Gli omicidi dei fumettisti parigini che hanno preso giro l’islam e degli ebrei che facevano acquisti hanno sconvolto il mondo. Un mondo sconvolto è sempre pericoloso. Le persone sconvolte possono fare cose imprudenti. È nei momenti estremi e carichi di emozione, che servono freddezza e distacco. Sarei tentato di urlare di rabbia, ma non me lo posso permettere: il mio lavoro è cercare di analizzare l’evento, collocarlo in un contesto, cercare di capire cosa sia successo e perché. È partendo da qui, una volta sbollita la rabbia, che si possono elaborare piani d’azione.
Ho imparato che, affrontando questioni geopolitiche, posso tenere a freno la collera e trovare quantomeno una spiegazione, se non un senso, per eventi simili. Il 27 gennaio uscirà il mio nuovo libro, Flashpoints: The Emerging Crisis in Europe. Parla del fallimento del grande esperimento europeo, l’UE, e la rinascita dei nazionalismi. Parla del riemergere delle frontiere, dei focolai sparsi nel continente, nonché della possibilità che i tentativi europei di evitare conflitti falliscano. Cito il mio libro perché un capitolo è dedicato al Mediterraneo e all’antichissimo conflitto tra islam e cristianesimo. Ovviamente questa è una questione sulla quale ho molto ragionato, e quindi vorrei valermi di Flashpoints per provare a dare un senso agli ultimi fatti di sangue.
Abbiamo parlato dei confini, di come essi uniscano e nel contempo dividano. Qui la frontiera è un mare, una cosa diversa ma con molte caratteristiche tipiche di un normale confine. La vicinanza facilita il commercio ma anche la guerra. Per l’Europa si tratta di un’altra frontiera in parte familiare e in parte profondamente aliena.
L’islam ha invaso l’Europa due volte attraverso il Mediterraneo, la prima in Iberia, la seconda nell’Europa sud-orientale, con qualche zampata in Sicilia e altrove. Il cristianesimo ha invaso l’islam più volte, la prima con le Crociate e con la guerra per cacciare i musulmani dalla penisola iberica. Poi ha sloggiato i turchi dall’Europa centrale. I cristiani, infine, hanno attraversato il Mediterraneo nel XIX secolo per assumere il controllo di gran parte del Nordafrica. Ciascuna di queste due religioni ha voluto dominare l’altra. Ciascuna c’è andata vicino. Nessuna ha avuto successo. Resta il fatto che islam e cristianesimo sono ossessionati l’uno dall’altro fin dal primo incontro. Come Roma e l’Egitto, hanno commerciato e si sono fatti la guerra.
Cristiani e musulmani sono stati acerrimi nemici, in lotta per il controllo dell’Iberia. Eppure, non dimentichiamolo, sono anche stati alleati. Nel XVI secolo, la Turchia ottomana e Venezia si sono accordati per controllare il Mediterraneo. Non c’è una frase adatta a riassumere il loro rapporto, tranne forse questa: è raro che due religioni possano essere tanto ossessionate l’una dall’altra e al tempo stesso così ambivalenti. Questa è una miscela esplosiva.
Immigrazione, multiculturalismo e ghettizzazione
La crisi attuale ha le sue origini nel crollo dell’egemonia europea sul Nordafrica dopo la seconda guerra mondiale e il bisogno europeo di manodopera a basso costo. Terminato il rapporto imperialistico con questi popoli, gli europei sono stati tenuti a consentire l’immigrazione dei musulmani, e le frontiere permeabili dell’Unione europea hanno permesso loro di stabilirsi dove preferivano. Da questi ultimi, al contrario, non è arrivata alcuna trasformazione culturale. Si sono spostati per lavoro, guadagno, per le ragioni più semplici. L’appetito europeo per la manodopera a basso costo e quello musulmano per il lavoro si sono combinati generando una marea migratoria.
La questione è stata complicata dal fatto che l’Europa non è più semplicemente cristiana. Il cristianesimo ha perso il controllo egemonico sulla cultura conseguito nei secoli precedenti, ed è stato affiancato, se non doppiato, dalla nuova dottrina della laicità. Questa ha operato una distinzione radicale tra vita pubblica e privata, ove la religione è stata relegata nella sfera personale, senza influenza sulla vita pubblica. Il secolarismo ha tanti aspetti positivi, in particolare la libertà di credere quello che si vuole in privato. Ma il secolarismo pone anche un problema collettivo. Ci sono persone con convinzioni talmente diverse da rendere impossibile un punto di contatto a livello pubblico. E poi ci sono quelli per i quali la distinzione stessa tra pubblico e privato è priva di significato o inaccettabile. I meccanismi complessi del secolarismo hanno il loro fascino, ma non tutti ne sono affascinati.
L’Europa ha risolto il problema con un indebolimento del cristianesimo che ha tolto qualsiasi senso alle antiche battaglie tra le sue fazioni e confessioni. Ma ha aperto le porta a genti che, non solo non condividono le dottrine fondamentali del secolarismo, ma le respingono. Ciò che la cristianità ha accolto come un progresso rispetto ai conflitti settari, agli occhi dei musulmani (e di alcuni cristiani) appare semplice decadenza, indebolimento della fede e perdita di ideali.
Ma cosa intendiamo nel parlare di cose come cristianesimo, islam, laicità? Ci sono un miliardo e passa di cristiani, e un miliardo e passa di musulmani, e innumerevoli laici che mescolano tutto quanto. È difficile decidere cosa si intende con questi termini; e facile stabilire che i valori di chiunque altro sono o non sono quelli giusti. Esiste un’indeterminatezza insita nel nostro uso del linguaggio che ci permette di trasferire la responsabilità per le azioni a Parigi da una religione a un filone minore di una religione, o soltanto a chi ha premuto il grilletto. Questo è il problema universale della laicità, che rifugge gli stereotipi. E non spiega chi sia da ritenersi responsabile di quanto avviene. Assegnando tutte le responsabilità all’individuo, la laicità tende ad assolvere nazioni e religioni da ogni colpa.
Questo non è necessariamente sbagliato, ma crea uno spaventoso problema pratico. Se nessuno tranne i terroristi e i loro complici più vicini è responsabile per l’azione, e tutti gli altri che condividono la loro fede sono innocenti, avete espresso un giudizio morale giustificabile. Ma dal punto di vista pratico, avete neutralizzato ogni possibilità di difendervi. È impossibile difendersi dalla violenza casuale e inammissibile imporre una responsabilità collettiva. La complessità morale stessa dell’Europa le crea un problema che non è in grado di risolvere facilmente. Non tutti i musulmani – e neppure la maggior parte di essi – ne sono responsabili. Ma tutti quelli che hanno commesso questi delitti erano musulmani che affermavano di parlare per i musulmani. Si potrebbe dire che questo è un problema musulmano e quindi ritenere i musulmani responsabili della sua soluzione. Ma cosa succede se non lo fanno? E così il dibattito morale gira su se stesso all’infinito…
Questo dilemma è aggravato dal segreto che si cela in Europa: i suoi abitanti non vedono i musulmani provenienti dal Nordafrica o della Turchia come europei, né intendono permettere loro di esserlo. La soluzione europea contro il loro isolamento è il principio del multiculturalismo: in superficie una trovata ultraliberale, in pratica una spinta alla frammentazione culturale e alla ghettizzazione. Ma dietro questo c’è un altro problema, ed è anche geopolitico. In Flashpoints sostengo che:
Il multiculturalismo e l’intera operazione migratoria dovevano affrontare un ulteriore ostacolo. L’Europa era affollata. A differenza degli Stati Uniti, non aveva lo spazio per incorporare milioni di immigrati, non certo su base permanente. Anche con un tasso di natalità in lento declino, l’aumento della popolazione, soprattutto nei Paesi più popolosi, era difficile da gestire. La dottrina del multiculturalismo naturalmente incoraggiava un certo grado di separazione. La cultura implica il desiderio di vivere con i tuoi simili. Dati la situazione economica degli immigrati in tutto il mondo, l’inevitabile esclusione che forse involontariamente è insita nel multiculturalismo e il desiderio di stare nel proprio gruppo, i musulmani si trovarono a vivere in condizioni di forte squallore e sovraffollamento. Tutt’attorno a Parigi è pieno di palazzoni abitati dai musulmani, separati dai francesi che vivono altrove.
Questi omicidi non hanno nulla a che fare con la povertà, naturalmente. I neo-immigrati sono sempre poveri. Per questo emigrano. E finché non imparano la lingua e i costumi delle loro nuove patrie, restano sempre estranei ghettizzati. È la generazione successiva a confluire nella cultura dominante. Ma l’aspetto infame del multiculturalismo era il suo effetto di perpetuare l’isolamento musulmano. Né era intenzione dei musulmani diventare cittadini europei, anche se avessero potuto. Sono venuti per fare soldi, non per diventare francesi. La superficialità del sistema valoriale europeo del dopoguerra è sfociata nello horror show dello scorso gennaio a Parigi.
Il ruolo dell’ideologia
Ma, mentre gli europei hanno particolari problemi con l’islam, e da oltre un millennio, c’è una questione più generale. Il cristianesimo è stato sfrondato dal suo zelo evangelico e non impugna più la spada per uccidere e convertire i suoi nemici. Una bella fetta dell’islam, invece, tale zelo lo conserva invariato. E sostenere che non tutti i musulmani condividono questa visione non risolve il problema. Quelli di loro che sono mossi da tanto fervore sono sufficienti a mettere in pericolo la vita di chi disprezzano, una tendenza violenta che non può essere tollerata da entrambi i loro obiettivi: gli occidentali e gli islamici che si rifiutano di sottoscrivere un ideologia jihadista. Né esiste modo di distinguere chi potrebbe uccidere da chi non lo farà. Forse la comunità musulmana sarebbe in grado di operare una simile distinzione, non certo un poliziotto europeo o americano di 25 anni. E i musulmani o non sanno o non vogliono viglilare su se stessi.
Eccoci dunque in stato di guerra. Il primo ministro francese Manuel Valls l’ha definita una guerra contro l’islam radicale. Se soltanto costoro indossassero uniformi o portassero distintivi, combattere solo gli islamisti radicali non sarebbe un problema. Ma, con buona pace di Valls, il mondo può giusto decidere se accettare continue aggressioni o vedere l’intera comunità islamica come una potenziale minaccia fino a prova contraria. Si tratta di scelte terribili, ma la storia ne è piena. Dichiarare guerra agli islamisti radicali è come dichiararla ai seguaci di Jean-Paul Sartre. Che aspetto hanno, esattamente?
L’incapacità dell’Europa di venire a patti con la realtà che ha creato con le proprie mani riguardo a questa e altre questioni, non le impedisce di accorgersi che vere e proprie guerre si stanno combattendo in molti Paesi islamici. La situazione è complessa, e la moralità è semplicemente un’altra arma per dimostrare la colpevolezza altrui e la propria innocenza. La dimensione geopolitica del rapporto dell’islam con l’Europa o l’India o la Thailandia o gli Stati Uniti, non ha nulla a che fare con il moralismo.
Qualcosa deve essere fatta. Non so cosa, ma temo di sapere quello che succederà. In primo luogo, se è vero che l’islam si limita a rispondere ai crimini contro di esso, questi non sono nuovi e di certo non sono originati dalla fondazione di Israele, dall’invasione dell’Iraq o da altri eventi recenti. Risale tutto a molto prima. Per esempio, gli Assassini erano un ordine islamico segreto per aggredire le persone che consideravano musulmani eretici. Non c’è nulla di nuovo in ciò che sta succedendo, e non avrà termine se la pace arriva in Iraq, se i musulmani occupano il Kashmir o se Israele viene distrutto. Né il mondo islamico sarà spazzato via dal secolarismo. La primavera araba è stata una fantasia occidentale, l’illusione che il crollo del comunismo del 1989 si potesse ripetere nel mondo islamico con gli stessi risultati. Esistono sicuramente liberali musulmani e laici. Tuttavia, essi non controllano gli eventi – nessun singolo gruppo lo fa – e sono gli eventi, non la teoria, a plasmare la nostra vita.
Il senso di nazione dell’Europa è radicato nella comunanza storica, nella lingua, nell’etnia, e anche nel cristianesimo o nel suo erede, il laicismo. Sono queste cose, e non altre, a comporre il concetto europeo di nazione, e i musulmani non ne condividono neanche una. È difficile immaginare un’evoluzione che non comporti un’ulteriore tappa di ghettizzazione e deportazione. Ora ciò appare ripugnante alla sensibilità europea, ma non è certamente estraneo alla sua storia. Incapace di distinguere tra musulmani radicali e moderati, l’Europa si muoverà sempre più in questa direzione.
Paradossalmente, è proprio ciò che i musulmani radicali vogliono, poiché rafforzerà la loro posizione nel mondo islamico in generale, in Nordafrica e in Turchia in particolare. Ma la scelta alternativa di non rafforzare gli islamisti dovrà convivere con la minaccia di essere uccisi da loro. E l’Europa non la sopporterà a lungo.
Forse qualcuno inventerà un dispositivo portentoso che ci permetterà di leggere la mente delle persone per determinarne l’ideologia. Ma, vista l’indignazione con cui molti occidentali hanno appreso che i governi spiavano le loro email, dubito che ne permetteranno l’uso; soprattutto tra un paio di mesi, quando la strage sarà dimenticata e gli europei si autoconvinceranno che gli apparati di sicurezza stiano soltanto cercando di opprimerci tutti. Mai sottovalutare il potenziale oppressivo delle forze di sicurezza…
Sotto questo aspetto, gli Stati Uniti sono diversi. Si tratta di un regime artificiale, non naturale. È stato inventato dai fondatori in base ad alcuni princìpi ed è aperto a chiunque li accetti. Il nazionalismo dell’Europa è romantico, naturalistico. Dipende da legami che affondano nei millenni e non possono essere spezzati facilmente. Ma l’idea di princìpi condivisi diversi dai propri è offensivo per chi è religioso, ovunque, e in questo momento storico soprattutto tra i musulmani. Questa è una verità che deve essere affrontata.
Il Mediterraneo come confine era un luogo di conflitto ben prima che esistessero cristianesimo e islam. Rimarrà tale anche se entrambi perderanno la forza delle loro convinzioni. È un’illusione credere che i conflitti radicati nella geografia possano essere aboliti. È altrettanto sbagliato essere così filosofici da astrarsi dall’umana paura di essere assassinati alla scrivania per le nostre idee. Stiamo entrando in un campo senza soluzioni. Dove però ci sono decisioni da prendere, anche se tutte saranno cattive. Ciò che va fatto si farà, e chi rifiuterà di farlo si sentirà più virtuoso degli altri. C’è una guerra, e come tutte le guerre, questa è molto diversa dalla precedente nel modo di condurla. Ma è comunque guerra, e negarlo significa negare l’evidenza.
(Traduzione a cura di “Etnie” dell’originale A War Between Two Worlds, con l’autorizzazione di Stratfor.)
N O T A
Interessante l’analisi – non distante da quella di Friedman se non per l’allargamento del piano religioso anche all’Occidente – proposta da Giuliano Ferrara sul “Foglio” già nel settembre scorso:
Guerra al terrore o al terrorismo va bene, se è per il marketing politico, ma nella definizione, peraltro respinta dai riluttanti e dagli umanitari in quanto espressione bellicista, sta un equivoco colossale.
Noi l’avevamo sospettato, e lo gridammo come atroce verità quando pubblicammo come un Caravaggio la testa mozzata di Nick Berg o raccontammo la storia di Daniel Pearl, decollati entrambi in nome del Misericordioso, ma è un sospetto scorretto, una verità intollerabile: è questa una guerra di religione, della cui ferocia ultimativa e coesiva, appunto religiosa, solo un fronte è consapevole, il loro. La madre dell’ultimo reporter ucciso in nome della giustizia divina si dice convinta che l’islam è stato tradito quando su ordine di un Califfo uno sgherro occidentale tutto vestito di nero, stufo probabilmente di fare il dj, ha impugnato la lama e ha tolto dal busto il collo di un figliolo d’occidente, e niente è proibito a una madre addolorata e trafitta senza pietà nell’amore che solo è suo. Ma non è così, lo sappiamo. È ideologico esorcizzare il rito del nemico, provarsi a diminuirlo, essere ciechi di fronte alla sua caratura feroce di bene in cui si specchia il nostro impietoso male. Bernardo Valli continua a insinuare analiticamente, ché l’analisi minuziosa e imparziale è spesso la maschera del pregiudizio ideologico contemporaneo, che tutto derivi dall’errore di George W. Bush, Cheney e Rumsfeld, che i nostri nemici li abbiamo creati sciaguratamente noi, che il Baath iracheno era laico e ora i suoi generali sconfitti militano con lo stato islamico per nostra responsabilità, che il campo profetico maomettano non è fatto di nemici in nome di Dio ma di una “stragrande maggioranza” di amici nostri che vorrebbero non il Califfo ma un qualche dialogo interreligioso. La buona intenzione c’è tutta, per un commentatore corretto e di sinistra, ma non è così, lo sappiamo.
Piacerebbe a tutti noi poter pensare che il patibolo nel deserto sia una macabra messinscena, uno spettacolo di violenza demenziale e cieca, invece è una rappresentazione corrusca, che lascia balenare un suo fuoco luminoso e insieme accecante. Con Hollywood e la televisione abbiamo sostituito l’epica con i supereroi, altra faccia dell’inconscio freudiano, ma la tremenda realtà dell’omicidio rituale, della morte inferta in nome di Dio, quando l’uomo si fa agnello e il lupo lo azzanna, quando l’angelo caduto si fa vivo in questo mondo, supera la nostra immaginazione agnostica, il nostro benedetto spessore liberale e commerciale, e taglia tutti i ponti. È un crudele gioco di intimidazione in cui la palma della vittoria in battaglia è già conquistata dall’islam, la religione che ha tappato la bocca a un Papa di Roma, che ha reso riluttante e timido un potere imperiale e internazionalista come quello americano. So di dire qualcosa di sconcertante, ma non si risponde a questa altezza di sfida e a questa brutalità santificante con lo stato di diritto, con un’idea di polizia internazionale, con la denuncia della violenza; l’unica risposta è in una violenza incomparabilmente superiore.