La cultura “alta” non è finora stata in grado di pensare a un fluire da una forma all’altra, da un tempo all’altro, senza creare il concetto di frontiera. Cultura “alta”, cultura di classificazioni, di superamento: si articola in stacchi, diversifica, scandisce il prima e il dopo. Il vecchio che fluisce nel nuovo si fissa e perde le sue caratteristiche. Paura, angosce, timori, tutto viene cancellato nella speranza del nuovo.
Certo nemmeno la cultura “bassa”, quella popolare, ha risolto il problema; ma nel passaggio, nel concetto di fluire del tempo porta con sé le scorie, le tracce del vecchio. Gli stacchi, i momenti, le riflessioni che aprono al futuro hanno la consapevolezza di recuperare il mosaico del passato e di prevedere il futuro usando le tecniche e i rituali magici della tradizione.
Il calendario contadino, quello progettato di cent’anni in cent’anni, legge le figure del nuovo sulla soglia della tradizione e forza una interpretazione che diventa progetto. Legge le tracce, i segni come formule, rituali di un’antica magica saggezza.
In qualche modo la vita quotidiana continua a muoversi come se il tempo fosse una misura naturale, successione di anni, di stagioni, di mesi, di giorni. Il tempo è quello della giornata solare con il campanile che suona da vivo e da morto; il tempo è quello delle notti che sognano rovine e frutti di quiete. Descrivere e ordinare questo tempo è compito dell’uomo. La misura di questo ordine è “soffrire caducità e sperare eternità”.
Racconta un’antica leggenda che un monaco, ripensando appunto al problema della caducità e al progetto dell’eternità, trascorresse un giorno il suo tempo passeggiando in un fitto bosco non lontano dal convento. Tanta era la sua angoscia che, pietoso, lo ristorò il sonno. Al suo risveglio riprese la strada per il convento. Nulla era mutato: il paesaggio sempre uguale e sempre uguali le mura che circondavano il convento. Solo gli uomini non lo riconoscevano. Uno dei monaci disse: “Chiedi ai libri che stanno da secoli nella biblioteca del convento, loro ti diranno se la tua storia è esistita.” Il monaco lesse. C’era stato uno come lui che era andato e non più tornato.
Gli Swendtage, tempi di passaggio
La tradizione nomina e racconta questi buchi neri della memoria, luoghi di passaggio dove il ricordare e il prevedere è interdetto: sono gli Swendtage, i giorni fatidici della tradizione sudtirolese. Interessante è notare la radice di questa parola: nell’alto tedesco swi-tan significa “diminuire, consumarsi, cedere”, e nel medio tedesco swenden ha il significato causativo di “far sparire, distruggere, sradicare, estirpare, inaridire”.
Cosa si deve fare in questi giorni? Ci sono regole e rituali precisi, alcuni riferiti al ciclo lunare: nella fase crescente si ha successo in tutto quello che riguarda la crescita sia dei capelli che dei bimbi piccoli, che delle piante. Il contrario in fase calante.
La relazione tra fenomeni naturali e cosmici è evidente. Ma più interessante è la lunga serie di “non”. Non si deve intraprendere un viaggio, non costruire uno steccato, non portare il bestiame all’alpeggio, non far coprire la mucca dal toro, non tagliare la paglia o il fieno, non impastare o cuocere il pane, non uccidere il maiale, non piantare nuove piante. Chi si sposa in questi giorni avrà un matrimonio infelice, i figli che ne nasceranno saranno preda del diavolo; chi si ferisce rischia di morire, chi pratica un salasso morirà svenato. Tutto ciò che verrà iniziato si consumerà, cadrà, sparirà, verrà distrutto, sradicato, estirpato.
Ci sono però malattie che hanno le caratteristiche di questi giorni e in questi giorni si possono curare e far sparire.
Fra queste, le più importanti sono il rachitismo o male inglese che rende aride, secche e deformi le membra, e la tubercolosi che consuma e distrugge. Per curare queste malattie le ricette popolari usano gli stessi accorgimenti che si trovano nella magia rituale. Le formule sono quelle dello sparire, del seccare. Una delle più usate è far passare il malato attraverso uno stretto pertugio, un buco in una casa diroccata, sotto uno steccato o nella
spaccatura di un albero. La malattia viene estirpata dal contatto e rimane attaccata al passaggio. Naturalmente lo steccato, l’albero, la casa si ammaleranno della malattia dell’uomo e in breve saranno distrutti, sgretolati, rattrappiti, consunti. Non solo vengono accuratamente annotati i giorni fatidici, ma nel corso della giornata ci sono ore particolarmente segnate.
Come per le malattie, anche per i casi della vita, si può però usare di queste forze a proprio favore. Si racconta che un contadino della Val del Talvera un giorno d’inverno si rivolse al vicino per chiedergli aiuto. Voleva tagliare gli alberi e rinnovare il pavimento della stube, ma i suoi servi e figli, anche se numerosi, non gli bastavano per fare il lavoro in fretta. Poi, ancora più strano, non si diresse al bosco presto, al mattino, ma attese, con l’orologio in mano, lo scoccare del mezzogiorno. Alla prima ora diede ordine di abbattere gli alberi. Alla seconda di tagliare i rami. Alla terza di portare i tronchi in segheria. Alla quinta si cominciò a
segare e, ancora in serata, le assi, verdi, vennero messe in opera nella stube. Quelle assi non fecero una crepa né si imbarcarono, né allora né mai. Era l’11 di dicembre, giorno nel quale le piante tagliate seccano e così fanno gli arti degli uomini che, se colpiti da qualche attrezzo, diventano duri e rigidi come il legno, e questo principalmente nelle ore dal mezzogiorno alle cinque: ore fatidiche in giorni fatidici. Certo si dice che anche Giuda Iscariota fosse nato in uno di questi giorni, e fu proprio l’11 di dicembre che Dio Padre precipitò gli angeli cattivi nell’inferno; e in uno di questi giorni Sodoma e Gomorra vennero annientate dal fuoco e dallo zolfo.
Ma quali sono, oltre all’11 di dicembre, questi Swendtage, pericolosi, malefici, ma anche in grado di sciogliere nodi e malattie? Primi fra questi ci sono il martedi e il giovedì-venerdì di ogni settimana. È interessante notare come la tradizione nordica ponga il giovedì come giorno fatidico, mentre la tradizione mediterranea parli di venerdì (né di venere né di marte non si sposa, non si parte e non si dà principio all’arte).
Il martedì è giorno di guerra — martedì o Ertag — giorno del dio guerriero Ares. L’altro giorno segnato dal fato è il quinto giorno della settimana (pempte hemera): contando dalla domenica, il giovedì; contando dal lunedì, il venerdì. La voce dialettale tirolese Pfinztag per giovedì — dove pfinz significa cinque — confermerebbe questa tesi. Nella tradizione nordica è comunque sempre il giovedì il giorno delle streghe dei sabba. In alcune valli del Sudtirolo il giorno segnato dal fato per eccellenza è il sabato, ma con accezione positiva.
Oltre al martedì, giovedì o venerdì e al sabato e le feste del calendario contadino segnate mese per mese (42 martedì, 42 giovedì o venerdì, 186 fra sabati e feste), dei 365 giorni dell’anno ne rimangono solo 95 nei quali si può in tutta tranquillità intraprendere il nuovo. Anche qui si potrebbe tentare una lettura: il nuovo fa paura e deve venir esorcizzato in qualche modo. La saggezza contadina usa per il tempo la stessa misura che ha usato per lo spazio: crea dei limiti, delle frontiere e su queste costruisce le sue sicurezze.
Mandlkalender, il calendario delle persone
Sullo stesso principio è basato un antico calendario sudtirolese del quale parla anche il poeta Oswald von Wolkenstein. Per il mese di novembre i versi suonano pressappoco così: “Tutti i santi voglio festeggiare/dalla prigione Leonardo libera coloro che sono legati/beve il vino San Martino/mangia l’oca Otmar/sempre ricordiamo santa Elisabetta”.
Si tratta dei giorni 1 (Tutti i Santi), 6 (San Leonardo), 11 (San Martino), 16 (Santo Otmar), 19 (Santa Elisabetta), e intorno a queste figure si organizza tutto il mese con le sue scadenze.
La lettura può essere quella di festeggiare i santi: Leonardo, che libera fisicamente dalla prigione e anche dai legami, dai debiti e dagli impegni; San Martino e le feste del raccolto, l’uccisione sacrificale dell’oca dedicata a Otmar e poi tutte le uccisioni rituali di animali per l’inverno, primo il maiale. L’ultimo segnale, quello riferito a Santa Elisabetta, cugina di Maria, ci porta verso il dicembre e le feste dell’Avvento.
Il nome Mandlkalender, “calendario delle persone “, sta appunto a significare l’indicazione, coagualata su alcuni personaggi, di un comportamento di vita riferito a una civiltà contadina.
Holzkalender, il calendario a tavolette di legno
Lo stesso ordine trovato nel calendario del Wolkenstein lo abbiamo nei due meglio conservati calendari sudtirolesi antichi. Lo Sternbacher di Brunico e un calendario trentino, entrambi del XVI secolo.
Il calendario dello Sternbacher è costituito da dodici tavolette di legno delle misure di 5,1 x 11,4 con figure incise. Nella parte alta di ogni tavoletta sono segnati i giorni festivi e i mercati della zona di Bressanone. I santi non vengono nominati se non con il loro simbolo (per esempio, tre corone per i Tre Re, la falce per Santa Notburga, il maiale per Sant’Antonio) e cosi termina il mese di gennaio. Nella parte inferiore delle tavolette ci sono i dati che si riferiscono al ciclo lunare e, bene in evidenza, i giorni segnati dal fato, gli Swendtage, dei quali si è raccontato.
Tempi di semina, tempi di raccolto
Ci sono poi previsioni del tempo e date relative alle semine e ai raccolti dei prodotti più in uso. Un vero calendario contadino, insomma.
Il calendario della zona di Trento è invece regolato su un tempo di lavoro probabilmente di miniera e sui rituali relativi. Una specie di calendario operaio quindi.
L’immagine comune ai due calendari è quella della luna e delle sue fasi. Luna non solo il primo morto, ma anche il primo morto che resuscita, intreccio di angosce da sparizione e speranze del ritorno, regolarità che diventa nello stesso tempo immagine e norma, ripetizione di un evento originario che garantisce il cammino regolare dell’universo.
Nascite, morti, tracce, segnali giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.
Ma i grandi tempi del calendario contadino, i due ritmi che fanno pulsare una dimensione di tempo che si chiama anno sono ancora la semina e il raccolto. Il Tempo, quello che c’è e che non occorre misurare, è il serpente che si morde la coda, mentre la Morte, quella con la falce, è la coscienza del limite, della barriera-frontiera dell’irreversibile.
E sulla Morte, o meglio sui morti, si apre il calendario contadino che iniziava in novembre, con i riti del raccolto: “Giusto è festeggiare i morti per il raccolto perché proprio loro è il regno sotto la terra, il ventre della madre, dove i semi diventano piante”.
Una volta, si racconta in Sudtirolo, nel mese di novembre i morti lasciavano il loro regno di tenebra e tornavano a casa. Per segnare loro la strada, ché il lungo sonno li aveva straniati, si spargevano papavero e miele. Nella stube ben riscaldata si lasciava un posto sulla panca e una luce alla finestra. Il contadino e la sua gente andavano a letto presto e nella stube illuminata e calda si imbandiva una tavola con mosa, latte e Krapfen dolci.
La mattina del giorno dei morti ci si alzava presto dal letto per lasciare un posto al povero defunto. Chi si dimentica di questo atto di pietà sentirà battere alla finestra l’anima e chiamare con la voce del vento: “Vieni, sei mio”.
Le notti di novembre sono notti di profezie: la serva del maso potrà trovare marito; chi saprà scrutare nel piombo fuso ci vedrà il proprio futuro; chi saprà ascoltare le indicazioni e i segni troverà tesori. A San Leonardo si pagheranno i debiti, a San Martino si firmerà un nuovo contratto agricolo, a Santa Elisabetta si farà il fidanzamento, e tutto ciò sotto l’occhio vigile e benefico dei morti che si mescoleranno alla gente fra le maschere dell’Avvento, e poi torneranno calmi e placati a custodire i semi delle piante, sottoterra, nel grande ventre della Madre. Riti di novembre per propiziarsi i morti, padroni dei regni sotterranei, riti di primavera per propiziarsi il sole e gli abitanti dei regni di sopra. Passato è il grande corteo del carnevale con le maschere, l’inverno è stato bruciato, i campi fecondati con i bastoni da matrimonio. Dalle cime dei colli si lanciano verso il sole piccoli dischi infuocati a richiamare la sua attenzione benefica. Sono i cidules, dischi di betulla infuocati che si fanno ruotare per mezzo di un bastone sulle pietre da sacrificio. Altro non è rimasto di questo rito, ma il fuoco ha ancor oggi il suo culmine nella notte di San Giovanni. Si narra: “Nella notte di San Giovanni, rossa dei fuochi rituali, fioriscono le miniere d’argento”.
Il ciclo continua nell’eterno fluire. Anno nuovo: previsioni, speranze. Anno vecchio: papavero e memoria.
NOTE
Sulla tradizione popolare sudtirolese si vedano: Hans Fink, Verzaubertes Land, Tyrolia, 1983. Johann Adolf Heyl, Volkssagen, Bräuche und Meinungen aus Tirol), Brixen, 1897.
Richard Staffòler, Totenbräuche in Südtirol, Schlern, 1956.
La rivista “Schlern” nelle annate dal 1946 al 1968.
Gli accenni sui calendari locali, sia quello dei Mandi che l’Holzkalender, fanno parte di una ricerca dell’autrice (di prossima pubblicazione).
Pubblicato nel 1984 su: