L’origine del popolo basco rimane ancora oggi un mistero, così come è difficile poter definire perfino gli esatti confini del territorio storicamente abitato da questa comunità che oggi conta poco più di tre milioni di persone e la cui storia si perde nella notte dei tempi. Lo si comprende addirittura dal nome che i baschi attribuiscono alla loro terra, Euskal Herria, un’espressione che indica sia la parte del territorio geografico da loro abitato, sia “il popolo che parla la lingua basca”, elemento questo che lega indissolubilmente ogni ipotesi sulla loro origine a quella, altrettanto enigmatica, sulla loro lingua.
In ogni caso Euskadi è un termine che designa una nazione che ha sempre provato non solo a mostrare un’identità propria, ma a ottenere un’autonomia politica rispetto agli Stati che hanno occupato quella parte di territorio europeo, al di qua e al di là dei Pirenei settentrionali, che risulta sia agli archeologi sia ai paleontologi essere stato sempre abitato dai baschi, e che ai giorni nostri è diviso, dal punto di vista amministrativo, in sette “province”. Quattro di esse appartengono al regno di Spagna (con l’86% del territorio e il 91% della popolazione): Bizkaia, Gipuzkoa, Araba e Nafarroa (Navarra); e tre alla Francia, e precisamente al dipartimento dei Pirenei Atlantici (Iparralde in basco), a sua volta facente parte della regione della Nuova Aquitania (con il 14% del territorio e il 9% della popolazione): il Lapurdi (Labourd in francese), la Nafarroa Behera (Basse-Navarre in francese) e la Zuberoa (Soule in francese).
La questione della lingua
Quanto alla lingua, in realtà oggi solo il 27% della popolazione residente nel Paese Basco (quindi circa ottocentomila persone su tre milioni) parla l’euskera e questa situazione, più che dalle contaminazioni delle lingue vicine, è legata soprattutto alla lotta spietata che, particolarmente nella Spagna durante il regime di Franco (1939-1975), è stata condotta contro le lingue diverse dallo spagnolo (cioè dal castigliano): in quel periodo fu vietato alle persone di parlare in pubblico la lingua basca, che fu bandita dalle scuole e dagli organi della pubblica amministrazione, e l’averne vietato l’uso e l’insegnamento ha portato ovviamente a una riduzione del numero di persone in grado di parlarla, anche se negli ultimi anni del ‘900 sono emersi da parte di alcuni intellettuali locali molti sforzi per rilanciare l’euskera e promuoverne nuovamente l’apprendimento da parte delle più giovani generazioni.
Ma cosa fa della lingua basca qualcosa di tanto differente da ogni altra lingua oggi parlata non solo in Europa ma in tutto il pianeta? Diciamo subito che possiamo parlare di peculiarità che si ritrovano in ogni elemento di questa lingua, cioè nella morfologia, nella grammatica e nel lessico. Ma prima di ogni altra cosa i linguisti sono pressoché concordi nel riconoscere al basco il primato storico di lingua più antica d’Europa, con un’estensione originaria su un territorio che anticamente arrivava a coprire con ogni probabilità anche tutta l’Aquitania (in Francia) e la Rioja (in Spagna), oltre all’area pirenaica dove oggi è rimasta in vita.
Non aiuta sicuramente a suffragare alcuna ipotesi il ritrovamento di documenti scritti, dato che l’euskera rimase una lingua solamente orale – senza quindi una scrittura che ne permettesse e ne agevolasse la trasmissione – fino a tutto il ‘500: i primi documenti che ne attestano l’esistenza scritta appartengono, infatti, al periodo a cavallo fra il XVI e il XVII secolo. Ma già questo consente di affermare che ci si trova davanti a una lingua del tutto estranea a qualunque gruppo o sottogruppo linguistico a cui vengono abitualmente ricondotte tutte le lingue indoeuropee parlate nell’Europa occidentale, compreso l’iberico (oggi di fatto scomparso), che si era ritenuto a lungo una lingua con un’origine comune al basco.
L’esistenza dell’euskera sarebbe comunque documentata indirettamente da documenti scritti in altre lingue, e c’è chi è convinto che il basco abbia addirittura preceduto il latino di molti secoli. Ma, come dicevamo, nessuno è riuscito finora a dimostrare parentele certe o reali collegamenti della lingua basca (o, meglio, di uno degli otto dialetti in cui a sua volta il basco si divide) con nessun’altra lingua oggi conosciuta e parlata anche in altri continenti, sebbene siano stati fatti vari tentativi di apparentamento con alcune lingue caucasiche, come il georgiano (Georges Dumézil) o l’armeno (Vahan Sargsyan), che farebbero leva sulla coincidenza di alcuni toponimi simili fra l’area pirenaica e quella caucasica; e a entrambe queste ipotesi linguistiche si legherebbe anche quella della provenienza del popolo basco dalla regione caucasica.
A cercare origini diverse ci hanno provato invece altri linguisti che hanno cercato affinità con il retico (parlato da una popolazione alpina di fatto estinta) e con l’etrusco; mentre Eduardo Blasco Ferrer (“Beihefte zur Zeitschrift für romanische Philologie”) e, più di recente, Juan Martin Elexpuru Arregi (Euskararen aztarnak Sardinian?) hanno provato a trovare elementi di coincidenza col sardo, o meglio con il paleo-sardo.
Gli studi e i musei etnografici
Lasciando da parte ulteriori approfondimenti sulle questioni linguistiche, concentriamoci adesso sugli altri aspetti specifici della cultura del popolo basco. Gli studi etnografici che vi sono stati dedicati sono iniziati in concreto solo a cavallo fra ‘800 e ‘900, con un certo ritardo rispetto a quelli che vedevano protagonisti altri popoli d’Europa che già avevano preso coscienza della necessità di riscoprire storia e tradizioni dei propri antenati per riportare alla luce una coscienza collettiva su cui fondare la propria identità.
L’antesignano degli studi antropologici sull’Euskadi fu Telesforo de Aranzadi (1860-1945), nato in una piccola cittadina della Gipuzkoa, che ottenne la cattedra di antropologia a Barcellona proprio per i suoi studi sul popolo e sulla cultura dei baschi, studi che integrarono quelli iniziali di botanica e scienze naturali a cui si era dedicato fino a quel momento e a quelli successivi di archeologia. Il Museo Archeologico, Etnografico e Storico Basco, fondato a Bilbao nel 1919, è la sede che conserva gran parte del materiale archeologico e antropologico raccolto da Aranzadi; mentre in anni più recenti sono stati aperti altri musei etnografici, come quello di San Sebastian in territorio spagnolo e quello di Bayonne in territorio francese, che insieme a quello di Bilbao costituiscono ancora oggi la fonte migliore per chiunque desideri occuparsi di studi e approfondimenti di carattere demo-antropologico sul popolo basco.
La tradizione lavorativa dei baschi, al di là dello sviluppo industriale del loro territorio iniziato a fine ‘800 ed esploso sotto il regime franchista, è sempre stata collegata all’agricoltura e all’allevamento del bestiame. La pastorizia, in particolare, è stata l’attività primaria nelle aree intorno ai massicci montagnosi pirenaici, come la Peña de Gorbea, il Monte Oiz, Eutzia, Urbasa, la Peña de Aitzicorri, la Sierra de Aralar e i Pirenei della Navarra, che sono anche le aree in cui sono stati scoperti monumenti megalitici di epoca neolitica; si trattava di una pastorizia stanziale, non collegata come in altre aree europee alla transumanza delle greggi, e questo è un altro elemento che conferma l’estremo isolamento in cui per tanti secoli hanno vissuto i baschi.
A queste attività si collegavano quelle artigiane, con la produzione di arnesi e attrezzi adatti all’agricoltura, come aratri (chiamati goldia) a uno o più denti, come falci dentate e varie tipologie di trebbie manuali (chiamate irabiurra, chipita o zaro, a seconda della loro forma e del loro uso); e con la realizzazione di secchie (suilla) per il latte e il quaglio, costruite con doghe di legno e larghe strisce di ferro, di cucchiai di legno e di corno per l’attività casearia, di carri a due ruote massicce di legno rinforzate con ferro e fissate nell’asse, pure di legno.
Pochi invece, rispetto ad altre culture, sono gli oggetti intagliati o decorati che caratterizzano la cultura tradizionale basca, segno di una massima praticità nella vita quotidiana di questo popolo, di cui ovviamente non si possono invece dimenticare i tipici elementi del vestiario, a partire dalla boina o chapelak, il famoso copricapo usato dagli uomini, noto dappertutto ormai col termine “basco”, e il panno bianco (estalki) indossato sul capo con cui le donne sposate si ricoprivano i capelli, confezionato in casa, ma anch’esso privo di particolari decori.
Ma, anche per i costumi indossati, ben pochi sono gli elementi che consentono di parlare di ricchezza di addobbi, ricami o altri elementi in grado di impreziosire anche i tradizionali “abiti della festa”, sui quali altre culture hanno invece fondato uno degli elementi più caratterizzanti della loro identità (si pensi ai bretoni, agli arbëreshë o ad altri popoli dell’area balcanica e slava).
La musica e la danza
Di maggiore interesse sono invece la musica e la danza. La musica popolare basca, pur non avendo una fisionomia peculiare come per la lingua, si distacca tuttavia notevolmente da quella dei popoli vicini (non soltanto spagnoli e francesi); in particolare si evidenziano alcuni tratti che possono essere accostati a elementi di popoli del Mediterraneo meridionale. Alcuni musicologi ed etnologi ritengono che ciò derivi dai contatti avuti a partire dal periodo medievale con le popolazioni arabe che conquistarono gran parte della Spagna e la dominarono per alcuni secoli; altri pensano che le similitudini siano collegate a una comune origine del popolo basco e di alcune tribù berbere, elemento questo che ci riporterebbe indietro alla questione, già trattata, delle loro origini storiche.
Se in tempi recenti si possono annoverare alcuni grandi compositori di origine basca (fra di essi Pablo de Sarasate e Maurice Ravel), che tuttavia studiarono e si affermarono lontano dal territorio spagnolo o francese dell’Euskadi (dove pure erano nati), è soprattutto alla musica popolare che si deve l’importanza della tradizione musicale di questo popolo; a cominciare dall’antico canto tradizionale “a cappella”, che ha sempre occupato un posto molto importante nell’àmbito di cerimonie religiose e feste, consentendo di tramandare per secoli anche testi in lingua basca rimasti affidati alla sola tradizione orale e poi trascritti soltanto a cavallo fra ‘800 e ‘900.
La canzone basca moderna è invece emersa a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, influenzata dal movimento folk internazionale, alimentata anche dalla rinascita culturale basca portata avanti, in questo caso, da alcuni giovani cantanti che hanno scelto di cantare nel loro repertorio antiche poesie in lingua basca, oltre a proprie composizioni; elemento questo che, anche grazie all’irruzione del rock fra le nuove generazioni alla fine del ‘900, ha consentito di portare nuova linfa al processo di recupero della lingua tanto osteggiata dal franchismo.
Tuttavia, non si può negare che la manifestazione principale nella quale la musica si è espressa presso il popolo basco è sempre stata la danza; nel senso che la musica, cantata e suonata soprattutto da strumenti come flauti (silbotia e chistuak), fisarmoniche (akordeoia) e tamburi (atabal e trun-tinnak), è stata abitualmente l’elemento di accompagnamento delle danze e dei balli che hanno da secoli affiancato la popolazione basca in tutte le sue occasioni sociali, dalle feste private a quelle pubbliche che le tradizioni “imponevano” nell’àmbito delle manifestazioni di piazza e durante le cerimonie religiose.
Ogni provincia o territorio storico, al di qua come al di là dei Pirenei, presenta ancora oggi delle danze peculiari che vengono ballate dalla popolazione locale in specifiche occasioni; queste a loro volta – al di là delle varianti locali – si possono dividere in tre grandi gruppi.
Il primo è quello delle danze di piazza, legate soprattutto a processioni e cerimonie religiose, per lo più espressioni spontanee e con ampia partecipazione della gente, fra le quali si può annoverare anche la danza dei sette salti (zazpi jauziak), dedicata alle sette province basche di Spagna e Francia ed eseguita in cerchio, con i partecipanti che danzano individualmente in fila uno dietro l’altro spostandosi su un’area a forma di cerchio in senso orario e antiorario, con un gran numero di passi specifici che apparentemente sembrano un movimento incessante di andata e ritorno senza molte variazioni.
Al secondo gruppo appartengono le danze praticate per segnalare la fine di festività o avvenimenti particolari, fra cui occupano un posto particolare quelle legate al carnevale (Lantzeko Ihauteria), con la loro forte valenza simbolica, dato che rappresentano la fine di un ciclo vitale, quello dell’inverno, e la rinascita della natura con la primavera. La più importante delle danze carnascialesche si svolge a Lanz, nella Bassa Navarra francese: è piuttosto complessa, si balla singolarmente in cerchio muovendosi in senso antiorario girando su se stessi e accompagnando salti e rotazioni con le braccia.
Al terzo gruppo appartiene la danza delle spade, una danza rituale eseguita da gruppi di ballerini come commemorazione o tributo d’onore, ancor oggi presente in molte città e piccoli borghi, fra cui San Sebastián, Zumárraga, Markina-Xemein, Deba, Lesaka, Bera, Elgoibar, Eibar, Beasain, Pamplona, Añorga e Andoain. Ognuno dei partecipanti prende una spada per l’elsa e un’altra per la punta costruendo sostanzialmente una catena legata dalle spade, che ovviamente non sono vere (non a caso si chiamano in basco esku biko ezpatak, cioè spade a due mani) e talvolta sono solamente bastoni di legno decorati con nastri, lunghi di solito più di un metro. Il gruppo è disposto su due o quattro file con le spade intrecciate, e un capitano si unisce a tutte le file nella parte anteriore. Agli ordini della guida, detta imaisu zaharra (vecchio maestro), il gruppo esegue varie figure coreografiche senza lasciar mai andare le spade. Per eseguire i ponti, il capitano si gira e cammina all’indietro prendendo i ballerini dalla parte anteriore, i quali alzeranno e passeranno le loro spade sopra le teste del resto dei ballerini. Chi viene dietro farà lo stesso finché l’intero gruppo non passerà sotto il ponte e si troverà di fronte all’indietro. Per eseguire i ponti, le file possono essere ruotate o fatte con tutte le spade in una volta, mentre in alcuni casi, come a esempio a Deba, le spade sono posizionate a livello del suolo, costringendo i ballerini a saltarci sopra. La danza delle spade è considerata anche una danza d’onore poiché gli archi con cupole formati dalle varie coppie di ballerini con le loro armi sono realizzati per offrire una passerella d’onore alle autorità o ai premiati nel caso di gare.
Le principali manifestazioni sacre e profane
Assai interessanti sono anche alcune manifestazioni che hanno luogo fra Navarra e Comunità Autonoma Basca nel corso dell’anno, e testimoniano la vitalità dello spirito e della storia dell’Euskadi.
Una delle più corali è la Korrika, ben poco conosciuta al di fuori dell’universo basco, una corsa a staffetta che si svolge nel mese di aprile e copre per undici giorni e dieci notti, senza interruzione, tutto il territorio basco; durante la gara, tenuta ogni anno su un percorso diverso (comunque mai inferiore ai duemila chilometri), i corridori, stimati volta a volta in centinaia di migliaia di persone, trasportano un testimone che passa di mano in mano a ogni chilometro, all’interno del quale è presente un messaggio che viene reso pubblico all’arrivo.
La gara, che ha scopi aggregativi ben più che sportivi, è organizzata dall’AEK, un’associazione che si occupa del coordinamento dei corsi di euskera per adulti, e ha un duplice obiettivo: estendere e rafforzare la mobilitazione degli abitanti dell’Euskadi a favore della lingua basca e raccogliere fondi per la creazione di altri centri di apprendimento della lingua. Migliaia di persone di quartieri di varie città, o anche di piccoli villaggi, prendono parte alla preparazione della Korrika e all’organizzazione di centinaia di manifestazioni e altri eventi culturali collaterali alla corsa vera, fra i quali festival musicali e spettacoli, che la precedono o le fanno da contorno nelle varie località toccate dai corridori.
Il 6 luglio di ogni anno, la città di Pamplona, capoluogo della Navarra, è invece spettacolare teatro della famosissima festa in onore del patrono, san Firmino; a mezzogiorno, nella piazza del Municipio cominciano i festeggiamenti con il lancio del chupinazo, il razzo che annuncia l’inizio della festa, che dura una settimana e alterna momenti religiosi a eventi prettamente folclorici e popolari, come sfilate o altro. Ma la parte più famosa della festa è l’encierro, la spettacolare corsa dei tori per il centro cittadino che ha come punto di arrivo la plaza de toros. E mentre fino ad alcuni anni addietro l’encierro aveva luogo solo nel giorno conclusivo della festa, oggi la sua popolarità è tale che si ripete per più giorni nel corso della settimana per dare la possibilità anche ai tanti turisti di poterla ammirare, protetti dalle staccionate erette ai margini delle strade utilizzate per la corsa.
Questa a sua volta, nonostante abbia una durata di pochi minuti, coinvolge davvero la totalità degli abitanti della città, molti dei quali, saltando la staccionata che divide il percorso dei tori dal pubblico o entrando fin dall’inizio nel flusso della mandria, si lanciano al loro inseguimento o li precedono per mostrare il loro coraggio, dedicandolo anche al santo.
Ovviamente la festa cristiana si mescola in questo caso a una manifestazione pagana basata sulla dimostrazione della superiorità dell’uomo sulla bestialità, impersonata dal toro, così come per altro accade nella classica corrida, evento famoso in tutta la Spagna e anche in alcune regioni di confine della Francia.
L’encierro così come si presenta oggi ebbe origine nel periodo medievale, allorquando i pastori portavano i tori dalle praterie della Navarra fino in città per una fiera che aveva luogo nella plaza mayor; dopo aver trascorso la notte precedente alla fiera in un accampamento vicino alla città, all’alba entravano circondati dai tori e accompagnati da gente che, a cavallo o a piedi, li aiutava con pali e grida a chiudere le bestie nei recinti all’aperto predisposti nel frattempo. Poi, col passare del tempo, alcuni provarono a correre non solo dietro ai tori ma anche davanti, per spronarli ad andare più veloci, e da lì ebbe inizio la manifestazione che oggi è diventata la più famosa dell’area basca.
Chiunque sia maggiorenne può correre nell’àmbito dell’encierro e il numero di questi corridori, normalmente vestiti di bianco, arriva anche ai tre-quattromila nei giorni del fine settimana, crescendo di anno in anno, nonostante gli incidenti che si verificano, con vari feriti o, in alcuni casi, anche con qualche defunto, quando qualcuno viene incornato prima di riuscire a saltare la staccionata per mettersi in salvo da un toro infuriato, come descritto anche da Ernest Hemingway nel romanzo Il sole sorge ancora.
Fra le altre manifestazioni popolari di grande interesse del Paese Basco ricordiamo la Fiesta de la Virgen Blanca (Madonna Bianca), che si svolge a Vitoria all’inizio di agosto e vede protagonista Celedòn, un pupazzo che scende dall’alto della chiesa di san Miguel fino a un balcone della piazza sottostante con un ombrello aperto fra la folla festante, la quale, cantando, ballando e bevendo, ne attende spasmodicamente l’arrivo; da quel momento ha inizio la festa dedicata alla Vergine, patrona della città, che dura per sei giornate (notte e giorno) durante le quali si susseguono concerti, fiere taurine, celebrazioni religiose e iniziative culturali.
Feste e manifestazioni assai importanti sono anche le semane grandi che hanno luogo a metà agosto a Bilbao e a San Sebastián, e prevedono eventi culturali e sportivi, giochi tradizionali, regate, partite di pelota, concerti musicali, spettacoli teatrali e importanti fiere taurine. In particolare a San Sebastián viene organizzato ogni sera per tutta la durata della festa locale anche il concorso internazionale di fuochi d’artificio, uno dei più antichi del mondo.
Sempre la città di San Sebastián è teatro di un’altra manifestazione popolare di grande richiamo, la festa del santo patrono, che ha luogo a gennaio ed è legata alla temporada, una marcia che coinvolge tutto il centro storico, accompagnata dal ritmo dei tamburi, strumenti molto apprezzati dai baschi i quali, secondo un detto locale, “hanno il ritmo nel sangue”.
La pelota
Abbiamo appena accennato alla pelota; ebbene, anche se in questa trattazione può apparire un po’ strano, è giudizio unanime di tutti gli antropologi che una delle tradizioni più interessanti e certamente più antiche del popolo basco sia una disciplina sportiva, che fu protagonista una sola volta dei giochi olimpici, quelli disputati a Parigi nel 1900. Alcuni, riguardo alla pelota, preferiscono non parlare nemmeno di uno sport ma semplicemente di un gioco, talmente popolare tuttavia da incarnare forse più di ogni altra manifestazione lo spirito del popolo basco, che non a caso lo ha esportato in ogni Paese nel quale si ritrovano comunità di suoi emigrati.
Pare che la pelota derivi storicamente dalla pallacorda, così come dalla pallacorda sono stati fatti derivare anche altri sport come il tennis. Anche se oggi evidenzia numerose varianti, ciascuna praticata in una o più nazioni, per antica tradizione si ritiene che la pelota per antonomasia sia quella basca, con le sue regole ben definite, giocata da sportivi dell’area basca residenti sia in Spagna sia in Francia, poi esportata anche altrove grazie alle comunità di emigrati a cui accennavamo, formatesi in particolare negli Stati Uniti, in Canada e in Messico; anche se da qui la pelota si è poi a sua volta estesa, soprattutto in questi ultimi decenni, anche ad altri Paesi dell’America latina dove nel frattempo si sono formate o moltiplicate comunità di origine basca.
Escluse alcune rare versioni locali, la pelota (che letteralmente significa “palla”) si gioca fra due squadre, composta ciascuna da una coppia di giocatori, che devono a turno lanciare la palla contro una parete (frontis in basco, fromtón in castigliano, fronton in francese). Le varianti riguardano soprattutto il tipo di palla usata, che è sempre realizzata artigianalmente in modo tale da risultare elastica e nel contempo dura per poter rimbalzare con velocità sulla parete verso cui viene lanciata dai giocatori, che infatti per evitare incidenti indossano spesso appositi caschi di protezione; solo raramente si utilizzano pelote più soffici o di gomma.
Un’altra variante è data dall’attrezzo impiegato per lanciare la palla, che nella versione originale prende il nome di hai alai (in castigliano chìstera o cesta punta, cioè cesta appuntita), una specie di canestro di vimini di forma affusolata lungo circa un metro, provvisto di una scanalatura per catturare la palla. Si usa tenendolo con la mano come la racchetta da tennis o, in casi più rari, trattenendolo al polso tramite un bracciale di cuoio.
La cesta punta si è in alcuni casi trasformata, lontano dai Paesi Baschi, in una sorta di racchetta incordata (xare o frontenis), di forma più allungata rispetto a quella in uso nel tennis, o in una paletta di legno, sempre di forma allungata (pala), di dimensioni ben maggiori ovviamente di quella usata per il ping-pong.
Il gioco della pelota, considerato lo sport nazionale del popolo basco, si pratica in un’area chiamata cancha composta da un terreno delimitato da linee bianche di lunghezza variabile a seconda della specialità. Nel sistema di regole tradizionali, la sua lunghezza è di sessantaquattro metri, mentre il muro frontale sul quale va lanciata la palla da entrambe le squadre è alto una decina di metri e largo poco più di dieci; esistono in realtà un muro sul lato lungo a sinistra e un altro muro, che serve al rimbalzo della palla lanciata, posizionato alle spalle dei giocatori.
Il pubblico assiste agli incontri seduto sulle tribune poste a destra, dietro una rete di protezione, con un tifo “da stadio” in favore della propria squadra, sulla cui vittoria vengono anche operate normalmente scommesse. Generalmente una squadra segna un punto quando gli avversari perdono il controllo della pelota e non ribattono colpo su colpo il lancio precedente: i giocatori, infatti, devono a ogni turno colpire la palla prima o dopo che tocchi terra con lo scopo di lanciarla nuovamente contro il muro principale; e quindi il giocatore che non riesce a rilanciare la palla sul muro perde il punto.
La pelota è dunque un gioco di destrezza, forza e agilità sul campo, come avviene col tennis, ma il campo da gioco è unico per entrambe le squadre, non doppio e con i giocatori opposti l’uno all’altro.
Affermare che la pelota è lo sport preferito della gente basca è assai riduttivo: ben più di altri sport, anch’essi assai comuni qui come nel resto del mondo (a partire dal calcio), esprime e sintetizza davvero lo spirito indomito e la semplicità senza fronzoli della gente di Euskadi.
Antropologia gastronomica
Ma fra le tradizioni del popolo basco di cui non si può fare a meno di parlare ve n’è un’altra, solo all’apparenza banale, che riguarda la tavola, o meglio la cucina e la secolare sacralità del mangiare in gruppo.
La cucina basca, fra l’altro, ha ben poco di simile con quella castigliana o di altre regioni della Spagna, né tanto meno condivide qualcosa con quella francese (a parte alcuni piatti con frutti di mare sulla costa basca attorno a Biarritz), perfino con quella della regione Aquitania all’interno della quale si trovano le province basche a oriente dei Pirenei. La sua storia e le modalità con le quali si concretizza ancora oggi sono da considerare, quindi, un tassello importante per qualsiasi studio etnografico sull’Euskadi.
Una delle più importanti tradizioni della cucina dei Paesi Baschi, soprattutto dal punto di vista sociale, è quella di ritrovarsi per esempio a cena in una txokos: termine con cui si intende una “società gastronomica”, qualcosa a metà strada fra una comune e un club aperto ai soli soci (che comunque possono in alcuni casi introdurvi come ospiti anche amici), all’interno della quale si perpetuano il mangiare collettivo e la cucina come elemento associativo.
In pratica, ciò avviene all’interno di uno spazio, più o meno grande, a volte unico e con lunghe tavolate, a volte con sale piccole e grandi e tavoli di varia dimensione, come in un normale ristorante o in una trattoria; solo che qui si trova una cucina attrezzata che di solito viene utilizzata da tutti i soci per cucinare quanto hanno acquistato; essi poi ospitano alla propria tavola amici e parenti, come se una saletta o una parte della tavolata del locale diventasse il living della propria abitazione e la cucina ne facesse parte.
Secondo un’indagine abbastanza recente, pare che queste società gastronomiche, sviluppatesi soprattutto a partire dall’800 sulle ceneri della tipica modalità di vita in comune nelle campagne basche, superino oggi le duemila, fra piccole e grandi. Fra di esse ve ne sono a carattere quasi familiare, nelle quali si riuniscono pochi soci legati da rapporti interpersonali, come erano quelle delle origini; e quelle di particolare eleganza dove fra i soci si possono trovare perfino chef stellati che, comunque, cucinano sempre e solamente per i loro amici. Moltissime txokos sorgono anche nelle strade più centrali di San Sebastián, Bilbao e Vitoria, altre sono più periferiche; ma è davvero difficile che anche i paesi più piccoli ne siano privi.
Tranne alcuni casi di società riservate a soci di un certo rango, in genere nelle txokos i soci sono persone di varia estrazione sociale: artigiani e professionisti, commercianti e medici, avvocati e a volte anche politici e amministratori locali, uniti da interessi comuni (prima di tutto culinari). Alcuni anziani, anche ultraottantenni, vi si ritrovano da quando accompagnavano i genitori o i nonni da bambini. Tutti hanno l’obbligo di mantenere un’atmosfera di serenità senza che si creino dissidi; a tavola si parla di cronaca, di amici comuni, di vita familiare e di tutto ciò che si vuole, cercando di non entrare in dibattiti che possano generare discussioni, sempre proibite laddove possono interferire con la quiete degli altri commensali.
Un’altra curiosità: in origine l’accesso alle txokos era vietato alla donne, mentre adesso non vi sono ovviamente restrizioni; anche se alcune strutture impediscono ugualmente alle donne di usare le cucine, riservate ai soli uomini. Inoltre, col progredire dei tempi, alcune di queste società gastronomiche hanno consentito ad alcuni soci soltanto il consumo al tavolo di piatti preparati dai cuochi in cucina, ufficialmente per accontentare anche chi non ha particolari passioni culinarie, in realtà trasformandosi in club privati che fungono di fatto da ristoranti; in questo caso è più facile anche per i non soci, quindi per un turista, esservi ammessi se ci sono tavoli liberi, pagando un corrispettivo per le spese dei piatti consumati (che ovviamente sono piatti “del giorno”); mentre i soci che non portano con sé cibi da cuocere o non cucinano devono contribuire alla cassa comune, tenuta dal presidente della txokos, in cui affluiscono anche le quote mensili versate dagli stessi soci per le spese generali del locale.
Ma è proprio in questi luoghi davvero unici nel panorama culinario europeo che – riuscendo a essere ammessi anche una sola volta da “esterni” – si può gustare la vera cucina basca tradizionale, a base di verdure, carne o pesce a seconda della regione in cui ci si trova, dato che anche in questo caso non si può parlare (come ovviamente avviene anche nell’àmbito dei ristoranti tradizionali) di una cucina basca unica, a parte alcuni piatti che potrebbero essere definiti “nazionali”: la maggior parte di essi sono tipici delle varie regioni, anche in relazione al fatto se siano territori interni o affacciati sul mare, e in alcuni casi perfino piatti tipici di una determinata città.
Dobbiamo ancora parlare, però, di un’altra specificità basca: i locali che servono i pintxos, o pintxos-bar. Immancabili in ogni città e in ogni piccolo borgo di tutto il territorio basco, i pintxos (o pinchos, come li chiamano gli spagnoli di altre regioni) sono, più che un piatto tipico della gastronomia basca e ancor meno un modello locale di street-food, un modo di stare insieme a tavola, o meglio davanti a un bancone, gustando una serie di tartine di vari gusti – ben più che un “aperitivo rinforzato”, come si dice oggi – accompagnandole con un bicchiere di vino rosso (txikito in lingua basca) o di birra (zurito).
In realtà, com’è noto, in tutta la Spagna esiste la tradizione delle tapas, tartine realizzate con vari ingredienti posti su una fetta di comune pane; la qualità di un locale di tapas rispetto all’altro è legato alla varietà della sua offerta e in particolare alla fantasia con cui le tartine vengono presentate. Ma è questione aperta se stiamo parlando della stessa cosa, se cioè i pintxos siano la variante basca delle tapas servite nel resto della Spagna, pur di dimensione maggiore; o se, al contrario, siano le tapas la variante spagnola dei pintxos, dai Paesi Baschi diffusesi nel tempo anche nelle altre regioni che ne hanno personalizzato la tipologia in base anche ai prodotti tipici locali, diversi ovviamente fra Asturie e Catalogna, fra Castiglia e Andalusia.
C’è chi sostiene, invece, che i pintxos baschi siano semplicemente qualcosa di diverso rispetto alle tapas, dato che in effetti in tutte le città basche, dove esistono decine e decine di questi locali, essi rappresentano un pasto abituale e non un semplice aperitivo, per quanto “rinforzato”.
Qualcuno ha ipotizzato che la nascita dei pintxos sia legata semplicemente alla povertà dei borghi rurali baschi, nei quali le donne preparavano il pane solo una volta alla settimana (come fino a metà del ‘900 accadeva anche in tanti paesi del sud d’Italia). Dopo alcuni giorni, essendosi indurito, il pane veniva tagliato in fette sottili che, oltre a essere utilizzate nel brodo di cottura delle verdure o nel piatto degli stufati, potevano essere ammorbidite con l’assorbimento per un po’ di tempo anche di qualche poverissimo condimento, come il pil-pil (a base di olio di oliva, peperoncino e aglio) o come la piperada (con peperoni in umido). Il pane quindi assorbiva pian piano l’umidità di tali condimenti per ammorbidirsi lentamente, diventando di fatto un pasto completo per i commensali insieme all’immancabile bicchiere di vino bianco o rosso.
È altrettanto chiaro che, indipendentemente dalla loro nascita, parliamo in entrambi i casi di una moda emersa soprattutto nel secolo scorso, trasformando le abitudini prima di tutto dei residenti e solo in un secondo momento divenendo un fenomeno di costume anche per i turisti. Rimane comunque evidente come i pintxos siano, nel migliore dei casi, la versione evoluta delle tapas: essi sono infatti generalmente più grandi delle tapas, ben più elaborati (spesso le tapas contengono appena qualche sottaceto, una fettina di prosciutto o di formaggio, una fetta di uovo sodo con maionese, eccetera), il che ne differenzia anche il prezzo. Per di più, come già accennavamo, non sono considerati dagli stessi baschi dei semplici assaggini per un antipasto, ma un mini-piatto che consente di scegliere fra vere e proprie ricette in miniatura, ben più complesse e raffinate delle tapas.
Tradizione vuole che, evolvendosi nel tempo e divenendo sempre più elaborati e complessi, proprio la loro forma e la loro altezza abbiano dato anche origine al nome: i pintxos, infatti, sono sempre caratterizzati da un piccolo spiedino di legno che ferma la farcitura al centro della fetta di pane utilizzata come base (d’altronde pinchar significa letteralmente pugnalare).
Questa è anche la riprova che tutto il Paese Basco, soprattutto nella parte spagnola, marca forte i propri caratteri anche negli usi e costumi della tavola, cui si dedica oggi molto più tempo di quello che gli altri europei utilizzano semplicemente sedendosi a pranzo e cena.
C’è chi afferma che i baschi vivano per mangiare. Forse non è così. Ma nei paesi e nelle città di queste regioni di confine, fra mare e montagne, dove l’isolamento è sempre stato una caratteristica che ha contraddistinto la cultura di questo popolo, i luoghi non sono certo rinomati per il clima soleggiato e nemmeno per i monumenti. E così anche i turisti hanno cominciato a frequentarli per passare spesso ore nel chiuso di un locale: un tempo in gran parte trascorso mangiando proprio come fanno i baschi, nati e cresciuti da sempre con la piena consapevolezza del valore della propria cultura materiale e immateriale, diversa da quella propriamente riconosciuta come spagnola, in cui come abbiamo visto riveste un ruolo preponderante anche la cucina.