Nulla salus bello: pacem te poscimus omnes” (non c’è salvezza nella guerra: o pace, tutti ti invochiamo). Così scriveva il sommo poeta Publio Virgilio Marone nell’XI libro dell’Eneide, sottolineando l’assoluta assurdità della guerra che non porta, quasi mai, benefici e vantaggi, ma solamente atrocità e sofferenza. L’insensatezza del ricorso alle armi, evocata più di 2000 anni fa dall’autore delle Bucoliche e delle Georgiche, è stata una costante in tutti i secoli a venire ma, nonostante questa consapevolezza diffusa, l’uomo non è riuscito a farne a meno per scopi di espansionismo e conquista territoriale oltre che per mire egemoniche politico-economiche.
Se alcune brutalità sembravano sepolte con il termine della seconda guerra mondiale e la caduta del nazi-fascismo, con gli orrori di cui i loro leader si sono resi responsabili, Olocausto su tutti, la realtà è stata ben diversa. La corsa agli armamenti e la minaccia dell’utilizzo, ancora una volta, del nucleare durante la guerra fredda hanno reso tutti consapevoli che l’essere umano non aveva imparato dai propri errori.
Nel frattempo diversi Stati del sud del mondo riuscivano a liberarsi dal pesante gioco coloniale, ma pagando pesantemente in termine di sangue la loro indipendenza. E, come se non fossero bastati gli stermini e i genocidi di massa dei “conqusitadores” europei in giro per il mondo durante il colonialismo, proprio le problematiche da loro create nei territori d’oltremare hanno continuato a ripercuotersi sui più deboli. Spesso infatti la delineazione arbitraria dei confini, attuata esclusivamente per interessi economico-territoriali da parte delle grandi potenze europee, ha separato popoli, diviso tribù, lacerato famiglie ed etnie che si sono trovate divise su più “Stati”, divenendo minoranze in molti di essi. Ciò ha ulteriormente alimentato conflitti e guerre intestine rivelatesi assai sanguinose e tragiche.
Se, ancora una volta, si era sperato che fossero terminate le guerre con il crollo dell’urss e del sistema comunista, la triste realtà ha rivelato altro: basti pensare alla polveriera balcanica negli anni Novanta. Tuttavia, nonostante i conflitti non siano purtroppo mai cessati, il mondo si è svegliato sotto shock la mattina del 24 febbraio 2022 quando la Russia di Putin, dopo aver ufficialmente riconosciuto le Repubbliche del Donbass, ha iniziato l’invasione dell’Ucraina, scatenando nell’opinione pubblica occidentale echi sinistri simil 1938, ma soprattutto rinsaldando la definitiva consapevolezza che ancora oggi, negli anni ‘20 del Duemila, il ricorso alle armi non è una pratica cessata.
L’esempio più eclatante di conflitti mai sopiti è sicuramente la secolare e oltremodo delicata questione arabo-israeliana, che per tutta la seconda metà del XX secolo e i primi lustri del XXI è rimasta viva a causa di vere e proprie guerre militari prima e sollevazioni popolari poi, ma in seguito anche con occupazioni forzate e attentati mirati che hanno portato sofferenza e morte per entrambi i popoli coinvolti.

Regione fisico-geografica della Palestina.

Tempi biblici…

Il conflitto israelo-palestinese è tornato al centro della cronaca, nelle prime pagine dei nostri giornali e nelle prime notizie dei telegiornali il 7 ottobre 2023 quando Hamas ha attaccato Israele, lanciando centinaia di razzi dalla Striscia di Gaza, in Palestina, verso il sud e l’est di Israele. Ma prima di vedere nel dettaglio chi sia Hamas e cosa sia la tristemente nota Striscia di Gaza, con un flashback lungo migliaia di anni torniamo alle origini di questa area geografica.
Come suggerisce il brillante canale di divulgazione scientifica GeoPop in un preciso video dedicato all’argomento, la questione israelo-palestinese appare una matassa realmente difficile da districare. Gli autori hanno infatti utilizzato la metafora del gomitolo impossibile da srotolare per rendere l’idea della reale complessità del conflitto. Si tratta sicuramente di una metafora azzeccata: le cose stanno veramente così, e non si tratta di una scusa per evitare di schierarsi e di prendere una posizione netta.

Diaspora ebraica.

Proviamo a risalire alle radici storiche di questi eventi. La questione ha il nocciolo nel semplice fatto che due popoli rivendicano il possesso del medesimo territorio: gli ebrei israeliani ritengono di avere il diritto di controllare la Palestina in quanto luogo di nascita del popolo ebraico. Gli arabi palestinesi sostengono invece di abitare lì da tempo prima rispetto agli ebrei e che da essi ne stanno venendo cacciati con la forza da più di mezzo secolo.
La cosa bizzarra – se si pensa a quanto sta accadendo dalla metà del XX secolo e, in particolare, negli ultimi mesi – è che questi due popoli hanno in teoria un’origine comune che viene fatta risalire ai racconti biblici. Ebrei e arabi infatti sono popoli semitici, ovvero sarebbero i discendenti di Sam, uno dei tre figli di Noè, e si sarebbero divisi solamente più tardi nelle generazioni successive. Gli arabi avrebbero avuto origine nello specifico da Ismaele figlio di Abramo, mentre gli israeliti da un altro figlio di Abramo, Isacco e, in particolare, dal figlio di lui Giacobbe, soprannominato proprio Israele.
Ovviamente questi sono racconti biblici legati alla fede, tuttavia ci danno una prima idea dell’intricato groviglio, non facile da sbrogliare. Inoltre in Palestina sono presenti fin dall’antichità parecchie etnie e tribù dalle più disparate origini; in seguito il territorio è stato teatro di consistenti flussi immigratori, e nel contempo si sono pure succedute numerose dominazioni differenti. Di conseguenza è praticamente impossibile determinare con assoluta certezza quale popolazione abbia abitato per prima la regione.

Impero arabo al suo apogeo.

Terra desertica

La Palestina è una regione geografica di circa 28mila kmq, come l’insieme di Piemonte e Valle d’Aosta, ed è affacciata sul Mar Mediterraneo a ovest, confina a nord con il Libano, il cui limite è grossomodo segnato dal fiume Leonte (denominato Litani dalla stampa internazionale), a nord-est con la Siria, a est con la Giordania e a sud-ovest con l’Egitto. Il territorio è per la maggior parte desertico (circa il 60%). Il fiume Giordano, che segna il confine orientale, è la risorsa idrica principale insieme al lago di Tiberiade, situato 200 metri sollo il livello del mare e chiamato anche Mar di Galilea, e al Mar Morto situato 430 metri sotto al livello del mare, chiamato anche Mar Salato per l’elevato tasso di salinità. A sud si trova il Golfo di Aqaba.
Fin dai tempi antichi il fattore climatico spinse le popolazioni a concentrarsi nelle aree collinari più fertili della Giudea, della Samaria, della Galilea e nella Striscia tra Haifa e il Giordano. La regione è stata protagonista in epoca storica di numerose migrazioni e dominazioni diverse che hanno notevolmente complicato una facile identificazione dell’area con un unico popolo.
La popolazione ebraica era un gruppo di pastori nomadi organizzato in tribù che si spostava frequentemente. Secondo la tradizione biblica, intorno al 1800 a.C. aveva raggiunto la costa mediterranea della Siria per stabilirsi nella terra di Canaan, la terra promessagli da Dio, che duemila anni dopo sarebbe stata chiamata Palestina dai Romani.
Una prima diaspora si ebbe con la conquista dei babilonesi chiamata anche “cattività babilonese”, mentre quella conosciuta come “la grande diaspora” iniziò sotto la dominazione romana con gli ebrei che si dispersero tra Africa settentrionale ed Europa (e solo successivamente in America, in particolare negli Stati Uniti).
Dal 1517 la Palestina divenne parte dell’Impero Ottomano la cui religione musulmana era la stessa dell’etnia da secoli predominante nell’area, ovvero quella araba, in seguito alle conquiste dell’impero arabo che dalle città della Mecca e di Medina in Arabia Saudita, cuore della nascita della religione islamica, si era espanso a partire dal VII secolo d.C. giungendo a conquistare il Nordafrica, l’intero Medioriente e parte dell’Asia centrale fino all’India, islamizzando quasi interamente le popolazioni stanziate nelle zone conquistate, e di conseguenza anche quelle che abitavano da tempo la Palestina.
Arriviamo così al 1881, quando la popolazione complessiva della Palestina era di circa 450mila persone di cui oltre il 90% di etnia arabo-musulmana. La popolazione ebraica era notevolmente minoritaria, ammontando al massimo a 20mila persone, per lo più ebrei aschenaziti di origine europea ed ebrei sefarditi di estrazione mista spagnola, nordafricana e mediorientale. C’era una piccola comunità rimasta in Palestina sin dai tempi della diaspora babilonese, concentrata nelle quattro città sacre della tradizione ebraica: Gerusalemme, Hebron, Tzfat e Tiberiade.

Impero ottomano al suo apogeo.

Le popolazioni ebraiche sparse per l’Europa e il Medioriente erano viste come cittadini di seconda categoria: l’antisemitismo infatti esisteva già e si traduceva in discriminazioni, ghettizzazioni, violenze e addirittura pogrom, soprattutto nel territorio dell’impero russo. Tutto ciò fu la benzina che servì ad alimentare la nascita del sionismo, una corrente di pensiero tradottasi in un vero e proprio movimento concreto volto all’emancipazione e all’autodeterminazione del popolo ebraico. Il sionismo avrebbe cambiato per sempre non solo la storia della regione dove fino alla fine del XIX secolo, sotto l’egemonia ottomana, la stragrande maggioranza araba e la ridotta minoranza ebraica avevano convissuto pacificamente, ma anche quella del mondo intero, sconvolgendo equilibri geopolitici prestabiliti, creandone di nuovi e alimentando ulteriormente il secolare conflitto tra Occidente e mondo islamico.

La nascita del sionismo

Il sionismo nacque e si svilupppò nell’Europa centrorientale alla fine del XIX secolo in opposizione all’estremo antisemitismo diffuso in quelle zone. Si tratta di una dottrina filosofico-politica che aspira all’autodeterminazione del popolo ebraico e, come obiettivo concreto, alla creazione di un nuovo Stato in Terra Santa, ovvero la regione fisico-geografica chiamata Palestina.
Il vero successo del sionismo si deve al suo fondatore, il giornalista e scrittore austro-ungarico Theodor Herzl che ne fece un movimento internazionale. Egli diffuse le sue idee nei circoli mitteleuropei non facendo riferimenti espliciti al destino della popolazione araba che abitava da secoli in Palestina. Il sionismo ricevette una grande spinta tra il 1903 e il 1906 in seguito a una nuova ondata persecutoria culminata con numerosi pogrom russi. Questi eventi furono molto importanti in quanto scatenarono le prime due grandi migrazioni ebraiche che dai territori russi raggiunsero la Palestina.
Tuttavia, per trasformare il sionismo da dottrina filosofica a movimento reale e concreto c’era bisogno di soldi: Herzl si rivolse ai britannici che controllavano l’Egitto attraverso un protettorato ed erano pronti a muovere guerra contro l’ormai decadente Impero Ottomano, dal momento che per loro assicurarsi la Palestina era imprescindibile per gestire in maniera ottimale il Canale di Suez, che assicurava i traffici verso l’Oceano Indiano e il fiore all’occhiello dell’Impero, l’India.

Carta della Palestina a cavallo tra fine XIX e inizio XX secolo.

Il successore ideologico di Herzl, Chaim Weizmann, offrì l’appoggio del movimento alla causa anglosassone dichiarandosi favorevole al possesso britannico della Palestina. Gli inglesi accolsero le motivazioni dell’organizzazione sionista.
Alla fine della prima guerra mondiale, nel 1918, l’Impero Ottomano si dissolse e la Palestina divenne concretamente un protettorato britannico, su volontà della Società delle Nazioni. Si intensificò così l’immigrazione ebraica favorita dal governo coloniale. A questo punto le élite arabe, rendendosi conto di questo progetto congiunto anglo-ebraico, cominciarono ad assaltare i nuovi quartieri ebraici che erano sorti a Gerusalemme e Jaffa.
Ma con l’ottenimento del protettorato la corona britannica aveva già messo le basi per il progetto mirato di creazione di una forte comunità ebraica in Palestina, processo che si intensificò sempre più. Nel 1918 c’erano 700mila arabi e 60mila ebrei, e già nel 1922, secondo il primo censimento britannico, gli ebrei erano diventati 84mila. Gli inglesi infatti favorivano apertamente la migrazione e i sionisti garantirono ai nuovi coloni capitale con cui comprare terreni su cui costruire fabbriche e aziende agricole (i kibbutz), grazie alla creazione del Fondo Nazionale Ebraico per sostenere i costi di tutti quanti intendevano trasferirsi in Palestina. Venne fondata anche l’Haganah, un’organizzazione paramilitare preposta a difendere i territori dei coloni che sarebbe diventata il nucleo base del futuro esercito israeliano.

Theodor Herzl, fondatore del sionismo.

Negli anni tra le due guerre mondiali, a favorire ulteriormente la migrazione ebraica in Palestina furono una serie di concause a livello mondiale, come la crisi del 1929 in seguito al crollo della borsa di Wall Street che incrementò la migrazione di molti esuli ebrei dagli Stati Uniti alla terra promessa. Inoltre il fallimento dei raccolti locali, e di conseguenza diverse carestie che causarono danni enormi all’agricoltura palestinese, peggiorarono la situazione per la componente all’epoca maggioritaria. Molte famiglie arabe, infatti, per sopravvivere alla crisi furono costrette a vendere i terreni agli ebrei che ovviamente disponevano di maggiori possibilità economiche grazie al sostegno del Fondo Nazionale. Questi fattori contribuirono al declino demografico della popolazione araba che dall’82% del 1931 passò al 70% nel 1939.
Con l’evidenza concreta che la maggioranza araba stava diventando minoranza e la sempre più cospicua presenza di coloni ebrei, le tensioni si acuirono con attacchi degli arabi nei confronti dei nuovi arrivati. Il contingente paramilitare ebraico divenne a tutti gli effetti un esercito vero e proprio che, con l’aiuto di altri gruppi sionisti, si rese responsabile di azioni terroristiche contro gli arabo-palestinesi. Le violenze si radicalizzarono cominciando ad assumere i tratti di un conflitto. I leader arabi invitarono la propria popolazione a non vendere più le terre agli ebrei e li incitarono apertamente alla guerra santa.
Nel 1931 il sionismo dichiarò pubblicamente che per raggiungere i suoi obiettivi avrebbe fatto ricorso all’uso della forza. Nel 1936 i lavoratori palestinesi si unirono in uno sciopero generale che aveva l’obiettivo di denunciare il rifiuto dei datori di lavoro israeliani di assumere lavoratori arabi nelle loro aziende. Questo sciopero, durato circa sei mesi, fu la scintilla per una più ampia protesta di massa tramutatasi in una rivolta araba che terminò solamente nel 1937. Una nuova ribellione si concluse con la sconfitta palestinese nel 1939.

Il conflitto arabo-israeliano

Al termine della seconda guerra mondiale i crimini dell’Olocausto portarono a un senso di colpa collettivo nei confronti del popolo ebraico e questo contribuì ad accelerare il processo di indipendenza israeliana. La popolazione ebraica, rinforzata anche dai superstiti della Shoah, costituiva ora il 32% della regione e le pressioni giungevano anche da ebrei influenti all’estero che ricoprivano cariche importanti nelle amministrazioni politiche o in organizzazioni economiche nei principali Stati occidentali. Le grandi potenze occidentali, infatti, erano favorevoli alla creazione di un nuovo Stato cuscinetto alleato, all’interno di una galassia di territori esclusivamente dominati da popolazioni di etnia araba e fede islamica.

Spartizione Palestina da accordi ONU (Risoluzione 181).

La Gran Bretagna abbandonò le sue mire egemoniche sulla Palestina rinunciando definitivamente al mandato nel maggio 1947 e passando la patata bollente alla neonata Organizzazione delle Nazioni Unite, che votò e approvò la Risoluzione 181, la quale predisponeva la separazione della regione in due Stati: uno israeliano alla cui popolazione ebraica (37%) sarebbe andato il 55% del territorio costituito dalle aree maggiormente fertili; uno arabo-palestinese alla cui popolazione (60%) sarebbe andato il 44% del territorio composto da aree più aride; l’1%, il corridoio Gerusalemme-Betlemme, sarebbe rimasto zona internazionale. I sionisti si proclamarono d’accordo mentre gli arabi dichiararono la Risoluzione non valida e non la accettarono.

Confronto 1946-1947 (spartizione territorio ONU).

La Risoluzione 181 provocò lo slancio finale dei sionisti per prendere ancora più terra espellendo il maggior numero possibile di palestinesi, distruggendone i villaggi. Per il popolo palestinese questi fatti segnarono l’inizio della Nakba, la “catastrofe”.
Il 14 maggio 1948 Ben Gurion, capo del governo sionista e futuro primo ministro israeliano, proclamò l’indipendenza dello Stato ebraico sancendone di fatto la reale nascita. In quella data il numero di sfollati e rifugiati palestinesi ammontava già a 370mila unità. Ciò determinò lo scoppio del conflitto arabo-israeliano.
Stiamo parlando di quattro guerre che dal 1948 al 1973 videro contrapposti Israele a eserciti di alcuni Stati del mondo arabo. Di fronte agli eventi che abbiamo descritto, infatti, la neonata Lega Araba iniziò a inviare sottobanco fondi, armi e volontari ai palestinesi, istituendo in seguito un esercito di liberazione per assaltare, insieme agli arabo-palestinesi, gli insediamenti israeliani.

Il giorno successivo alla dichiarazione d’indipendenza gli eserciti di Libano, Egitto, Giordania, Siria e Iraq invasero Israele in quella che è conosciuta come la “prima guerra arabo-israeliana”. L’invasione fu un fiasco, in quanto la controffensiva israeliana sbaragliò le truppe della Lega Araba e inoltre riuscì ad accaparrarsi più territori di quelli previsti dagli accordi onu. Di conseguenza oltre 750mila palestinesi furono espulsi dalle terre divenute parte dello Stato ebraico e reinsediati nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania con quasi 500 villaggi vittime di eccidi e massacri, tra cui il più noto è quello di Deir Yassin.
Lo Stato palestinese di fatto iniziava a non esistere quasi più. Al termine della guerra la superficie di Israele aumentò dal 55% al 78% dell’intera regione, riducendo la quantità palestinese al solo 22%. In realtà questo 22% non era realmente in mano agli arabo-palestinesi, ma diventò possedimento delle altre grandi potenze sconfitte facenti parte della Lega Araba. La Striscia di Gaza, una fascia costiera affacciata sul Mediterraneo di circa 365 kmq – come la Provincia di Prato – che prende il nome dalla città di Gaza (probabilmente fondata nella prima metà del II millennio a.C. e divenuta possedimento del popolo egizio prima e poi di quello filisteo, per essere definitivamente conquistata dagli arabi nel VII secolo d.C.), venne infatti occupata dall’Egitto; la Giordania si prese invece la Cisgiordania (o West Bank in inglese), territorio di 5600 kmq (poco più della Liguria) corrispondente all’area situata sulla riva occidentale del Fiume Giordano. A Gerusalemme la parte ovest era possedimento israeliano, mentre la parte est, abitata per lo più da palestinesi, era controllata dall’esercito giordano.

Mutamenti territoriali in seguito alla Prima guerra arabo-israeliana (1).

Il secondo conflitto è la “guerra del Sinai” del 1956. Il Sinai è un’estesa penisola egiziana di forma triangolare situata a cavallo tra Africa e Asia con una superficie di quasi 59mila kmq, più o meno come i territori di Emilia-Romagna, Toscana e Lazio messi insieme. Si tratta di un luogo sacro per la tradizione cristiana ed ebraica, in quanto nelle sacre scritture viene descritto l’episodio di Mosè che sale sul Monte Sinai per incontrare Dio e riceve da lui i Dieci Comandamenti.

: Mutamenti territoriali in seguito alla Prima guerra arabo-israeliana (2).

Negli anni ‘50 l’Egitto aveva avviato iniziative volte alla nazionalizzazione del Canale di Suez per sfruttarne in maniera esclusiva i benefici commerciali, recando danno in particolare a Inghilterra e Francia. Preoccupate dalla realizzazione di questa possibilità, nel 1956 Inghilterra, Francia e Israele occuparono militarmente il Canale, destando la reazione egiziana che era pronta a muovere guerra. Nacque dunque una crisi internazionale che si risolse solamente quando l’urss minacciò di intervenire a fianco dell’Egitto e degli Stati Uniti. Inghilterra e Francia, spaventate dalla minaccia di un intervento congiunto russo-statunitense, decisero di rinunciare al conflitto. Le truppe israeliane si ritirarono dalla zona. Si tratta quindi non di un conflitto vero e proprio, ma di una serie di occupazioni che posero le basi per lo scontro successivo.

Penisola del Sinai.

La terza è la guerra più importante in quanto i suoi esiti e le conquiste territoriali hanno portato grosso modo alla situazione attuale. Parliamo della “guerra dei sei giorni” scoppiata nel 1967. Le truppe di tutti gli eserciti della regione erano in fermento e la tensione era di nuovo palpabile.
L’Egitto aveva applicato un blocco navale nei confronti di Israele, il quale temeva un imminente attacco al proprio territorio. Perciò invase i Paesi arabi confinanti lanciando un raid aereo che sconfisse la quasi totalità dell’aviazione degli eserciti di Egitto, Siria e Giordania. Nei cinque giorni successivi ottenne invece importanti vittorie terrestri riuscendo così a sconfiggere gli Stati della Lega Araba in soli sei giorni. Israele conquistò la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, la città di Gerusalemme (in particolare la parte est abitata dagli arabo-palestinesi), la Penisola del Sinai e le alture del Golan (altopiano montuoso compreso tra i territori di Siria, Palestina e Libano),procedendo a un’occupazione militare del territorio.
Nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania vivevano, dopo la guerra del 1948, soprattutto arabi palestinesi e queste due aree erano quanto rimaneva dello Stato arabo della Palestina creato dall’onu nel 1947. La Palestina risultava così già quasi interamente occupata dalle truppe israeliane.

Mutamenti territoriali in seguito alla guerra dei sei giorni.

L’onu, attraverso diverse risoluzioni, tra cui la più importante è la Risoluzione 242 dichiarò illegittime tutte queste conquiste, ma Israele rimase dov’era e lì si trova tuttora. I punti più importanti della risoluzione sono due.
Afferma che il compimento dei princìpi della Carta richiede l’instaurarsi di una pace giusta e duratura in Medio Oriente che dovrebbe comprendere l’applicazione dei due seguenti princìpi:

  • ritiro delle forze israeliane dai territori occupati nel corso del recente conflitto
  • cessazione di ogni dichiarazione di belligeranza, e rispetto e riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ogni Stato della regione e del loro diritto a vivere in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute, al riparo da minacce o atti di forza

Afferma inoltre la necessità:

  • di garantire la libertà di navigazione sulle vie d’acqua internazionali della regione
  • di arrivare a una equa regolamentazione del problema dei profughi
  • di garantire l’inviolabilità territoriale e l’indipendenza politica di ogni Stato della regione, attraverso misure comprendenti la formazione di zone smilitarizzate

Il quarto conflitto è la “guerra del Kippur” del 1973. Gli eserciti di Egitto e Siria attaccarono Israele durante la tradizionale festività del Kippur, cogliendo inizialmente di sorpresa gli israeliani e riuscendo a ottenere alcune vittorie. La controffensiva israeliana riuscì però a ribaltare le sorti del conflitto e gli israeliani arrivarono alle porte del Cairo. Fu necessario l’intervento internazionale dell’onu per ordinare il cessate il fuoco. Non ci furono modifiche territoriali rispetto all’esito della guerra dei sei giorni.

Evoluzione del territorio della Palestina.

Nel 1978 vennero siglati gli accordi di Camp David negli Stati Uniti tra Israele ed Egitto, firmati dal presidente egizianoAnwar al-Sadate dal primo ministro israelianoMenachem Begin, che comportarono la restituzione allo Stato africano della Penisola del Sinai. L’Egitto uscì così di scena dal conflitto, smettendo di supportare apertamente dal punto di vista politico e militare il popolo palestinese. Le alture del Golan sono rimaste possedimento ebraico e stanno venendo poco alla volta colonizzate. Ebbe così termine la fase del conflitto arabo-israeliano, ovvero dell’intero mondo arabo contrapposto agli ebrei israeliani, e da quel punto in poi il conflitto diventò israelo-palestinese.

Accordi di Camp David.

Il conflitto israelo-palestinese

Negli anni Ottanta assunse un ruolo centrale l’olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) nata nel 1964 e ammessa all’assemblea generale dell’onu come rappresentante politico del popolo palestinese. Il 15 novembre 1988, il leader dell’olp Yasser Arafat dichiarò l’indipendenza dello Stato della Palestina e un centinaio di membri dell’onu lo riconobbe, anche se tutto rimase praticamente solo sulla carta.
Contemporaneamente in alcuni arabi palestinesi stavano crescendo posizioni più estremiste che condussero alla prima fase violenta del conflitto israelo-palestinese, con quella che viene chiamata “prima intifada”, una sollevazione popolare che portò a boicottare prodotti israeliani e ad alzare barricate fino a scontri armati. Protagonisti erano civili palestinesi, ora netta minoranza, confinati esclusivamente in alcune aree della Striscia di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme, che si scontravano contro i super esperti e organizzati militari israeliani. Emblematica della prima intifada è una foto che ritrae un bambino palestinese mentre scaglia una pietra contro un carro armato.

Yasser Arafat, leader dell’OLP.

Lo Stato di Israele poteva godere dell’appoggio finanziario di alcune potenze occidentali come Regno Unito e Stati Uniti, fondi che contribuirono a rendere il suo esercito uno dei più efficienti e meglio preparati al mondo. Protagonista di queste prime rivolte fu anche Hamas, un partito politico palestinese nonché organizzazione paramilitare considerata oggi terroristica da ue e Stati Uniti. Nei sei di anni di rivolta ci furono numerose vittime soprattutto da parte araba fino a quando fu evidente che bisognava arrivare a un cessate il fuoco.
Gli scontri si conclusero grazie alla firma degli accordi di Oslo nel 1993 tra Arafat e il primo ministro israeliano Rabin. Gli accordi avrebbero dovuto comportare il ritiro delle truppe israeliane da Gaza e da alcune aree della Cisgiordania e la creazione di uno Stato palestinese, chiamato Autorità Nazionale Palestinese.
Questo processo che avrebbe dovuto portare a una pace definitiva è naufragato. Nonostante glii accordi, infatti, gli ebrei israeliani hanno continuato a colonizzare la Cisgiordania e ad appropriarsi di alcuni quartieri di Gerusalemme. Infine il primo ministro Rabin venne assassinato nel 1995 da un estremista israeliano, mettendo così una pietra tombale definitiva sulle risoluzioni firmate a Oslo da entrambe le parti.

Gli accordi di Oslo.

Il processo di colonizzazione forzata sionista ha quindi scatenato le frange più estremiste degli arabi palestinesi, in particolare di Hamas. Giungiamo così alla nuova fase violenta del conflitto arabo-israeliano, la seconda intifada. A partire dalla fine deli anni Novanta e l’inizio dei Duemila si sono verificati attacchi nei confronti degli israeliani nelle principali città del Paese ed è riscoppiata una nuova sollevazione popolare. Il numero maggiore dei morti, però, anche in questo caso, si riscontra tra le file dei palestinesi. La seconda intifada è terminata ufficialmente nel 2005, ma in realtà sono continuate tensioni, attacchi e attentati. In particolare attentati suicidi a opera di terroristi kamikaze arabi che tendono a farsi esplodere sugli autobus israeliani uccidendo centinaia di cittadini inermi.
Oggi la Palestina (Autorità Nazionale Palestinese) comprende quindi i territori occupati da Israele dopo la guerra dei sei giorni: 1) Striscia di Gaza, in cui vivono 1,7 milioni di palestinesi, la maggior parte rifugiati, governata da Hamas; Israele e anche Egitto hanno chiuso le frontiere con muri di cemento e filo spinato. 2) Alcune aree della Cisgiordania o West Bank, con le città di Gerico, Hebron, Betlemme. 3) Gerusalemme est, amministrata da Israele, ma rivendicata dall’Autorità Nazionale Palestinese e proclamata capitale, sebbene il suo centro amministrativo sia Ramallah.

Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Nel frattempo Israele ha iniziato a costruire due lunghissimi muri al confine con la Cisgiordania e con la Striscia di Gaza, come mezzo di difesa per proteggersi dal terrorismo palestinese. Si tratta di un sistema di barriere fisiche di circa 730 km. Dal lato arabo viene visto invece come uno strumento di segregazione razziale e nuova colonizzazione, in quanto la barriera ingloba la maggior parte delle colonie israeliane in Cisgiordania e la quasi totalità dei pozzi d’acqua.
Nella Striscia di Gaza oggi gli israeliani hanno il controllo dello spazio aereo, delle acque territoriali, dell’anagrafe, dell’ingresso e uscita di merci e persone e del sistema fiscale. A Gaza infatti, già prima del nuovo conflitto dell’ottobre 2023, le condizioni di vita del popolo palestinese erano drammatiche, con una densità abitativa elevatissima, tassi di disoccupazione superiori al 50%, acqua in gran parte contaminata e luce elettrica disponibile solo poche ore al giorno.
La Cisgiordania invece, dopo una guerra civile interna tra gli arabi palestinesi scoppiata in seguito alle elezioni del 2006 vinte da Hamas, è rimasta sotto la gestione dell’Autorità Nazionale Palestinese e in particolare del più moderato partito Fatah.

Muro tra Israele e Cisgiordania.

Ascesa di Hamas

Hamas, principale fautore degli attacchi recenti contro Israele, domina da qualche lustro la scena politica di ciò che rimane della Palestina, in particolare risulta fortissimo nella Striscia di Gaza. Come abbiamo visto, in questo territorio dal 1948, terminata la prima guerra arabo-israeliana, iniziarono a confluire diversi profughi palestinesi scacciati dalle occupazioni israeliani delle loro terre: circa 700.000 sfollati che provocarono un enorme boom demografico. Furono allestiti numerosi campi profughi, inizialmente tendopoli successivamente trasformate in edifici in muratura, dove tuttavia le condizioni igienico-sanitarie non erano affatto delle migliori. Attualmente ci vivono ancora i discendenti dei primi rifugiati.
Dal 1967, dopo la guerra dei sei giorni, Israele occupò la Striscia e diede vita alla nascita di colonie sioniste. È in opposizione al sionismo che possiamo rintracciare l’origine di Hamas. Ma chi sono costoro? La sigla è l’acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiya che significa movimento di resistenza islamica. Si tratta di un movimento militante islamico e, al contempo, uno dei due principali partiti politici dei territori palestinesi. È dunque un’organizzazione che combatte per la libertà degli arabi palestinesi imponendo i principi dell’islam, considerata oggi terroristica dall’Unione Europea, dal Regno Unito, dagli Stati Uniti e ovviamente da Israele in quanto pianifica e realizza attentati contro lo Stato ebraico e i suoi abitanti.
Dopo la guerra dei sei giorni e le occupazioni israeliane, iniziò a diffondersi il movimento da cui successivamente sarebbe nato Hamas: il Centro Islamico: un’organizzazione di assistenza sociale, costola di un’altra organizzazione, i Fratelli Musulmani, nata in Egitto negli anni ‘20 del XX secolo. 1)
Inizialmente il Centro Islamico non si occupava di politica, la situazione mutò drasticamente negli anni Ottanta con lo scoppio della prima intifada alla quale l’organizzazione decise di aderire.
Nel 1987 quindi Ahmed Yassin, un religioso palestinese cresciuto come attivista delle sezioni locali dei Fratelli Musulmani, fondò Hamas che avrebbe dovuto essere una sorta di ramo armato in Palestina del movimento egiziano. Tuttavia alla fine degli anni Ottanta la scena politica locale era dominata dal Partito Fatah, guidato da Yasser Arafat, incentrato su una linea nazionalista e laica e che ancora oggi governa la West Bank. Fatah negli anni Novanta, al termine della prima intifada, aveva intrapreso un processo di pace con lo Stato israeliano; ma Hamas, non approvando assolutamente questa soluzione, iniziò ad attaccare obiettivi militari sionisti. Contemporaneamente si occupava anche di assistenza sociale, istituendo mense e ospedali per gli arabi palestinesi più poveri.
Dopo la seconda intifada Hamas cambiò la sua strategia politica, partecipando per la prima volta alle elezioni politiche nel 2006 dell’Autorità Nazionale Palestinese. La sfiducia della popolazione nei confronti di Fatah e il concreto attivismo sociale di Hamas e la sua decisa lotta contro Israele portarono sorprendentemente a un successo, tanto che l’organizzazione vinse le elezioni parlamentari “nazionali”. Le conseguenze furono nefaste. Israele, per paura di immediati attacchi, istituì un blocco navale nei confronti della Striscia di Gaza, ancora in atto.
Il presidente dell’anp, Mahmud Abbas, noto come Abu Mazen, descrisse l’accaduto come un colpo di Stato. Le forze fedeli al movimento Fatah guidate da Abu Mazen, a capo anche dell’olp, organizzarono una rivolta che si tradusse in una guerra civile terminata nel 2007 con la vittoria di Hamas. Non è un dettaglio che, soprattutto in quegli anni, l’organizzazione abbia goduto dell’appoggio logistico e soprattutto finanziario dell’Iran, che a metà dei primi anni Duemila iniziò a finanziare Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina. 2)
Da quel momento il partito governa saldamente la Striscia di Gaza, mentre la Cisgiordania rimane guidata da Fatah, nonostante anch’essa sia ancora occupata in larga parte dall’esercito israeliano dal 1967. Dal 2007 le tensioni non si sono per niente sopite ma, nonostante la fine delle intifade, il conflitto israelo-palestinese non è cessato. Attentati e bombardamenti, su entrambi i lati, sono proseguiti, coinvolgendo spesso vittime civili innocenti.
A livello internazionale, nel 2012 l’anp è riuscita a ottenere il rango di Stato osservatore dell’onu, ovvero che può partecipare alle assemblee generali delle Nazioni Unite ma senza votare. Nel 2023 la Palestina era ufficialmente riconosciuta da 138 Paesi su 192 dell’onu. Negli ultimi mesi, nel corso del recente conflitto, altri Stati europei tra cui Spagna, Repubblica di Irlanda e Norvegia hanno ufficialmente riconosciuto l’anp che è ora riconosciuta da 142 Paesi.

Israele invece ha rapporti diplomatici con 157 dei 192 Stati membri dell’onu: più di 30 non lo riconoscono. Di questi, 15 fanno parte della Lega Araba. Nel complesso la maggioranza degli Stati dell’Europa occidentale, del Nordamerica e l’Australia riconoscono soltanto Israele; gli Stati sudamericani, dell’Asia centrale, meridionale e dell’Estremo Oriente nonché dell’Africa sub-sahariana riconoscono entrambi; mentre gli Stati di fede islamica riconoscono unicamente la Palestina.
Negli ultimi anni gli israeliani invece sono tornati più volte al voto, e attualmente sono guidati da Benjamin Netanyahu che ha assunto posizioni sempre più drastiche nei confronti dei palestinesi.
Nel 2018 è stata promulgata una legge fondamentale che non definisce più Israele una democrazia ma lo Stato nazionale del popolo ebraico che legittima la colonizzazione di stampo sionista. Le posizioni dunque, con l’ascesa di Hamas e la presidenza Netanyahu, si sono polarizzate ed estremizzate e ciò che sta succedendo negli ultimi mesi ne è la diretta conseguenza.

Lo scontro in atto

Nella mattina di sabato 7 ottobre 2023 Hamas ha attaccato Israele, cogliendo alla sprovvista il Paese. Dalla Striscia di Gaza centinaia di razzi sono stati lanciati nel sud e nell’est di Israele. Più di mille miliziani sono entrati nel territorio israeliano uccidendo 1194 fra soldati e civili e facendo più di cento prigionieri.
Il sistema di difesa anti missilistico israeliano ha intercettato i razzi, e il governo, pur trovandosi inizialmente impreparato, ha risposto all’attentato dichiarando lo stato di guerra l’8 ottobre con lo scopo di cancellare definitivamente Hamas. Sono iniziati raid di rappresaglia, gli israeliani hanno bombardato in modo prolungato e messo sotto assedio totale Gaza interrompendo fornitura di elettricità, acqua e cibo. Il 26 ottobre è iniziata anche l’avanzata di terra dell’esercito israeliano nella Striscia con violenti combattimenti all’interno di zone urbane densamente abitate, dove Hamas ha realizzato le proprie fortificazioni.
Fin dai primi giorni di questo nuovo conflitto aperto e drammatico migliaia sono stati i morti e i feriti israeliani e palestinesi in entrambi i territori. In particolare nella Striscia di Gaza il coinvolgimento della popolazione civile palestinese nei bombardamenti e negli scontri, con un alto numero di sfollati, feriti e vittime, ha peggiorato le già pessime condizioni di vita degli abitanti acuendo la crisi umanitaria edestando l’allarme di numerose organizzazioni internazionali. Dopo quasi nove mesi di conflitto la situazione è drammatica e a farne le spese maggiormente, come sempre, è la popolazione civile.
Hamas ha attaccato proprio nel mese di ottobre per evitare che Israele e Arabia Saudita, attraverso la mediazione statunitense, arrivassero a riconoscersi reciprocamente e a normalizzare i loro rapporti. L’Arabia Saudita è la culla dell’islam e uno degli Stati arabi più ricchi e potenti, e di conseguenza questo eventuale riconoscimento sarebbe un segnale molto forte sia simbolicamente che concretamente in àmbito economico e politico, ovviamente a discapito degli arabi palestinesi, i quali avrebbero la certezza di trovarsi un ulteriore nemico, questa volta arabo, e di non riuscire più a recuperare i territori perduti.
Il 25 marzo il consiglio di sicurezza dell’onu ha approvato per la prima volta la bozza di risoluzione per un immediato cessate il fuoco a Gaza, con gli Stati Uniti che si sono astenuti. Nel documento è stato richiesto un cessate il fuoco immediato per il Ramadan, con l’obiettivo di raggiungere un cessate il fuoco durevole e definitivo e il rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi, nonché la garanzia dell’accesso umanitario all’area per far fronte alle esigenze mediche e sanitarie.

Guerriglieri di Hamas.

Nonostante ciò, gli scontri a oggi non sono ancora terminati. Da inizio maggio la situazione nella città di Gaza è precipitata con civili costretti alla fame o a migrare ancora una volta. Inoltre in questi mesi alcuni rappresentanti di Hamas hanno iniziato a nascondersi, in modo alquanto vile, tra la popolazione civile per sfuggire ai raid israeliani, esponendo di fatto cittadini innocenti a spietate carneficine.
Diversi esuli palestinesi, in particolare famiglie con figli, si sono rifugiati a Rafah, una città 30 km a sud di Gaza situata al confine con l’Egitto. Il problema per i palestinesi è rappresentato dal fatto che questo è una sorta di confine chiuso, denominato “valico di Rafah”: si tratta dell’unico passaggio tra la Striscia di Gaza e l’Egitto ed è ufficialmente divenuto frontiera internazionaledopo iltrattato di pace israelo-egiziano del 1979e confermato dal ritiro israeliano dallapenisola del Sinainel 1982. Attraversa la vecchia città di Rafah quasi nel centro, dividendola inuna città palestineseeuna egiziana. Dal 1982 al 2005 è stato gestito dalle forze militari israeliane e solo dal settembre 2005 è passato sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Dallo scorso ottobre il valico è ritornato agli onori della cronaca suscitando l’attenzione mediatica internazionale in quanto è formalmente l’unico punto di accesso alla Palestina anche per tutti gli altri Stati che non siano Israele. Fin dai primi mesi del nuovo conflitto il governo egiziano ha sostanzialmente rafforzato il controllo sul confine, dichiarando che non si prenderà carico dei rifugiati palestinesi. Il Paese africano non vuole assolutamente una seconda Nakba, 75 anni dopo la prima.
L’offensiva di terra israeliana non si è fermata e il 7 maggio le forze armate hanno preso definitivamente il controllo del valico che rappresenta una delle principali vie di trasporto degli aiuti umanitari a Gaza. Attualmente è ancora controllato dagli israeliani che domenica 26 maggio, in seguito al lancio di alcuni missili da parte di Hamas verso Tel Aviv, ha bombardato il territorio provocando un ingente incendio nel campo profughi Tal as-Sultan, nel nord-ovest della città. Il bilancio delle vittime è stato pesante: 45 civili arabo-palestinesi (tra cui diversi bambini) e più di 200 feriti, che vanno a incrementare il terribile bilancio complessivo di morti civili a più di 36.000.
Mentre il primo ministro Netanyahu ha definito l’episodio del 26 maggio come un incidente, si sono intensificati anche gli attacchi a Rafah via terra con i carrarmati israeliani che sono penetrati nella città, arrivando vicino alla moschea Al Awda.
Contemporaneamente Israele non permette ai camion recanti aiuti umanitari di entrare attraverso il valico di Rafah, trasformatosi in una tendopoli e campo profughi permanente all’interno del quale più di un milione e mezzo di sfollati sono costretti a vivere senza accesso a beni di prima necessità come acqua, cibo, medicine. Gli ospedali sono inagibili, spesso occupati dall’esercito: l’onu ha dichiarato che la popolazione arabo-palestinese è sull’orlo della carestia. A causa dei continui bombardamenti i palestinesi hanno cominciato a fuggire anche da Rafah con numeri imponenti già a metà maggio: circa 360.000 persone secondounrwa. 3) Le ultime destinazioni possibili rimangono Khan Yunis, dove già a inizio giugno alcuni raid hanno ucciso donne e bambini, e Muwasi, un piccolo territorio costiero sprovvisto di infrastrutture idriche e fognarie.
Nel frattempo, nonostante l’evidente inferiorità militare e l’assediamento israeliano, Hamas non vuole cedere e continua a provare attacchi isolati soprattutto per mano delle Brigate Ezzedine al-Qassam, ritenute il braccio armato del movimento. 4) D’altro canto Israele prosegue nella sua offensiva nelle città del sud della Striscia di Gaza con l’obiettivo concreto di cancellare definitivamente Hamas.

Striscia di Gaza, giugno 2024: soldati israeliani penetrano in uno dei tunnel di Hamas.

Come preannunciato all’inizio, abbiamo trattato un argomento di geopolitica estremamente delicato non solo perché attuale e scottante in quanto fortemente divisorio, ma soprattutto perché risulta di difficile comprensione la sua vera natura a causa dei numerosi dettagli e successione continua di eventi e personaggi coinvolti come protagonisti; senza contare l’intervento di altri elementi secondari sullo sfondo che non hanno fatto altro che alimentarne la complessità rendendolo davvero una matassa quasi impossibile da districare.
Assodato che è complicatissimo stabilire con assoluta certezza chi si sia stabilito per primo in Palestina, data la peculiare storia della regione, alcune situazioni oggettive sono sotto gli occhi di tutti. In seguito alle conquiste israeliane della guerra dei sei giorni nel 1967, l’onu, tramite la Risoluzione 242, ha dichiarato illegali le occupazioni sioniste intimando il ritiro delle truppe da queste aree. Ritiro che non è mai avvenuto. Viene spontaneo chiedersi il perché dal momento che le indicazioni contenute nelle risoluzioni dell’onu generalmente vengono applicate e fatte rispettare con immediatezza. Cui prodest? Probabilmente a qualche Stato occidentale che ha da sempre appoggiato la causa sionista, Regno Unito e Stati Uniti su tutti.
Dall’altra parte invece le azioni terroristiche di Hamas e delle sue brigate armate godono di un forte sostegno popolare in quanto, soprattutto nella Striscia di Gaza, molti palestinesi ritengono Israele l’unico e diretto responsabile delle condizioni in cui sono costretti a vivere e hanno maturato un forte desiderio di rivalsa. Nonostante ciò, esistono anche tanti arabi palestinesi, in particolare in Cisgiordania, che sono profondamente contrari ai metodi e all’ideologia di queste organizzazioni.
Viene soprattutto da chiedersi come mai le poche volte che i due popoli si sono avvicinati e hanno tentato di instaurare un dialogo arrivando a un compromesso, siano sempre emersi estremismi che ne hanno impedito la concreta realizzazione. A chi fa comodo che questa spinosa questione rimanga sempre aperta e non si giunga a una pace definitiva? La risposta, oltre a riguardare le frange estremiste dei due schieramenti, può coinvolgere i nomi di Regno Unito e Stati Uniti da un lato, Iran dall’altro. Infatti l’appoggio conferito ad Hamas negli ultimi lustri dal potente Stato persiano è un dato di fatto, così come l’evidenza che allo stesso sia decisamente utile avere un braccio armato anti-occidentale nel cuore del Medioriente e che il conflitto israelo-palestinese non si plachi mai.
Infine, ritornando al nostro amato Virgilio e alla sua illustre citazione, non è una cosa da poco credere che nella guerra salvezza non vi sia e auspicarsi a ogni costo la pace. Sarebbe opportuno, ancora una volta, ascoltare il poeta mantovano facendoci illuminare e guidare da lui come fece con il Sommo Dante nell’inferno per provare a uscire da un altro inferno, quello polveroso e rosso sangue della Palestina. Sarà scontato e una banalità ma, in questo caso più di qualunque altra volta, l’unica soluzione possibile è la pace. Tuttavia è facile pensare che il consiglio di Virgilio non sarà seguito: una pace duratura sembra al momento improbabile e non è escluso che lo scenario di guerra possa ben presto allagarsi anche ad altri Stati.

N O T E

1) I Fratelli Musulmani o Fratellanza Musulmana sono un’organizzazione islamista internazionale composta da diversi partiti e fazioni che si rifanno al cosiddetto “islam politico”. Il loro obiettivo è la costituzione di società, all’interno di Stati a maggioranza islamica, incentrate esclusivamente sui valori della religione musulmana. Fondati nel 1928 dall’insegnante Hasan Al Banna in Egitto poco più di un decennio dopo il collasso definitivo dell’Impero Ottomano, il movimento si è diffuso in Egitto e in diversi Stati medio-orientali attraverso organizzazioni satellite come Hamas. Sono stati dichiarati fuorilegge, in quanto considerati un’organizzazione terroristica, da parte dei governi di numerosi Paesi.
2) Hezbollah è un’organizzazione paramilitare islamista sciita e antisionista libanese, nata nel giugno 1982 e divenuta successivamente anche un partito politico. Grazie in particolare al supporto del governo iraniano, la forza dell’ala paramilitare di Hezbollah è cresciuta a tal punto nel corso degli anni da essere considerata più potente dell’esercito regolare libanese. Nel 1997 Hezbollah è stata catalogata come organizzazione terroristica dagli Stati Uniti e da Israele, nel 2013 la sua ala militare dall’Unione Europea.
3) L’unrwa, agenzia dell’onu per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente è dedita a soccorso, sviluppo, istruzione, assistenza sanitaria, servizi sociali e aiuti di emergenza per i rifugiati palestinesi che vivono in quello che rimane dello Stato di Palestina, in Giordania, Libano e Siria.
Fu istituita dall’assemblea generale delle Nazioni Unite attraverso l’approvazione della risoluzione 302 (IV) dell’8 dicembre 1949 in seguito alla prima guerra arabo-israeliana e al conseguente esodo palestinese come agenzia sussidiaria della stessa assemblea generale, rimanendo separata rispetto all’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (unhcr). Ha sede ad Amman in Giordania ed è operativa dal 1° maggio 1950.
4) Le Brigate Ezzedin al-Qassam costituiscono il braccio armato di Hamas. Fondate nel 1992 sotto la direzione di Yahya Ayyash, il loro obiettivo primario era costituire un efficace gruppo militare a sostegno dei fini di Hamas, in particolare bloccare i negoziati nati dagli accordi di Oslo. Dal 1994 al 2000 le brigate hanno organizzato un gran numero di attacchi contro soldati e civili israeliani. All’inizio della seconda intifada il gruppo divenne uno dei principali obiettivi “militari” di Israele. Le Brigate operavano in alcune unità in Cisgiordania, ma molte di queste vennero distrutte nel 2004 dalle diverse operazioni delle forze di difesa israeliane. Hamas quindi concentrò la propria forza nella Striscia di Gaza, sua roccaforte. Tra le loro fila vi sono circa 20.000 combattenti. Le Brigate sono nella lista delle organizzazioni terroristiche di Unione Europea, Stati Uniti, Australia, Regno Unito e ovviamente Israele.