Negli ultimi giorni, sulla homepage dell’Onu, è campeggiato un articolo: “Il divieto del niqab in Francia viola la libertà religiosa delle donne: la Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite”. Due donne musulmane francesi avevano fatto causa a una legge dell’Esagono che vieta loro di indossare il velo islamico integrale da cui spuntano solo gli occhi (anche le mani sono guantate di nero). La commissione dell’Onu a Ginevra, che ha condannato la legge francese in quanto “viola i diritti umani”, è rimasta però in silenzio su Asia Bibi, la donna cristiana pachistana il cui diritto alla vita è minacciato da un’altra legge, che ne opprime la libertà di coscienza. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha chiesto agli Stati Uniti di porre fine alla “pratica barbara” della pena di morte. Guterres però non ha ancora pronunciato una sola parola sulla condanna a morte di Asia Bibi. L’Onu ha prontamente difeso il diritto religioso di una donna a coprirsi tutto il corpo, ma è rimasto completamente in silenzio su una donna cristiana costretta a portare il velo quando appare in tribunale e che si trova in carcere da 3500 giorni a causa della propria fede.
Ma la scorsa settimana non c’è stata soltanto quella decisione dell’Onu a favore di un simbolo dell’islam politico come il niqab, per altro bandito in numerosi paesi arabi, come il Marocco e l’Algeria. Venerdì è arrivata anche la storica sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo su una donna austriaca che aveva definito Maometto un “pedofilo” a causa della sua relazione con una bambina, Aisha. In Austria, la donna era stata condannata in una sentenza che adesso porta anche il timbro dei giudici di Strasburgo, che hanno stabilito che la libertà di espressione finisce al confine con l’islam.
“Il giorno in cui è morta la libertà di parola in Europa”, ha scritto la rivista americana Commentary. “Non finirà bene per le élite liberal europee, che immaginano di poter usare il potere giudiziario coercitivo per chiudere i dibattiti sul posto dell’islam in Europa”, si legge in uno dei tanti commenti usciti sulla stampa americana (quella europea latita).
In pratica, i giudici di Strasburgo hanno incorporato le norme sulla “blasfemia” in vigore nell’islam, la stessa accusa per cui Asia Bibi è in carcere e gli islamisti vorrebbero spedirla al patibolo (anche Asia era stata accusata da alcune donne di aver “offeso Maometto”). La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo aveva difeso l’uso dei simboli religiosi cristiani nelle pubblicità e aveva condannato la Lituania perché aveva multato un’azienda che si era servita di Gesù e Maria per vendere vestiti. In quella sentenza di Strasburgo si legge che la Corte ritiene che “la libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica”. Essa, inoltre, “si estende a idee che scioccano, offendono o disturbano”. Dunque, per la Corte dei diritti umani farsi beffe dei simboli cristiani è parte di una sana vita democratica, mentre i simboli dell’islam sono intoccabili, così come il diritto di portare il niqab vale una sentenza mentre il diritto alla vita di Asia Bibi vale appena il silenzio. Parlando al Figaro, Grégor Puppinck, direttore dello European Centre for Law and Justice, ha detto: “La decisione della Corte avrebbe giustificato la condanna delle vignette di Charlie Hebdo, ma anche di Voltaire, Ernest Renan e August Comte. La Corte europea non è Charlie…”.
Come se gli europei fossero liberi di dire o scrivere soltanto quello che dice loro la Corte. Ma in un certo senso sono stati onesti, gli ambiziosi interpreti della sharia di Strasburgo: non esiste libertà di parola nell’islam.
Giulio Meotti, “Il Foglio”.