Come ha evidenziato anche di recente il geografo Johannes Führer, i walser (dal tedesco Walliser, vallesano) sono i discendenti degli abitanti delle colonie storiche di cittadini elvetici di cultura vetero-alemanna che, lasciato il territorio originariamente occupato in periodo medievale nell’Alto Vallese, si sono insediati in varie piccole comunità dell’arco alpino conservando ancora vive la lingua, la cultura, l’economia e la consapevolezza storica di quell’antico popolo originario. 1)
Vissuti in piccole enclavi e in pieno isolamento per secoli, furono “scoperti” solo alla fine del ‘700 da Horace-Bénédict de Saussure, uno scienziato naturalista svizzero che può essere considerato il fondatore dell’alpinismo, nel suo vagabondare fra le più alte quote alpine alla ricerca di nuove specie vegetali.

La prima migrazione

Alla fine del XII secolo i primi gruppi di famiglie del Goms, un’area dell’Alto Vallese a 1400 metri d’altezza (che, fra l’altro, riveste un’importanza particolare in quanto è la prima testimonianza di insediamento agricolo permanente ad alta quota), attraversarono alcuni passi alpini – Sempione, Gries, Furka, eccetera – per stabilirsi nelle vicine valli montane più a sud e più a oriente, portando con sé, oltre a poche masserizie e al loro bestiame, anche le immagini sacre alle quali erano affezionate. L’emigrazione, resa possibile a quell’epoca dalle favorevoli condizioni climatiche che rendevano agibili molti valichi di alta quota, raggiunse il picco nel XIII secolo e terminò sostanzialmente a metà del XIV secolo.
E, come accadde con i coloni greci che fondarono le loro nuove città lungo le coste del Mediterraneo in particolare fra l’VIII e il V secolo a.C., anche i coloni vallesani non si limitarono a fondare solamente nuovi villaggi alpini, ma da queste colonie “primarie” partirono nel corso dei decenni successivi le nuove generazioni a formarne di “secondarie” e così via: in tal modo ogni villaggio, nato per essere autosufficiente, continuava a esserlo senza creare fenomeni di sovrappopolazione che avrebbero messo in crisi la capacità di gestione delle modeste risorse disponibili.
Non vi è certezza storica delle ragioni per cui questi contadini e pastori abbiano deciso di lasciare a un certo punto le loro terre originarie e si siano spinti soprattutto verso sud, decidendo di stabilirsi in particolare attorno al Monte Rosa fra l’attuale Piemonte e la Valle d’Aosta, e poi verso est, insediandosi pian piano nella regione austriaca del Voralberg, in Liechtenstein e soprattutto in alcune micro-aree del Canton Ticino e del Cantone dei Grigioni in Svizzera, e siano così diventati “walser”. C’è chi ha ipotizzato che a causare le migrazioni, fin dalle origini, sia stato un crescente numero di persone impossibile da sfamare in un territorio difficilmente coltivabile o probabilmente inariditosi eccessivamente; e chi invece ha ipotizzato un qualche disastro naturale, se non una delle tante epidemie di peste che la storia ricorda nell’Europa dei secoli passati. Nessuno lo sa con certezza, anche perché non ci sono documenti storici che ci forniscano informazioni sicure sull’argomento.
Proprio per questo alcuni storici ritengono che l’abbandono delle originarie terre vallesane sia stato, piuttosto, il risultato di una pianificazione voluta dai signori feudali del tempo, per lo più piemontesi e lombardi, che gestivano il loro potere anche nel Vallese e incrementavano i commerci transalpini sfruttando i valichi, beneficando anche chiese e monasteri locali. Furono con ogni probabilità proprio questi signori a organizzare il trasferimento di parte dei loro contadini, che lavoravano a mezzadria o gestivano i pascoli dei loro animali, dalle loro terre nel Vallese ad altre, sempre di loro proprietà, situate altrove e fino a quel momento non sfruttate adeguatamente a livello economico né come terreni agricoli né come pascoli per il bestiame.
Le migrazioni di queste famiglie non possono peraltro essere considerate nemmeno un fenomeno isolato, ma vanno inquadrate in un contesto storico più ampio: a quell’epoca l’Europa fu in molti suoi territori testimone di un forte aumento demografico, il che spinse le autorità locali, sia nobiliari sia ecclesiastiche (vescovi diocesani o abati), a favorire il dissodamento e la bonifica di terre abitualmente disabitate – perché magari più complicate da sfruttare e da rendere occupabili con insediamenti stabili – promettendo ai coloni che vi si sarebbero stanziati la futura liberazione dalla loro condizione servile e il possibile futuro possesso perpetuo delle nuove terre messe a coltura. Ovviamente si trattava proprio di aree poste nei più alti fondovalle e sui pendii delle regioni più elevate, dal momento che le zone collinari prealpine erano già da tempo popolate stabilmente e assai sfruttate economicamente. Furono quindi con ogni probabilità proprio le favorevoli condizioni climatiche di quel periodo storico a consentire queste migrazioni con lo stanziamento dei vallesani solo alle più alte quote delle zone alpine comunque antropizzabili, mentre è plausibile che siano stati rari i casi in cui essi si siano sovrapposti o aggiunti a comunità locali preesistenti.

Il “diritto walser”

In quei nuovi territori i primi migranti venuti dal Goms portarono una propria parlata dialettale alemanna, già in precedenza diffusa solo all’interno delle loro comunità anche se comprensibile, quanto meno fino a quel momento, pure alle altre popolazioni vicine di lingua tedesca, ma del tutto ignota nei nuovi territori più lontani. Questo primo gruppo crebbe pian piano di numero ottenendo ben presto anche il cosiddetto “diritto walser”, cioè il diritto di coltivare perpetuamente le terre per conto dei feudatari locali in cambio di una parte dei loro raccolti o di un canone di locazione dei terreni, oltre che con l’obbligo di prestare servizio militare.

Alagna Valsesia, frazione Pedelegno.

Nel giro di qualche generazione ottennero anche la piena libertà personale con quel diritto a formare ulteriori comunità di cui abbiamo già fatto cenno, tanto che i villaggi walser (piccoli nuclei autosufficienti denominati dorf e composti almeno inizialmente da una dozzina di famiglie o poco più, separate tra loro ma solidali comunque nel gestire il territorio e le incombenze ogni volta che se ne presentava la necessità) si allargarono a loro volta dapprima nei territori circostanti e poi in aree più lontane ma comunque sempre alpine e non ancora abitate, che i nuovi coloni iniziarono anche ad amministrare in autonomia perfino dal punto di vista giudiziario ottenendone alla fine la piena proprietà e, in tal modo, il diritto di lasciarle in eredità.
A questo “diritto walser” conviene dedicare qualche ulteriore riflessione e uno specifico approfondimento, poiché le normative che regolarono i primi contratti di mezzadria dei coloni walser ebbero sicuramente caratteristiche proprie, diverse da altre logiche feudali dell’Europa contemporanea; e finirono con il rendere particolari, per una sorta di effetto domino, alcune caratteristiche della cultura sociale di questo popolo anche nei secoli successivi.
Una prima distinzione dei contratti walser riguardanti la concessione delle terre alpine da parte dei feudatari riguardava la forma. Potevano essere sottoscritti per la creazione di insediamenti “pianificati”: in questo caso il signore concedeva a un gruppo di una dozzina di nuclei familiari un appezzamento di una certa ampiezza, prevedendo anche il riconoscimento delle autonomie amministrative e giudiziarie che caratterizzavano in maniera peculiare il diritto colonico walser. Oppure la concessione del podere a mezzadria riguardava soltanto un gruppo familiare: in questo caso non erano contemplate né libertà, né specifiche autonomie o privilegi stabiliti per i contratti del primo tipo.
Invece una caratteristica comune di questi contratti era l’ereditarietà dell’affitto dei poderi, sicché alla morte del colono assegnatario il contratto passava automaticamente al figlio primogenito (anche nel caso di contratti collettivi e comunitari questa specifica norma di ereditarietà avveniva all’interno di ogni famiglia assegnataria). Tale sistema giuridico comportò di conseguenza che eventuali altri figli fossero costretti a emigrare a loro volta, sempre lungo le anguste vie delle Alpi, alla ricerca di nuovi appezzamenti da prendere a mezzadria, d’accordo con il feudatario. “Il motivo fondamentale della ‘vocazione’ colonizzatrice dei walser era appunto da individuare nella necessità che a ogni podere dovesse corrispondere una sola famiglia colonica. 2) Da qui anche la motivazione giuridica che sta alla base della continua espansione, per almeno tre secoli, di questi coloni walser alla ricerca di sempre nuove porzioni di territorio alpino da coltivare e, quindi, da antropizzare con la creazione di sempre nuove comunità.

Villaggio walser in Valsesia.

Nascita di una “economia walser”

Per i motivi esposti, la diffusione dei coloni nelle alte valli dopo la prima migrazione avvenne per ondate successive; e a chiarire la Walserfrage, la questione walser, contribuisce l’ampliamento delle aree in cui la lingua parlata dai walser, senza specifici mutamenti di generazione in generazione, si andò diffondendo rispetto ai nuclei originari e a dispetto di altre popolazioni vicine. Tramite le prime documentazioni sistematiche, risalenti all’inizio dell’800, si sono potute mettere in relazione le parlate tedesche del Monte Rosa con i dialetti vallesani e con alcune parlate della Svizzera orientale. Con lo studio delle fonti e dei documenti storici, in particolare dei contratti di affitto, si sono potute inoltre datare le migrazioni via via successive e collegare i diversi stanziamenti walser classificandoli in colonie primarie (di diretta derivazione vallesana, come per esempio alcune di quelle italiane) e insediamenti secondari (come tutti quelli più a est, frutto per l’appunto delle generazioni successive). 3)
Per esempio in Val Formazza prima furono occupati gli insediamenti più alti, come Morasco e Riale; successivamente venne occupato il territorio sopra e sotto la cascata del Toce e quindi il tratto inferiore della valle. Alcuni coloni, partendo poi dagli insediamenti di Formazza, qualche decennio dopo, valicarono la catena alpina a oriente della valle e si stabilirono a Bosco/Gurin, il più alto villaggio del Canton Ticino. Altri coloni vallesani dal Passo del Sempione scesero verso la parte più meridionale del territorio cantonale svizzero per fondare Zwischbergen, per poi penetrare anche nel piccolo villaggio romanzo di Gondo, che dopo il loro insediamento cambiò nome diventando Ruden (e questo è uno dei rari casi di insediamento walser in aree già precedentemente antropizzate, anche se comunque quasi disabitate all’epoca).

Abitato di Mascognaz, comune valdostano di Ayas.

In modo simile le migrazioni si susseguirono, oltre che dai primi insediamenti ai nuovi, da questi ad altri ancora e avanti così per vari secoli, formando alla fine su ambedue i versanti delle Alpi un centinaio di nuclei autosufficienti; peraltro spesso del tutto separati tra loro e isolati anche per le caratteristiche morfologiche dei territori stessi, ma in gran parte solidali nel gestire reciprocamente eventuali aiuti in caso di bisogno e nell’amministrare le funzioni civili e religiose delle comunità.
In nessun caso i documenti storici in nostro possesso evidenziano che queste migrazioni abbiano avuto caratteristiche militari o violente, dato che si trattò fin dall’inizio di un’infiltrazione silenziosa: i vallesani presero possesso delle terre disabitate che nessuno aveva fino a quel momento voluto coltivare, o si affiancarono eccezionalmente ai pochissimi residenti in luoghi comunque appartati e difficili da antropizzare in modo stabile, come avvenne a Gondo/Ruden.
Anche in questo secondo caso, cercarono di preservare la loro identità originaria. Per esempio, mescolando il meno possibile lingua e cultura con quelle delle altre popolazioni germaniche, e conservandole quasi indenni nelle alpine dove invece le popolazioni limitrofe parlavano lingue neolatine (il franco-provenzale, il piemontese o il lombardo-ticinese), dato che in questi casi la mescolanza di termini e forme lessicali, così come i metodi e gli strumenti di lavoro, le abitudini familiari, le tradizioni e altre caratteristiche culturali e sociali, non erano messe in pericolo da contiguità e possibili contaminazioni identitarie.
Purtuttavia, la denominazione “walser” rimase per lungo tempo spesso ignota anche alle stesse comunità, in particolare a quelle insediatesi nel Piemonte e nella Valle d’Aosta, mentre il termine walser appare attestato già nel 1319 a Galtür, nel Vorarlberg austriaco, che fu l’estremo punto orientale delle loro migrazioni (anche se oggi qui la cultura walser è del tutto scomparsa). 4) Anche per l’ostracismo culturale a cui furono sottoposte dalle autorità locali, e in particolare dal fascismo, il termine walser si diffuse nelle comunità italiane soltanto a partire dal secondo dopoguerra, anche grazie allo sviluppo di un’identità culturale alimentata dall’interesse etnografico, sia a livello scientifico sia divulgativo, oltre che per la nascita di varie associazioni locali che promossero da quel momento azioni e manifestazioni volte alla conservazione e al rilancio della cultura e della lingua di questa antica popolazione che erano a rischio estinzione (in alcuni casi si trattò, soprattutto per la lingua, di una vera e propria “riesumazione”, dopo decenni in cui era del tutto scomparsa).
L’orografia e la climatologia di tutta quest’area, con dislivelli formidabili, valli strette e incassate e un’altissima piovosità, oltre che forti precipitazioni nevose invernali, hanno offerto alle popolazioni walser l’ambiente ideale dapprima al loro insediamento, quindi per lo sviluppo e la conservazione delle strutture economiche e culturali che meglio hanno soddisfatto l’esigenza di estrema indipendenza rispetto al resto delle popolazioni alpine che ne ha sempre caratterizzato la storia e la stessa distribuzione sul territorio. Per questo fatto, case, stalle e magazzini furono costruiti in tutti gli angoli del territorio in cui potessero rivelarsi utili, foss’anche per coltivare qualcosa o per pascolare e tenere facilmente al riparo dalle frequenti intemperie il bestiame.
La maggior parte delle antiche costruzioni walser era di legno, particolarmente abbondante nei boschi locali. Era usanza che, quando qualcuno doveva costruire una casa, ogni famiglia mandava un suo membro ad aiutare la famiglia interessata alla nuova costruzione: si partiva dai boschi, dove venivano tagliati gli alberi di larice e abete per farne subito travi; da qui queste venivano trasportate in gruppi al luogo dove l’edificio doveva sorgere (questo “rito” era chiamato der zug, letteralmente: tiro in comunione). Ad attendere le travi c’erano abili costruttori che le avrebbero sistemate con perizia usando una tecnica particolare a incastro: anche la disposizione di queste travi, infatti, seguiva un preciso e costante rituale, in funzione del tipo di rilievo su cui si sarebbe basata la nuova costruzione e soprattutto dell’orientamento della facciata principale, sempre verso il sole; l’incastro, a croce prendeva il nome di blockbau e avveniva in genere senza chiodi.


La loro dispersione territoriale e la creazione di questi piccolissimi insediamenti, detti weiler, caratterizza ancora alcuni dei Comuni walser sia in Italia sia dalla parte opposta delle Alpi, fra Svizzera e Austria. Ovunque il nucleo centrale dell’abitato, attorno al quale andavano sorgendo questi micro-villaggi satelliti, era anche quello dove sorgeva la chiesa, che per tutte queste piccole comunità sparse nell’area era il luogo che rappresentava la centralità sociale, culturale e non solo religiosa dell’intera popolazione del “centro”. Ed è proprio questo insieme di fattori a permetterci oggi di studiare le forme attraverso le quali questa cultura e questa lingua, pur nelle sue molteplici varianti locali, hanno resistito fino ai nostri giorni, nonostante i walser siano sempre stati (e a maggior ragione lo sono oggi) uno dei popoli minoritari d’Europa più esiguo in termini numerici.
Tornando alla cultura lavorativa dei walser – uno degli elementi fondamentali della loro secolare cultura, come ha sottolineato Max Waibel 5) – la loro opera di colonizzazione consisteva nel dissodare, popolare e sfruttare zone piovose e nevose di alta montagna, praticando l’allevamento e una forma di economia alpestre che permetteva di accumulare riserve di fieno e tenere mandrie di animali anche abbastanza numerose laddove nessun altro gruppo sociale aveva persino provato a stabilirsi.
Con la crescita demografica su entrambi i versanti alpini aumentò la richiesta di carne di manzo sui mercati italiani, svizzeri e tedeschi. I contadini dei Grigioni, del Vorarlberg e della valle d’Orsera vi si recavano per vendere il loro bestiame e acquistare i beni che non erano in grado di produrre da soli. Con la compravendita di merci, i walser prendevano così parte all’economia monetaria che andava sostituendo l’originale loro forma di economia, basata sul semplice baratto.
Una prova di questa loro capacità lavorativa e di adattamento alle risorse locali è data dal termine Grischeneyer (di evidente derivazione dal toponimo Gressoney, una delle aree di maggiore insediamento dei walser in territorio cisalpino), che divenne per secoli in tutto l’arco alpino germanofono un termine equivalente a “mercante”, essendo i walser di quest’area anche eccezionalmente liberi dagli usuali vincoli con i normali mercanti “di città” che, all’epoca, normalmente cedevano le merci agli ambulanti locali per poi pretendere una percentuale dell’introito da essi ricavato. Quello del mercante era comunque, almeno inizialmente, un lavoro soprattutto “stagionale”, dato che allontanava spesso nei mesi più freddi gli uomini dai loro villaggi, attorno ai quali abitualmente erano sempre loro a dedicarsi alle attività contadine nei mesi più caldi.

Donne di Gressoney.

Cio nonostante, gli allontanamenti periodici non pregiudicavano mai l’identità vallesana, dato che i walser tendevano a evitare i matrimoni con donne “forestiere”, e ben poche furono all’inizio anche le unioni fra walser e vicini francoprovenzali, germanici o piemontesi. Per secoli l’endogamia matrimoniale fu alla base del 90% dei neonati un po’ in tutte le loro comunità; fenomeno cui si accompagnava quello, altrettanto tipico per queste genti, della estrema stagionalità delle nascite, motivata dalla costante lontananza, in certi mesi dell’anno, di gran parte della popolazione maschile dai loro villaggi, lasciati da gestire agli anziani e alle donne; le quali ovviamente si occupavano anche dei bambini, fin quando questi, ormai grandicelli, non iniziavano anch’essi a lavorare per poi pian piano far nascere a loro volta nuove famiglie.
D’altronde, furono le condizioni territoriali a obbligare pian piano i contadini e gli allevatori ad adattarsi, collateralmente alle loro attività principali, a svolgere altri ruoli e altre incombenze, trasformandosi secondo necessità in minatori e cavatori, falegnami e muratori, taglialegna e fabbri, sellai e tessitori, in tempi più recenti perfino in contrabbandieri e guide alpine; e in particolare in “secchionari”, cioè costruttori di mastelli e secchielli per la raccolta e la lavorazione del latte e di forme per il burro, sfruttando il legname dei vicini boschi. Erano comunque attività che si rendevano utili alla comunità, e in breve un po’ tutti dovettero imparare a trasformarsi in abili tuttofare, svolgendo indipendentemente ogni compito necessario alla vita del villaggio, in ossequio alle regole imposte dalla sopravvivenza.
Nelle zone di valico e nei territori di transito dal Monte Rosa e dal Gottardo fino al Rheinwald e al Kleinwalsertal, i walser svolgevano un’ulteriore funzione, quella dei “somieri”, cioè dei trasportatori di persone e merci sfruttando i propri animali da soma, quando per valicare le Alpi non esistevano ancora strade, autostrade e tunnel, ma solo sentieri ricavati fra i boschi che loro soltanto conoscevano ed erano quindi in grado di percorrere.

Il piccolo paese di Bosco/Gurin, nel Canton Ticino.

Nel secolo scorso queste forme di economia furono messe da parte anche a causa della costruzione delle nuove strade, delle nuove modalità di trasporto merci e per l’interesse mostrato dalle prime forme di turismo; ma fu anche l’influsso della scolarizzazione di massa e l’arrivo dei media, oltre che i contatti con i vicini di lingua tedesca e italiana, a far perdere coesione ad alcune comunità, tanto che oggi quel mondo contadino e pastorale non esiste praticamente più, ampiamente soppiantato dalla modernità di mezzi e strumenti, e disperso l’emigrazione di gran parte delle nuove generazioni verso insediamenti diversi, più grandi e a economia industriale.
Oggi la situazione, un po’ ovunque, appare complicata dalla progressiva perdita dell’identità culturale e linguistica anche laddove alcuni giovani delle nuove generazioni walser sono rimasti nei luoghi di residenza tradizionale. Ma in molti casi hanno preferito allontanarsi dal territorio storico dei padri per motivi economici e lavorativi, facendo così venir meno in modo ancor più drastico il perpetuarsi delle più antiche tradizioni. Altri si sono trasformati in imprenditori soprattutto del settore turistico, sfruttando l’apertura del loro territorio ai nuovi venuti o agli amanti della montagna, dato che nel frattempo alcuni di questi insediamenti si sono trasformati in località di villeggiatura grazie anche all’apertura di impianti per gli sport invernali.

La questione linguistica e culturale

Sul piano prettamente linguistico, mentre in Italia è stato più forte l’attaccamento al patrimonio linguistico degli avi, data anche la difficoltà di contaminazione con le locali lingue neolatine, nel caso degli insediamenti in territori germanofoni l’antico idioma vallesano, comunemente chiamato titsch o töitschu o titzschu (quanto meno in Italia), ha finito con il subire pesanti contaminazioni dal bündnerdeutsch, dall’urnerdeutsch e da altri dialetti alemanni Ciò ha prodotto due fenomeni di ampia rilevanza; il primo è che, trattandosi di comunità abbastanza isolate ancora oggi, la lingua che aveva contraddistinto i walser delle origini è stata localmente contaminata da altre parlate alemanne finendo col disgregarsi in una serie di sotto-dialetti walser con una base comune e peculiarità locali; dall’altro ha generato nelle ultime generazioni una progressiva perdita dell’originaria identità linguistica sia a livello semantico sia fonetico per i maggiori contatti quotidiani con i coetanei nelle scuole, nelle università o semplicemente nei locali dove si ritrovano la sera, spesso nelle cittadine più grandi ed “emancipate” vicine ai borghi di residenza.
È capitato, anzi, che molti giovani, anche fra quelli che hanno deciso di rimanere nei loro paesi di nascita dopo gli studi, pur comprendendo il titsch o un altro dei dialetti walser ancora parlato dai più anziani della loro comunità, non lo parlino effettivamente nemmeno più fra loro, preferendo le forme dialettali alemanne più comuni dell’area in cui vivono (in Svizzera o in Austria) e si muovono abitualmente anche per intrattenere i loro normali rapporti sociali.
Invece in Italia, anche se a prima vista può apparire strano, la lingua e la cultura dei walser sono riuscite a conservarsi più facilmente che altrove, e questo nonostante l’ostracismo ufficiale dello Stato e delle autorità locali durato fino a metà ‘900. In particolare la lingua è sopravvissuta alla generale omologazione poiché del tutto diversa anche dalle parlate alto-piemontesi e valdostane (valsesiano, ossolano, patois, eccetera) delle popolazioni limitrofe, proprio grazie all’isolamento delle comunità locali, tutte vicine ai confini nazionali e tutte comunque lontane dalle grandi vie di comunicazione (molti dei centri walser non sono “località di passaggio”, ma località poste alla fine di strade del tutto secondarie).
Ma nonostante l’isolamento e il voluto radicamento alle tradizioni storiche, statisticamente la popolazione che in Italia afferma di appartenere alla cultura walser conta oggi appena diecimila persone, sebbene a un’analisi più attenta si scopra che non sono nemmeno la metà quelle in grado di utilizzare uno dei dialetti walser come propria lingua abituale. Anche le varianti fra le parlate locali, pur all’interno di aree geograficamente ristrette, hanno contribuito a rendere sempre più difficile la trasmissione inter-generazionale del parlato, mentre l’italiano obbligatorio nella scuola e nei media ha negli ultimi decenni marginalizzato l’espressività tradizionale anche in chi voleva preservarla.
Per quanto riguarda le comunità europee, se nel Liechtenstein il borgo di Triesenberg, con i suoi duemilaseicento abitanti, e quello vicino di Planken sono universalmente riconosciuti fra i maggiori insediamenti di cultura walser, in Svizzera i borghi considerati walser sono Goms, Binn, Lötschental, Zwischbergen e Sempione nel Cantone Vallese (che è l’area originaria da cui presero inizio le migrazioni), Obersaxen, Valsertal e Safiental, isole germanofone del Cantone dei Grigioni (regione caratterizzata dalla lingua romancia), dove altre piccole comunità di origine walser si trovano anche attorno a Davos, Albula, Rheinwald, Heinzeberg e Avers, e in piccola parte anche a Signina, Gemeinde Riein, Tenna, Valendas, Versam, Tschappina, Mutten, Schanfigg, Landwassertal superiore e Prättigau, oltre che nel minuscolo abitato di Bosco/Gurin (cinquanta abitanti) in Canton Ticino, e a Lauterbrunnen, Mürren e Planalp nel Cantone di Berna. Nel Vorarlberg austriaco, invece, i maggiori insediamenti walser sono quelli di Blons, Mittelberg, Brandnertal, St. Gerold, Sonntag, Thüringerberg, Brand in Vorarlberg, Schröcken, Lech am Arlberg e Warth. Infine in Francia esiste una comunità di antica origine walser a Vallorcine, nel dipartimento dell’Alta Savoia, anche se la parlata walser qui è scomparsa del tutto ormai da oltre un secolo.

La valle di Lötschental, nel Vallese.

I Comuni italiani che attualmente possono essere considerati walser, a causa della presenza di una popolazione ancora in toto o in maggioranza di lingua e tradizioni walser, come già accennavamo, si trovano tutti in alcune aree ben precise attorno al Monte Rosa. In Valle d’Aosta sono Issime (Éischeme nella lingua locale), Gressoney-Saint-Jean (Greschòney Zer Chilchu) e Gressoney-La-Trinité (Greschòney Drifaltigkeit), tutti nella Valle del Lys. In Piemonte sono Alagna Valsesia (Im Land), con la frazione di Riva Valdobbia (Riifu), e Rimella (Remmalju), in Valsesia; Carcoforo (Kirchof) e le frazioni di Rima San Giuseppe (Ind Rimmu) e di Rimasco (Rimask) del Comune di Alto Sermenza, in Val Sermenza; Macuganana (Z’Makanà), alla confluenza fra Valsesia e Val Sermenza; Baceno (Im Bätsche) e Formazza (Pomatt), in Val Formazza; Valstrona (Valstron), nell’omonima valle; e Ornavasso (Urnafasch), che è anche l’unico fra tutti questi Comuni a superare i tremila residenti, nella Val Toce, dove però la lingua walser è ormai divenuta del tutto minoritaria, essendo di fatto rinata quasi artificialmente dopo essersi quasi estinta da tempo anche fra gli anziani, amalgamandosi in un particolare dialetto di tipo lombardo-valsesiano con una fonetica completamente diversa da quella dei paesi circostanti e con alcuni germanismi nel lessico.
Nel medesimo territorio, regno incontrastato di camosci e stambecchi, si trova un altro gruppo dei Comuni che erano definibili walser solo fino a un certo momento storico: si tratta di borghi nei quali gli antichi insediamenti si sono ormai di fatto estinti o nei quali i walser alla fine si sono di fatto mescolati alle popolazioni alpine perdendo del tutto non solo la lingua ma anche la cultura delle loro origini. In Piemonte ciò è accaduto, per esempio, a Salecchio già verso la fine degli anni ’60 del secolo scorso, e a Campello Monti, in Valsesia, mentre il borgo di Agaro, dove viveva un’altra comunità walser, è stato sommerso da un lago artificiale nel 1929 e la sua popolazione si è sparpagliata tutt’attorno. Lo stesso è accaduto in Valle d’Aosta a Niel, frazione di Gaby fra Issime e Gressoney nella Valle del Lys, un piccolo villaggio che è stato addirittura ripopolato da famiglie di lingua italiana o franco-provenzale (talora non residenti tutto l’anno ma che vi si trasferiscono in determinati periodi per aver acquistato o costruito case di vacanza) a scapito della piccola comunità walser originaria. Lo stesso vale per alcuni borghetti della Val d’Ayas, fra il Cervino e il Rosa, zona un tempo nota come “Canton des Allemands”, dove sono certamente d’origine walser (anche se la lingua è da tempo scomparsa) il “Comune sparso” di Ayas, con le frazioni di Champoluc e in particolare di Mascognaz, e solo in misura marginale con quelle di Frantse, Cunéaz, Saint-Jacques, Blanchard, Pilaz, Antagnod, Lignod, Péio e Mandriou, oltre che i borghetti di Extrepiéraz, Pasquier e Graines, nel Comune di Brusson, quello di Isollaz nel Comune di Challand-Saint-Victore, e Champdepraz.
La situazione attuale si spiega anche alla luce di una chiara inculturazione di fatto che vide i walser di questi piccoli paesi (talvolta formati da poche decine di abitazioni e fattorie sparse) costretti ad abbandonare sempre di più la propria lingua, non solo perché considerata poco prestigiosa e importante, o comunque incomprensibile al di fuori delle loro comunità, in favore di un bilinguismo strisciante, quanto meno per i contatti ufficiali. In generale, si diffuse perfino il concetto che la lingua walser potesse essere qui considerata la “lingua delle donne“, che rimanevano ad accudire casa, figli o animali, mentre gli uomini, che spesso si spostavano dal paese per i commerci, la compravendita di bestiame o per lavoro in altri Comuni, non potevano che adottare la lingua o il dialetto parlato dalle comunità circostanti.
Per questo, in alcuni casi furono proprio le donne rimaste in paese a diventare la memoria storica delle comunità walser, conservando prima di tutto la lingua natia e il nugolo di antiche tradizioni a essa legate a filo doppio. Le autorità locali, lo Stato sabaudo e perfino le diocesi da cui dipendevano le chiese parrocchiali locali provvidero, a loro volta, a una sorta di “romanizzazione” di queste comunità, perseguita in modo ancor più massiccio nel periodo del fascismo.
Non deve meravigliare se una parte rilevante di responsabilità di questa dispersione culturale e linguistica l’ebbe proprio la Chiesa, allorché inviò in molti paesi dove ancora si parlava la lingua walser sacerdoti che non parlavano o conoscevano affatto quella lingua. Gli stessi walser – anche le donne che fino a quel momento avevano conservato l’uso abituale della lingua delle origini senza subire particolari contaminazioni – si trovarono così costretti a imparare per necessità l’italiano perdendo in molti casi definitivamente l’uso del dialetto della zona, pur di comprendere le orazioni e le prediche nel corso delle messe, essendo religiosissimi; per poi scegliere di passare definitivamente anche loro all’italiano (o quanto meno al lombardo o al piemontese), o al francese o al francoprovenzale parlati in Valle d’Aosta, per non apparire solo dei montanari ignoranti. L’emigrazione delle nuove generazioni verso città più grandi per motivi di studio e lavoro, a cui abbiamo già fatto cenno, ha fatto il resto, portando allo spopolamento delle antiche valli e all’abbandono dei microvillaggi in favore dei grandi centri industriali (nel caso italiano, del Piemonte e della Lombardia) e verso le più accoglienti aree di pianura e collina. Il che spiega chiaramente il costante calo demografico dei paesi ancora definibili oasi linguistiche walser.
La sola cosa che ha continuato a unire tutte queste comunità disseminate lungo l’intero arco alpino (o ciò che restava di loro anche dopo la perdita dell’uso abituale della lingua walser, pur nelle sue locali declinazioni) è stato quindi l’incontro, che ha luogo ogni tre anni in una sempre diversa “colonia”, fra tutti coloro che si ritengono i discendenti degli antichi vallesani, uniti dal loro comune simbolo, che comunque non è una vera bandiera. La prima di queste iniziative ebbe luogo nel 1962 e fu organizzata come un semplice congresso di studiosi ad Alagna e Rimella, ma con il passare degli anni la manifestazione si è via via arricchita di iniziative collaterali.
Oggi questi “incontri” fra i walser sparsi in tutta l’Europa, denominati Walsertreffen, prevedono giornate di studi ma anche feste popolari, sfilate in costumi tipici e tanto altro: gli ultimi si sono svolti a Lötschental, in Svizzera, nel settembre 2019, e poi a Ornavasso fra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 2022.
Ma esiste anche un progetto, approvato e in parte finanziato dall’Unione Europea, che coinvolge praticamente tutte le regioni dove hanno sede le comunità walser. Il progetto, che prende il nome di “Interreg III-B – Alpi Walser”, ha l’obiettivo di far emergere, attraverso attività condivise dai diversi partner, gli aspetti di modernità e tradizione degli insediamenti walser nei vari Stati in cui essi sono presenti (anche nel territorio della Confederazione Elvetica che non fa parte dell’Unione). L’idea nasce dalla volontà di salvaguardare e valorizzare un patrimonio linguistico, culturale, architettonico e di usanze tramandate da più di sette secoli. Oltre al rafforzamento delle identità locali attraverso il mantenimento del titsch e di ogni altra variante linguistica walser, della toponimia bilinguistica e delle usanze sociali, tra le attività previste vi è quella di creare una banca dati comune del patrimonio culturale walser, una sorta di grande museo virtuale della loro cultura immateriale.

Strumenti in legno per la lavorazione dei formaggi.

Esiste anche un progetto varato nel 2021, promosso dall’Associazione Internazionale Walser, volto a porre sotto la tutela conservativa la cultura delle varie comunità sparse in Europa con la relativa candidatura a Patrimonio dell’Umanità presentata all’unesco. L’iniziativa ha riconosciuto nella Valsesia piemontese il punto di partenza di questo progetto che coinvolge anche le altre tre nazioni, oltre l’Italia, che sono rimaste custodi del patrimonio dell’antica popolazione alemanna: l’Austria, la Svizzera (alla quale si appoggia il piccolissimo Principato del Liechtenstein) e, seppur in modo del tutto marginale, la Francia.
Per conservare e far conoscere la cultura dei walser sono stati avviati anche progetti di rivalutazione del paesaggio e dei territori in cui le varie comunità sono insediate. Ne sono un esempio alcuni percorsi e sentieri realizzati attraverso i pittoreschi villaggi delle varie comunità, anche fra uno Stato e l’altro: il più noto è il cosiddetto “grande sentiero dei walser” (Die Walser Wege), che offre la possibilità di effettuare una lunga escursione fra alcuni dei più suggestivi luoghi alpini; è suddiviso in trentaquattro tappe, da percorrere a piedi sfruttando proprio i percorsi di alta quota degli antichi vallesani – di cui undici toccano le valli alpine piemontesi – che partono da Zermatt, nel Vallese e si concludono a Mittelberg in Austria.

Die Walser Wege, sentieristica.

È grazie anche a questo itinerario culturale che l’Associazione Walser ha lavorato per candidare la cultura dei walser nel novero del Patrimonio unesco, mettendo al centro proprio l’idea di ritracciare questa viabilità multinazionale, che è poi quella effettivamente percorsa dal popolo di migranti nella sua storia.
Se, come spiega uno dei promotori, Luigi Zanzi, “l’immagine paesaggistica è stata fondamentale per costituire il quadro di sfondo per il riconoscimento dei caratteri antropologici che possono tornare distintivi dei walser”, 6) la candidatura nasce proprio dalla volontà di non ridurre questo patrimonio a mere coordinate geografiche, ma di estendere a più campi possibili (e comunicare tramite mezzi innovativi) questi preziosi e unici saperi, comprendendone anche gli aspetti più immateriali, quali la lingua, le espressioni orali, le pratiche sociali, i riti e le feste, le conoscenze e le pratiche riguardanti la natura e il lavoro a suo stretto contatto, la costruzione degli edifici e le forme dell’artigianato.

Prospettive di sopravvivenza

Ma quali sono le prospettive di sopravvivenza a lungo termine, nel mondo globalizzato che tende sempre più a sopraffare le identità locali, per questo insieme di micro-comunità del mondo alpino? Come ha analizzato Roberta Clara Zanini in un suo recente studio,

la predominanza della memoria walser è esito non solamente di orientamenti e scelte intracomunitari, ma anche e forse soprattutto di una tendenza, molto forte a partire dagli anni ‘70 del Novecento, che intendeva valorizzare le culture minoritarie delle Alpi. Nel secondo dopoguerra, infatti, sono stati fatti molti sforzi per sostenere la conoscenza e l’autoconsapevolezza delle comunità walser delle Alpi, per mantenerne lingua e cultura e per promuoverne la visibilità al mondo esterno della componente walser; tuttavia, si rileva una complessità di posizioni e di interpretazioni del ruolo della storia e della cultura walser nell’economia stessa della comunità. 7)

Una comunità che fa riferimento alla montagna alpina in generale, e al monte Rosa in particolare in Italia; facendo sì che l’intera mondo walser si riconosca oltre che nella storia e nelle tradizioni del suo passato, nella tradizione alpinistica del presente e in tutto quanto ne sostiene direttamente o collateralmente la promozione, a partire dal turismo.
L’afflusso turistico sempre più massiccio degli ultimi anni e la costruzione di strutture di ospitalità, spesso trasformando le antiche case in piccole strutture ricettive o costruendo moderni complessi nei luoghi più belli del territorio al posto dei prati che per secoli avevano contraddistinto il paesaggio delle antiche comunità, ha snaturato di fatto la natura stessa, schiva e pauperistica, di molte comunità walser. E se anche non è successo in Italia ciò che invece in Svizzera e in Austria è diventata la più “normale” delle evoluzioni (con paesi che non hanno conservato praticamente nulla del paesaggio antropico rurale del passato), le recenti trasformazioni e il nuovo sviluppo economico sono stati vissuti all’interno delle stesse comunità come fattore prevaricante nei confronti di chi invece si considerava portatore della memoria secolare, con difficoltà via via crescenti per coloro che continuano a sostenere l’importanza di valorizzare le storie e le narrazioni del passato anche a costo di rinunziare ai benefici di un’economia rinnovata che però, in molti casi, lascia i suoi frutti nelle mani di persone che non c’entrano niente con i walser (imprenditori piemontesi, lombardi, gruppi alberghieri internazionali, società turistiche a capitale misto, eccetera).
Eppure, la forza delle comunità walser in alcuni casi è riuscita laddove forze esterne provavano a eradicarne la storia e la memoria; vi è riuscita sicuramente con fatica, vista la piccolezza dei numeri, la disgregazione territoriale dei vari gruppi e l’aggressività (in qualunque insediamento) del mondo globalizzato. Ma la consapevolezza di essere gli eredi di un mondo antico, in pericolo di estinzione, ha sicuramente dato una mano a caratterizzare la reazione conservativa proprio nel momento in cui tutto sembrava irrimediabilmente perduto, magari a causa di quel turismo che finalmente dava respiro all’economia di questi piccoli borghi alpini da sempre ancorata alla modesta sussistenza.
Inoltre è avvenuto un altro recente fenomeno, il “neo-popolamento”, sia di neo-residenti sia di turisti facoltosi che hanno deciso di acquistare e ristrutturare antichi casolari che sarebbero forse andati perduti; ma questi nuovi arrivati, sicuramente non walser per origini e cultura (e ovviamente per lingua), non solo hanno consentito di lasciare intatte le tradizioni, ma addirittura si sono fatti promotori di istanze e strumenti volti a valorizzarle in modo moderno e magari più sofisticato: al riguardo c’è chi ha notato addirittura che “non di rado una continuità culturale è stata resa possibile anche dalla discontinuità demografica rappresentata dall’arrivo di ‘neo-montanari’, spesso assai più attivi dei locali nel promuovere la valorizzazione di un patrimonio culturale”. 8)
Se la società walser per secoli si è fondata sul mutuo soccorso e sul reciproco senso di solidarietà, il benessere diffusosi anche fra le Alpi negli ultimi decenni del ‘900 e i nuovi venuti hanno portato a un minor bisogno di quel modello di economia sociale che era stato il fondamento dei sistemi sociali ai quali per secoli i walser avevano affidato la propria identità e diversità rispetto alle altre popolazioni vicine, con una conseguente e progressiva chiusura nell’individualismo da parte di molti di loro.
D’altronde, oggi non è più necessario che un certo numero di persone debba convivere in uno spazio fisicamente comune e in stretti rapporti per interagire contemporaneamente, anche per periodi ripetuti e prolungati. Quello spazio, grazie a internet e ai social ampiamente utilizzati dalle nuove generazioni, è diventato in realtà uno spazio mentale che magari non permette di condividere l’esperienza in senso pieno, venendo meno la fisicità e tutto il corredo di emozioni e codici fondati sul linguaggio del corpo. Ma anche se l’interlocutore si è smaterializzato, è diventato virtuale, e anche se sono saltati i confini che determinavano territori, culture e società, e la globalizzazione ha prodotto una frattura tra il luogo di produzione di una cultura e quello o quelli della sua fruizione, insomma se lo spazio fisico non è più un elemento essenziale per condividere esperienze o per identificarsi in un gruppo, allora l’accento si è spostato davvero sulle relazioni. 9) E in questo la costituzione di una rete dei territori affidata a “sportelli walser” (quanto meno in Italia) 10) o a portali web 11) ha sopperito sicuramente al sempre più cedevole status di isolamento territoriale fisico che ha protetto le comunità walser dalle contaminazioni del mondo esterno, diventando strumento della memoria condivisa: è sempre Marco Aime, d’altronde, a ricordarci che “ogni comunità o società fonda una propria geografia culturale basata sulla memoria”. 12)
Forse potrebbe anche accadere, in particolare nell’area walser italiana (dove palesemente gli elementi storici sopravvissuti alla disgregazione della modernità appaiono ancora evidenti più che altrove), che questa memoria condivisa possa continuare a trarre linfa vitale proprio dai nuovi strumenti tecnologici e dal ripopolamento attuato da alcuni di questi nuovi abitatori dei piccoli centri nati con la diaspora dei vallesani, montanari per scelta e non per nascita, ma con un attivismo e uno spirito di innovazione capace anche di accedere con maggiore perizia alle risorse e alle opportunità create dalle disposizioni della legge 482/1999, promulgata a tutela le minoranze linguistiche storiche. Forse, come afferma la Zanini, 13) tutto questo può essere lo scotto da pagare affinché le lingue e le culture locali, come quelle dei walser, non muoiano o non rimangano a sopravvivere solamente come elementi nostalgici di un passato idealizzato all’interno delle strutture museografiche o bibliografiche, laddove esistenti… e sempre che poi siano regolarmente aperte e funzionanti.
In ogni caso la memoria della cultura walser rimane più che mai viva e vitale se si pensa al ruolo da sempre avuto dalle loro comunità nel preservare l’ambiente alpino e nel salvare quanto ancora rimane della “civiltà di montagna”. Ma non parliamo solo del passato, dato che questo vale oggi non meno di ieri:

Le Alpi si prestano eminentemente al ruolo di “sentinelle” dei cambiamenti climatici e ambientali, e non è casuale che si siano trovate spesso a diventare arena politica in cui si dibattono, acquistando particolare visibilità anche per ragioni simboliche, questioni che direttamente o indirettamente hanno a che fare con la tutela o i diritti stessi dell’ambiente e della natura. 14)

Pertanto, la salvaguardia delle biodiversità e il recupero della storica cultura dell’alpeggio rimangono ancora un elemento fondamentale del complessivo assetto naturalistico e antropologico del mondo alpino, soprattutto se facciamo riferimento a un contesto europeo che tante parole spende, spesso retoricamente, in nome di non sempre facilmente attuabili politiche “green”.
I walser hanno sempre saputo curare con la loro atavica cultura del territorio le fonti d’acqua e ogni forma vegetale e animale del loro ambiente, mantenendo l’equilibrio di foreste, pascoli e campi coltivati, combattendo di generazione in generazione ogni interferenza che potesse violare la naturale biodiversità delle loro terre, o le violente forze della natura che a così alte quote spesso sembravano interferire con tutto ciò che essi operavano e gestivano.
Questa è stata un’attività tradizionale dei walser per secoli, e forse dovremmo prendere esempio da loro prima di pensare a politiche ambientali inattuabili o poco incisive in concreto. Loro, i walser, lo hanno fatto bene da sempre perfino in quel loro ambiente di frontiera: e dunque nell’àmbito delle politiche ambientaliste – come ha scritto anche Luigi Zanzi – “chi lo può fare meglio di chi l’ha sempre fatto?”. 15)
Un altro elemento di fondamentale importanza per capire il futuro dei walser, strettamente connesso con i delicati equilibri dell’arco alpino, è avere ben chiaro il rapporto fra abitanti umani e non umani delle montagne: un altro argomento caro agli ambientalisti che si è accesso intorno alla presenza in questi territori, anche di recente, soprattutto dei grandi predatori come il lupo e l’orso, considerato più o meno legittimo e accettabile a seconda dei punti di vista.

Se a livello teorico ed epistemologico l’antropologia si sta muovendo verso una cornice interpretativa all’interno della quale l’essere umano è inestricabilmente entangled con altri attori non umani, l’indagine etnografica non cessa di far emergere emicamente una molteplicità di situazioni e rappresentazioni in cui il rapporto e soprattutto la convivenza fra uomo e animale si mostrano in tutta la loro complessità e, non di rado, difficoltà. Ci conferma così che le Alpi sono diventate luogo di inedite negoziazioni, che mettono a nudo posizioni anche assai diverse, quando non inconciliabili, all’interno delle comunità alpine e, forse in misura ancor maggiore, tra chi in montagna vive e chi invece guarda o pensa alle montagne da lontano. È su quest’ultimo snodo che si articola anche il dibattito intorno al cambiamento climatico. 16)

Infine, un’ultima annotazione: come ha sottolineato sempre la Zanini, sicuramente una studiosa molto attenta delle varie comunità alpine nel loro complesso, i territori montani con i loro vuoti demografici e sociali e con le loro fragilità strutturali costituiscono un banco di prova stimolante per ragionare su categorie classiche del pensiero antropologico, come il concetto di comunità e le sue sfumature più strettamente territoriali, consentendo di muovere un passo verso una lettura antropologica anche delle politiche socio-assistenziali e di welfare che agiscono sui e nei territori montani e pedemontani: 17) basti pensare a ciò che è accaduto in relazione alla recente pandemia di Covid-19, nel corso della quale i borghi dispersi e spopolati come quelli delle comunità walser sono stati vissuti (o sognati) come scenari in cui immaginare un nuovo modo di abitare, oltre che un vivere in armonia con l’ambiente, dove cercare accoglienza lontano dalla “tossicità” delle città.
Grazie anche a questa vicina e triste esperienza che abbiamo un po’ tutti vissuto, le Alpi e le comunità walser in primo luogo possono tornare a rappresentare un laboratorio prezioso per analizzare le relazioni fra ambiente e forme sociali, o forse per prenderle davvero a modello anche per chi vive lontano, magari in una metropoli in cui non ci si conosce nemmeno fra condòmini di uno stesso palazzo.
Quanto alle Alpi e a tutti gli habitat che, come le Alpi, vivono in un equilibrio delicato e del tutto precario, ci sarebbe quasi bisogno di tanti nuovi walser, cioè di persone che sappiano vivere proteggendo i propri ambienti investendo energie e risorse personali come hanno fatto per secoli i walser, che hanno trovato un modello per approcciarsi al tempo stesso in modo innovativo e creativo ma anche rispettoso alla montagna, mantenendone tutte le specificità senza per questo snaturarla.

N O T E

1) Die Südwalser im XX Jahrhundert – Transformation, assimilation und affermation der Walser im Aostatal, im Piemont, im Tessin und im Wallis, Monaco di Baviera 2002.
2) Mauro Mazza, Itinerari di ricerca sugli assetti fondiari collettivi: dal micro-caso dei walser alla macro-prospettiva della comparazione giuridica interculturale, da Il riconoscimento dei diritti storici negli ordinamenti costituzionali (a cura di Matteo Cosulich e Giancarlo Rolla), Atti del Convegno su “Diritto e comparazione giuridica” dell’Università di Trento, gennaio 2014.
3) Enrico Rizzi, Storia dei Walser, Anzola d’Ossola 2003. Rizzi è stato un appassionato e instancabile studioso di questo popolo, tanto da meritare l’appellativo di “storico dei walser”.
4) Enrico Rizzi, op. cit.
5) Walser, in “Dizionario storico della Svizzera” (DSS), Basilea 2002.
6) Introduzione al volume di Teresio Valsesi e Franco Restelli Walser: il fascino, il mistero, Varese 1999.
7) A passo di walser, Alagna Valsesia 2021. Ma cfr. anche, di Valentina Porcellana e Federica Dièmoz, Minoranze in mutamento. Etnicità, lingue e processi demografici nelle valli alpine italiane, Alessandria 2014.
8) Pier Paolo Viazzo, Roberta Clara Zanini, Approfittare del vuoto? Prospettive antropologiche su neo-popolamento e spazi di creatività culturale in area alpina, da “Journal of Alpine Research – Revue de géographie alpine”, n. 102.
9) Marco Aime, Comunità, Bologna 2019.
10) L’Italia, infatti, è l’unico Paese all’interno del quale i vari Comuni che si riconoscono nelle antiche tradizioni del popolo walser hanno creato una rete di “Sportelli walser”, con uno scopo molto più complesso rispetto a quello di tante “pro-loco”: fra gli obiettivi di questi sportelli, legati alle amministrazioni locali ma spesso gestiti in un clima e con una logica di serena e attiva volontarietà, vi è quello di offrire sia ai residenti sia agli studiosi e ai turisti più curiosi consulenza storica, bibliografica, documentaristica, toponomastica sui beni demo-etnoantropologici legati alla cultura locale, sulla lingua o su altre espressioni socio-culturali; fra l’altro, in coordinamento con scuole, associazioni culturali, Club Alpino e altri soggetti, alcuni di questi sportelli curano non solo visite guidate dei vari centri ma anche la didattica dei dialetti walser locali nelle scuole e perfino in corsi per adulti, aperti anche a non residenti. Insomma promuovono il concreto perpetuarsi della cultura e della storia walser con ogni mezzo, anche attraverso l’organizzazione di convegni e manifestazioni di vario genere capaci di “esportare” all’esterno le istanze di cui si fanno lodevoli promotori. Fra grandi (e più organizzati) e piccoli, questi sportelli si trovano a:

  • Alagna Valsesia (VC): Piazza degli Alberghi, 20 (c/o Municipio) – Tel. 0163.922944 – E-Mail alagna@walser.it
  • Baceno (VB): Via Roma n.56 – Tel. 0324.62018 – E-Mail: baceno@walser.it
  • Carcoforo (VC): Via Centro – Tel. 0163.954257 – E-Mail carcoforo@walser.it
  • Formazza (VB): Frazione Chiesa n.25 (c/o Walserverein-Pomatt) – Tel. 0324.634346 – E-Mail formazza@walser.it e walserverein-pomatt@libero.it
  • Gressoney-La-Trinité (AO): Località Tache n.14/A – Tel. 0125 366137 – E-Mail elisabeth.piok@alice.it
  • Gressoney-Saint-Jean (AO): Strada Regionale 44 – Tel. 0125.356248 – E-Mail walserkultur@gmail.com
  • Issime (AO): Località Capoluogo n.11 – Tel. 0125.344065 – E-Mail barbara.ronco@comune.issime.vda.it
  • Macugnaga (VB): Centro Abitato Borca n.263 (c/o Alts Walserhüüs Van Zer Burfuggu) – Tel. 338.3664184 – E-Mail macugnaga@walser.it e sportello.walser@libero.it
  • Ornavasso (VB): via A. Di Dio (c/o Biblioteca Comunale) – Tel. 0323.837242 – E-Mail ornavasso@walser.it
  • Premia (VB): Piazza Municipio n.9 – Tel. 0324.62021 – E-Mail premia@walser.it
  • Rima San Giuseppe (VC): Piazza della Chiesa – Tel. 0163.954257 – E-Mail rima@walser.it
  • Rimasco (VC): Via Centro – Tel. 340.9005418 – E-Mail rimasco@walser.it
  • Rimella (VC): Frazione Chiesa – Tel. 0163.55203 – E-Mail rimella@walser.it
  • Riva Valdobbia (VC): Piazza IV Novembre n.7 – Tel. 0163.91022 – E-Mail rivavaldobbia@walser.it
  • Valstrona (VB): Via Roma n.54 – Tel. 0323.87117 – E-Mail valstrona@walser.it

11) Fra i più importanti, ancora una volta ben cinque di questi portali sono italiani:

  • www.walservda.org/ – è legato ai Comuni valdostani di cultura walser;
  • www.cm-walser.vda.it/it-it/walser – è un altro portale dedicato ai Comuni valdostani creato dall’Unité des Communes Valdôtaines Walser;
  • www.walser.it/ – è legato ai Comuni piemontesi di cultura walser;
  • www.centroculturalewalser.com/ – è curato dal citato Walser Kulturzentrum, il centro studi e cultura walser della Valle d’Aosta di Gressoney-Saint-Jean;
  • www.walser-cultura.it/ – è un’autentica banca dati sulla cultura walser nata nell’ambito del citato progetto Interreg III-B Walser Alps dell’Unione Europea;
  • www.walser-alps.eu/ – si tratta di un altro portale interstatale nato sempre nell’ambito del progetto Interreg III-B Walser Alps dell’Unione Europea, ed è curato dalla citata Associazione Walser del Voralberg.

12) Ibidem.
13) Op. cit.
14) Roberta Clara Zanini, Pier Palo Viazzo, Le Alpi italiane – Bilancio antropologico di un ventennio di mutamenti, da “Etnoantropologia”, n. 8, 2020.
15) Op. cit.
16) Pier Palo Viazzo, Roberta Clara Zanini, op. cit.
17) Comunità a geometria variabile. Un percorso tra antropologia alpina e dei servizi, da Senso e prospettive del lavoro di comunità, a cura di Francesco Zamengo, Milano 2019.

L’articolo è tratto dal volume I walser, un popolo disperso fra le Alpi, dello stesso autore, pubblicato dalle edizioni Fotograf – ISBN 978-88-97988-66-3 (per info: www.mauriziokarra.it)