luoghi isolati non hanno alcuna protezione esterna, come cancelli, tapparelle, persiane, eccetera. Non è un caso che anche in Svezia l’avanzata delle destre ha profondamente mutato da poco il quadro politico del parlamento e del governo, confermando un’onda lunga che sta investendo lentamente ma quasi inesorabilmente molti altri Stati occidentali incapaci di affrontare i sempre maggiori flussi migratori da Paesi culturalmente lontani con misure concrete di integrazione sociale e con politiche mirate di crescita economica per tutta la popolazione, ma nel contempo adottando anche strumenti atti a garantire la sicurezza alla popolazione locale.
N O T E
1) Cfr. Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Bari 2010.
2 Il termine meticciato è stato usato tra gli altri da François Laplantine e Alexis Nouss in un loro interessante volume dal titolo Il pensiero meticcio, Parigi 2011; trad. it. Milano 2015. La parola francese “métissage” è frutto di una fantasiosa etimologia, come scrivono gli autori, derivante dal termine métis (meticcio), a sua volta derivante dal latino mixtus (misto, mescolato), e dal termine tossage (letteralmente: tessitura; in senso lato: intreccio).
3 François Laplantine-Alexis Nouss, op. cit.
4 Roberto Karra, L’era postmoderna tra identità transnazionale e sindromi mutanti, dal blog robertokarra.it, 2016.
5 Addio ai confini del mondo. Per orientarsi nel caos postmoderno, Milano 2012.
6 Cfr. Ugo Fabietti (e altri): Dal tribale al globale, Milano 2020.
7 Le banlieues sono state definite “quartieri d’esilio” o di “segregazione” da alcuni studiosi come Delarue Dubet e Donzelot, in quanto aree abitate da altissime percentuali di giovani disoccupati e spesso inoccupabili, spesso dediti all’alcol (nonostante di religione soprattutto islamica) e alle droghe, cui vengono attribuiti, in parte fondatamente e in parte per pregiudizio, spaccio, furti, scippi, stupri, atti vandalici e numerose altre violazioni del codice penale e delle norme non scritte della convivenza civile. Proprio per questo motivo, questi giovani, e più in particolare quelli di origine araba, sono oggetto di una speciale attenzione da parte della polizia che, quando gliene viene data l’occasione, non esita a intervenire con mano pesante, suscitando la reazione dei loro elementi più politicizzati, che, in buona o in cattiva fede, gridano a loro volta alla “repressione razzista”.
8 Umberto Melotti, Immigrazione e conflitti urbani in Europa, “Quaderni di sociologia” n. 43, 2007. Di lui si consiglia anche Cultura e partecipazione sociale nella città in trasformazione, Milano 1965.
9 Cfr. l’articolo dal titolo Il decalogo delle periferie pubblicato sul quotidiano “La Stampa” di Torino il 15 settembre 2006.
10 Die Revolte der Überflüssigen, Monaco di Baviera 2005.
11 Collaborare o rigettare? Il mestiere dell’antropologo e l’arcipelago dell’accoglienza, da “Antropologia Pubblica” (con Davide Biffi), vol. 3, Prato 2017.
12 Introduzione a Non siamo soli al mondo, di Toble Nathan, Parigi 1999;- trad. it. Torino 2003.
13 Una differenza intrattabile, da “AM – Rivista della Società Italiana di Antropologia Medica” n.37, aprile 2014.
14 Ricordiamo che l’art.2 della nostra Carta Costituzionale recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”; mentre l’art. 3 afferma: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 comma 2, 37 comma 1, 48 comma 1, 51 comma 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali”.
15 Fabio Fichera e Silvia Pitzalis, in un loro studio pubblicato nell’ottobre del 2019 sul n. 47/48 di “AM – Rivista della Società Italiana di Antropologia Medica” intitolato Usi sociali dell’antropologia tra clinica ed etnografia, hanno evidenziato che molteplici emersioni del disagio giovanile nei minori migranti prendono avvio in maniera consistente nella fase transitoria tra la minore e la maggiore età, periodo di tempo molto più fluido rispetto alla nostra cultura occidentale e alle sue categorizzazioni burocratiche. “L’idea stessa della ‘maggiore età’ è un costrutto sociale culturalmente orientato”, essi scrivono, “il quale assume connotazioni diverse nelle differenti realtà sociali”.
16 Cfr. Futuro liquido. Società, uomo, politica e filosofia, Cambridge 2006; trad. it. Milano 2014; e Vita liquida, Cambridge 2005; trad. it. Bari 2006.
17 Società, culture e differenze di genere, Milano 2005.
18 Nonostante tutte le controversie ancora esistenti in sede socio-culturale e politica sull’argomento, non possiamo dimenticare che a Napoli il “femminiello” è una figura rispettata da secoli e la cultura popolare non l’ha mai considerato un “deviato”; semmai ne ha propiziato la popolarità rendendo la sua presenza addirittura necessaria in alcune manifestazioni tradizionali, come la “tombola scostumata”, nel corso della quale il femminiello assume quasi un ruolo sacerdotale per la distribuzione del numero portafortuna.
19 Ibidem.
20 Doppia Assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano 2002.
21 Cfr. Barbara Palla, Migranti: risorse umane non percepite, da “La Rivista Culturale”, marzo 2023.
22 “We are part of a solution” say young refugees, New York, 10 maggio 2018.
23 Nathalie Zajde, Il trauma, da AA.VV, Psicoterapie, Parigi 1998; trad. it. Bologna 2000.