Diamolo per scontato. Si tratti di “oppio dei popoli” o del “sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo senza cuore…” (ovvero consolatio afflictorum), la religione da sempre si sovrappone alla politica (e viceversa). Talvolta anche a sproposito.
Citerò solo due casi per averli conosciuti di persona: Irlanda del Nord e Sudafrica.
Non potendo contare sul diverso colore della pelle e nemmeno sull’etnia (entrambi, scozzesi e irlandesi, popoli di origine celtica) o sulla lingua (idem), gli anglosassoni – e anglicani – inglesi (popolazione di origine germanica) al momento di colonizzare sistematicamente l’Ulster strumentalizzarono la religione.
Divide et impera: cattolici gli indigeni irlandesi, protestanti (in genere presbiteriani) i coloni scozzesi. In realtà tra i padri del repubblicanesimo irlandese non mancarono poi, alla fine del ‘700, anche diversi protestanti. Ma comunque alla lunga la cosa sembrò funzionare, mantenendo (almeno fino agli anni novanta del secolo scorso) una forte discriminazione tra le due comunità in materia di posti di lavoro, assegnazione di abitazioni, eccetera, funzionale alle logiche imperiali di Londra.
Arrivando talvolta a veri e propri pogrom da parte dei “lealisti” contro le aree cattoliche (“papiste”) di Derry e Belfast, con devastazioni e incendi.
Ovviamente, come mi aveva fatto notare Bernadette Devlin (a casa sua, nel 1985 mi pare), la questione non erano i princìpi religiosi ma precisi interessi economici e strategici.
Invece nel Sudafrica del secolo scorso (in particolare all’epoca di Botha, negli anni ottanta) le Chiese, soprattutto quelle protestanti, si dividevano radicalmente anche al proprio interno sulla questione dell’apartheid. Entrambi gli schieramenti trovavano nei passi della Bibbia argomenti per giustificare le rispettive, opposte posizioni.
Fondamentale, a detta di molti osservatori, fu comunque l’impegno militante di personaggi come il vescovo Desmond Tutu. Sia nell’abbattere il regime segregazionista (vero razzismo istituzionalizzato), sia nel successivo superamento del conflitto con l’opera di pacificazione e riconciliazione tra bianchi e neri.
Bolsonaro come Erdogan?
Nell’odierno caso del Brasile, la pandemia ha funzionato da cartina di tornasole, mettendo in evidenza ben oltre le questioni teologiche quali siano gli autentici rapporti sociali (gli interessi “di classe” mascherati con le distorsioni religiose del bolsonarismo) vigenti nel grande Paese latino-americano. Nonostante l’aumento dei casi di Covid-19 rimanga preoccupante (ormai si parla di oltre diecimila morti accertati), buona parte delle Chiese sembra aver sottoscritto le posizioni negazioniste del presidente. Sia in materia di distanziamento sociale, sia nella scelta azzardata di riaprire servizi pubblici e imprese. Alla faccia delle raccomandazioni di scienziati e organizzazioni sanitarie che paventano un possibile collasso del sistema sanitario.
La sostanziale convergenza ideologica con l’attuale governo di destra risale all’epoca precedente le elezioni del 2018 e interessa soprattutto gruppi come i pentecostali e i neo-pentecostali. Ossia i principali seguaci della cosiddetta “teologia della prosperità”, in evidente contrapposizione alla storica “teologia della liberazione” e in sintonia con vari movimenti politici di ispirazione ultra neoliberista e, ca va sans dire, con i militari. Tutti ben rappresentati nei ministeri del governo Bolsonaro a cui gli evangelici garantiscono una cospicua base di massa. Secondo un recente sondaggio dell’Istituto Datafolha gli evangelici (compresa la minoranza – rispetto a pentecostali e neo-pentecostali – protestante) rappresentano il 31% della popolazione.
Fin dall’inizio della pandemia, tra alcuni esponenti protestanti e quelli pentecostali si registravano reazioni divergenti, se non addirittura opposte. Mentre i principali leader evangelici appoggiano la prosecuzione delle attività economiche, oltre che delle celebrazioni religiose, i protestanti riformati (ecumenicamente in sintonia con la maggioranza dei cattolici) hanno adottato misure preventive, sospendendo le celebrazioni e applicando il distanziamento sociale, talvolta in anticipo sulle stesse direttive sanitarie.
Nel frattempo il presidente brasiliano partecipa alle manifestazioni dei suoi seguaci e sostenitori, ostentando apertamente di non adottare la mascherina protettiva e senza evitare di toccare le persone.
Non si può escludere che Bolsonaro e colleghi intendano approfittare della pandemia per eliminare fisicamente un consistente numero di soggetti “improduttivi e superflui” (stando ai parametri capitalisti) ossia indios dell’Amazzonia, diseredati delle favelas e prigionieri rinchiusi nelle carceri.
Una politica potenzialmente “genocida” secondo Nivia Souza Dias, esponente dell’Alleanza dei Battisti in Brasile.
Politica analoga a quella adottata dal regime di Erdogan che, pur avendo aperto le celle per un gran numero di detenuti comuni (per evitare una possibile moria di masse nelle carceri sovraffollate), si guarda bene dal liberare i prigionieri politici e curdi.