La ribellione della montagna di Parma e Piacenza dovette estendersi, sia pure in forma assai più ridotta, anche in altre aree dell’Emilia-Romagna, e specie nelle Legazioni già appartenenti allo Stato pontificio, se a Bologna in quello stesso 1805 fu istituita una Commissione Militare. Ma nella montagna bolognese scoppierà quella che viene chiamata la “seconda insorgenza” degli emiliani contro Napoleone nel biennio 1809-10. Infatti, nel 1809 la campagna militare napoleonica contro l’Austria, pur avendo il suo principale teatro nella Baviera e nell’Alta Austria, interessò anche il territorio al di qua della catena alpina, suscitando le insurrezioni del Tirolo (capeggiata dal famoso sudtirolese Andreas Hofer, detto il “generale barbone”), del Trentino (guidava gli insorti Berardino Dalponte), del Veneto (Padova, Rovigo, Vicentino e Verona; pena capitale per i due capi, Giovanni Enrico Triesti e Giuseppe Pelizzoni); della Val Camonica e Valpadana in genere. Le insurrezioni quindi interessavano “dipartimenti” dell’Adda, del Serio, del Mella, dell’Adige, del Bacchiglione, del Basso Po, del Reno, del Panaro nella sua zona montana, del Crosiolo e del Tronto. Per quanto riguarda il Bolognese, la prima scintilla della seconda insorgenza scaturì a Marzabotto, dove il fabbro Gaspare Paglioli, di Gaetano, ventinovenne, celibe, nativo di Savigno, aveva predisposto un vasto piano insurrezionale che non potè guidare in quanto, per una delazione, fu sorpreso nella propria abitazione il 1° maggio 1809. Giudicato colpevole, viene condannato a morte e decapitato il 13 settembre, quando il moto insorgente dilaga per tutto il dipartimento del Reno (distretti di Bologna e di Vergato).
Se l’insorgenza aveva ripreso fiato nel marzabottese, nell’aprile-maggio 1809, per opera di Gaspare Paglioli, nel luglio dello stesso anno l’uomo guida di tutto il movimento sarà Giacomo Mazzetti, coetaneo del Paglioli e nativo di Sibano, località molto vicina a Marzabotto. Alla sua banda si deve il primo rilevante fatto d’armi, l’occupazione di Porretta Terme, ai confini della Toscana, il giorno 9 e seguenti di luglio: furono abbattuti gli stessi sovrani, svendute le pubbliche derrate, come i sali e i tabacchi, il cui ricavato veniva destinato al vitto dei componenti la banda stessa; i documenti e i mobili della municipalità gettati al rogo. Un anziano luogotenente del Mazzetti, Giuseppe Peri, 63enne “perito agrario”, ex insorgente del 1799 nativo di Monte Tortore, aveva l’incarico di provvedere al pagamento degli insorti e al loro vitto. Entrambi furono condannati a morte con sentenza del 12 agosto 1809.
Il secondo grave fatto si ebbe, più o meno negli stessi giorni, a Vergato, cittadina capo-distretto; i capibanda più noti della zona erano i Vicinelli, provenienti da Sperticano: il padre Sebastiano (63 anni) e i due figli Bartolomeo e Gaetano; e Domenico Chinni (o Chini), 24 anni, proveniente da Affrico. A Vergato si ebbero gli stessi fatti accaduti a Porretta. Sebastiano Vicinelli cadde in battaglia contro la Guardia Nazionale nel dicembre; la sua testa tagliata venne esposta a Bologna a monito dei “malvagi”; i due figli si costituiranno nel marzo 1810. Il 31 gennaio 1810 veniva eseguita in Bologna la condanna a morte di Luigi Chinni e del figlio Domenico.
Il terzo episodio saliente della ribellione nel dipartimento del Reno ebbe come obiettivo il comune di Sasso e i suoi dintorni, che videro le scorrerie di bande guidate da due paesani di Vedegheto, Battista Franchi, di 53 anni, nullatenente, e Giuseppe Dondarini, di 42 anni, contadino, ma trovarono resistenza da parte della popolazione. Vi furono pure tre luogotenenti del Mazzetti, che continuarono la guerriglia dopo che il loro capo era stato catturato pochi giorni dopo lo scoppio insorgente a Porretta e Vergato: il più famoso di essi è Bartolomeo Gnudi, di Sibano, detto al gobêj, catturato nell’aprile del 1810; di altri due, Gorzi e Minalli, definiti “i due fidi del Mazzetti”, conosciamo soltanto i cognomi: Gorzi e Minalli. Altri due famosi capibanda della Bassa bolognese furono i fratelli Prospero e Procolo Baschieri di Vincenzo (pure insorto) e Giacomo Lambertini, attivi sino ai primi mesi del 1810. 1) Nel dipartimento del Panaro, il disertore Giuseppe Muzzarelli, detto Comini, personaggio di rilievo dell’insorgenza in quella zona, agiva sovente di comune accordo con i capi-ribelli del Bolognese. Infatti le bande unite di Lambertini, Baschieri e Comini avevano occupato nell’ottobre 1809 Vignola, nel Modenese, dove il primo cadeva in combattimento. Nell’aprile del 1810 l’insorgenza sembrava del tutto stroncata nel Modenese; le amnistie e gli interventi di grossi contingenti di truppa rappresentavano la fine degli ultimi capibanda: i Baschieri, Gozzi, Patella. Francesco Petroncini, detto al Falchêt, fu catturato a tradimento facendogli bere vino oppiato.
Il clero diviso
Napoleone, in occasione delle sue nuove nozze con l’arciduchessa austriaca Maria Luisa, accordava un’ulteriore amnistia, generosa di inviti e promesse anche nei confronti dei vecchi refrattari. Nel
maggio 1810, nel Budriese, veniva annientato in uno scontro armato l’ultimo grosso contingente di insorgenti. Il “brigantaggio” andava allora riassumendo l’aspetto di fenomeno individuale cronico, alimentato da disertori e da renitenti alla leva. Scontri armati e condanne si ebbero comunque sino alla caduta di Napoleone nel 1814.
Come nella prima insorgenza del triennio 1796-99 e in quella della montagna piacentina e parmigiana dell’inverno 1805-06, una buona parte del clero di montagna si schierò con gli insorti, mentre l’alto clero si sforzava di dimostrare il proprio lealismo dichiarando i briganti e i disertori nemici delle massime evangeliche: le citazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, nonché quelle di brani delle lettere di San Paolo (specie “Romani, 13”) e degli scritti di S. Agostino, venivano usate allo scopo di dimostrare e ribadire come un buon cristiano dovesse rendere obbedienza all’autorità. Numerosi furono i sacerdoti accusati di essere capibanda, come don Giovanni Bartolini, da Castelluccio, di 46 anni: arrestato, dovette rinunciare all’abito talare per un diretto intervento dell’arcivescovo Opizzoni, e fu condannato a morte nel novembre 1809 (un suo parente, Francesco Antonio Bartolini, fu catturato molto più tardi e giudicato nel 1813, con l’accusa di aver fatto parte della “banda del prete”). Don Alessandro de’ Franceschi, 74 anni, da 45 parroco di Montàsico, accusato di aver concertato con il capo degli insorti, Mazzetti, un assalto a Bologna, fu giustiziato con lui e con il Peri. Don Giovanni Giovanelli, nativo di Vidiciatico, parroco di Montesevero, 54 anni, aveva scritto un proclama la cui diffusione aveva affidato al Mazzetti, invitando la popolazione a insorgere contro il tiranno: sarà anche lui decapitato a Bologna il 9 settembre 1809. Don Pietro Bettinelli, sacerdote di Capugnano, 29 anni, presente a Porretta, ricopriva il ruolo di “cappellano” dei ribelli. (Suo fratello Clemente Bettinelli, fabbro ferraio, poco più di 20 anni, “refrattario alla leva”, si distinse negli “atti rivoluzionari” compiuti durante l’occupazione di Porretta; anch’egli sarà catturato più tardi, e giudicato soltanto nel 1813; partecipò a un tentativo di sconfinamento in Toscana, nella zona montana del Pistoiese dove, a Fracchia, aveva bruciato l’ufficio doganale.)
Se non ci sono prove di un appoggio fornito dagli amministratori locali ai ribelli della montagna degli ex-Stati parmensi nel 1805-06, si può invece affermare che alcuni funzionari napoleonici parteggiarono per gli insorti. Con il parroco De’ Franceschi, era a Vergato nel luglio 1809 anche il sindaco di Montasico, Pietro Vivarelli, di 45 anni, colpevole di non aver ostacolato il tumulto sorto ai primi di quel mese nel proprio Comune e di essere disceso sulla suddetta località alla testa e al fianco dei suoi concittadini: era infatti tutto il villaggio che si muoveva al seguito delle due principali autorità. Il sindaco tuttavia non fu condannato a morte (come invece il parroco) ma soltanto destituito dalla carica, poiché riuscì a provare di essere stato travolto dagli eventi contro la sua volontà. Se pertanto ci sono dubbi sull’adesione di questo sindaco al moto insurrezionale, non così su un altro caso finora non conosciuto, quello di un sindaco originario della Croara (oggi frazione di S. Lazzaro di Sàvena), Luigi (Petronio) Vitali, il quale teneva ben tre dei suoi figli renitenti alla coscrizione nascosti in casa, e aiutava in ogni modo possibile gli altri giovani del paese che erano nella stessa condizione. Denunciato da una spia, subì una perquisizione nel corso della quale, venuto a diverbio con un soldato francese, fu da questi ferito con la spada. Scampato al pericolo, si dimise dall’incarico adducendo a scusa la grave età e la malferma salute. La figlia Marietta proprio in quel 1810 andò sposa a un insorgente, Pippo (Filippo) Negroni, sarto della famiglia dei Negroni, armaioli abitanti a Ca di Mazza, parrocchia di Brento (oggi frazione di Monzuno). Il Negroni, nell’anno precedente, con un gruppo di circa 25 ribelli, aveva partecipato a un’azione contro un forte contingente di francesi mandati a rastrellare la zona: dopo aver perduto numerosi uomini in un’imboscata sul monte Adone, costoro vennero sorpresi dagli insorti in un’osteria (probabilmente di Brento) dove con l’ufficiale che li comandava furono tutti uccisi. Nello scontro il Negroni riportò una vasta ferita da sciabola al volto. Quella banda di ribelli aveva rifugio nella “Grotta delle Fate”, alle falde del monte Adone, nel cantone di Sasso, distretto di Bologna. 2)
Emiliani contro Napoleone: i motivi scatenanti
Le cause immediate dell’insurrezione montanara nei ducati di Parma e Piacenza e poi nel Bolognese, vanno indubbiamente individuate nei due provvedimenti presi dai “nuovi padroni”, gli occupanti francesi, subito dopo l’annessione: la coscrizione obbligatoria e le leggi delle dogane. Sino ad allora l’esercito era composto da volontari: fare il soldato era un mestiere come un altro (e tornerà a esserlo con la Restaurazione). Napoleone aveva bisogno di uomini e sfruttò, con la leva obbligatoria, il concetto rivoluzionario di “esercito nazionale” (e cioè di “popolo armato”, perché “liberato”) acquisito appunto con la Rivoluzione dell’89. Ma se il sentimento “nazionale” poteva essere un buon supporto in Francia, così non era in Italia dove le guerre non erano mai state “sentite”, ma subite come catastrofi, gratuite come la carestia e la peste. Pertanto, quando il viceré Eugenio si accinge a reclutare forzosamente il contingente assegnato agli ex-ducati – ben 12.000 uomini – per far fronte alle velleità di riscossa degli austro-russi nell’Italia meridionale, i “rastrellati”, che neppure conoscevano la ragione del loro “arresto” e il loro destino, si ribellarono, appunto, a Castel San Giovanni da dove la sommossa sarebbe partita per risalire le valli di provenienza.
L’altra ragione è di ordine “fiscale”: l’armata napoleonica, per il proprio sostentamento, aveva requisito senza riguardo, oltre agli uomini, anche i beni. Le nuove leggi ora prescrivevano il
sequestro anche degli animali: cavalli e muli, indispensabili per la vita in montagna, il lavoro, il trasporto, il piccolo commercio. Dopo i raccolti e gli uomini, ora venivano portate via anche le bestie: era decisamente troppo! Ciò spiega perché, tra i rivoltosi, vi saranno numerosi mulattieri.
La storiografia ufficiale ha sempre guardato con molta diffidenza alle rivolte montanare e contadine contro i francesi. Da “destra”, erano mal viste in quanto ritenute particolaristiche, essenzialmente contrarie alle premesse risorgimentali unitarie che, innestandosi sulla Rivoluzione francese, in quegli anni si andavano tessendo da parte della borghesia illuminata e degli intellettuali. Da “sinistra”, mentre i moti contadini dell’89 sono ritenuti importanti tappe della liberazione dal giogo feudale, dopo quella data, essendo stati strumentalizzati dalla nobiltà estromessa dal potere dalla borghesia emergente, sono visti come moti “controrivoluzionari”, clericali, antiprogressisti. Insomma, la Vandea. 3) Da parte moderata, c’è anche stato un tentativo di recuperare la prima insorgenza (1796-1799) sotto il profilo risorgimentale, scorgendovi i primi sintomi della unificazione morale degli italiani. 4)
A noi sembra di dover aderire, invece, alla valutazione espressa dal Giuntella 5) e dal Degli Esposti (autore della più lucida e puntuale storia, purtroppo inedita, dell’insurrezione nel Bolognese), per cui è soprattutto necessario compiere un’analisi delle cause politiche, sociali e religiose alla base della ribellione. Riteniamo si sia trattato, piuttosto che di un’aderenza al processo risorgimentale, di una ribellione attinente alla propria “nazione” sommersa e proibita, costituente quella società montanara cosi alterna (e poi subalterna) a quella cittadina; di quelle “nazioni” ben individuate nel disegno federalista che sarà propugnato, senza fortuna, da Carlo Cattaneo.
Come gli storici più esperti hanno oggi riabilitato il cosiddetto “brigantaggio” postunitario nelle province meridionali (1860-1865), riconoscendovi la disperata opposizione plebea al colonialismo e alle conquiste piemontesi, nonché allo Stato conservatore unitario qual era il nuovo regno d’Italia, così sarebbe doverosa una rivalutazione delle lotte contadine antifrancesi.
La società borghese era totalmente estranea alla cultura e alle strutture di quella montanara; in effetti, specie sulle Alpi, la gente della montagna ha tenacemente, per secoli, lottato contro il modello urbano che andava affermandosi prima nella struttura piramidale feudale, e poi nel mercantilismo della borghesia e della nascente industria, bisognosa di mano d’opera “gratuita” (in fabbrica e sui campi di battaglia) quanto ai nobili servivano i servi della gleba. Anche se la “titolarità” del nemico è cambiata (i “signori” prima; i “borghesi” emersi con l’89 e Napoleone, il loro “campione”, dopo), la società montanara resta “diversa” nella cultura e nelle lingue che l’esprimono. Diversa nelle strutture che presentavano ancora elementi residuali comunitari: la “comunità” essendo rimasta sempre ben più viva in montagna che non in città, dove si affermava il principio “ognuno per sé e Dio per tutti”. Diversa nella religione: anche se il “clericalismo” delle masse contadine (a Modena il 27 gennaio 1797 davanti al palazzo ducale, dove si era svolto il congresso che aveva deliberato la formazione della confederazione cispadana, un folto gruppo di popolani cercò di penetrare nell’aula dei lavori al grido di “Viva la religione”), un tempo invece simpatizzanti per gli eretici, appare un fatto “sovrastrutturale”, una ragione macroscopica di opposizione, una “bandiera” dei diversi (analogamente al ruolo di opposizione che rivestiva la Chiesa cattolica in Polonia)… La società montanara “diversa”, dicevamo, è pur sempre la medesima che insorgeva in Piemonte nel XIV secolo con Fra Dolcino, poi con il “tuchinaggio” e i Valdesi; in Trentino nel XVI con i “carneri” (gli “zaini”) e nel Veneto con i “rustici” collegati ai contadini tedeschi, traditi da Lutero ma non da Müntzer e dagli Anabattisti…
La causa remota, “mediata” attraverso le generazioni, della rivolta montanara nelle insorgenze antifrancesi del 1796-99, di quelle nei ducati dell’inverno 1805-06 e di alcuni dipartimenti nel biennio 1809-10, risiede dunque nella “diversità” dell’organizzazione sociale, nella “crisi di rigetto” verso gli occupanti, stranieri in tutto: nella lingua, nella cultura, nella religiosità (ché il “culto della personalità” portava Napoleone a un livello non certo inferiore al Papa, il quale fu infatti umiliato e obbligato ad accettarne il volere), nell’ordinamento sociale. Forse soltanto Francesco Zanetti, tra gli studiosi parmigiani moderni, solidarizzò apertamente con gli insorti, aiutato in ciò certamente dalla sua formazione culturale cattolica, 6) ma soprattutto dalla sua sensibilità di poeta profondamente radicato nella sua terra. Il VII Canto della sua Canzone del monte (Rivoluzione francese. Spirito di libertà dei montanari) è appunto da lui dedicato al ricordo dei “nostri forti montanari così fieri e così pieni dello spirito di libertà, anche davanti la forza travincente ed opprimente di Napoleone”, perché “i nostri figli, così, sapranno essere forti e soprattutto sempre liberi come furono gli avi nostri e come siamo noi”.
Rivolgendosi al leone alato della vinta Venezia, il poeta della Val Ceno presenta il quadro della rivolta:
Dove più ascende folta e verde l’immensa boscaglia
da le dolci colline che baciano il piano fecondo
su per le strette gole, per l’erte dei monti scoscesi
tra la Trebbia impetuosa ed il Taro che scorre sonante
posa il tuo volo: un nido di libere aquile aspetta.
Vedi? Dietro le cime dei monti fiammeggia sanguigno
come un vampare acceso d’incendio e di fiamme lontane,
una vena di sangue è il tramonto silvano…
Ah, quale voce chiama su tutte le cose una triste
vicenda lacrimosa di duoli, di pianti e di morti?
Morte le genti sono che voce di vita non giunge
da i nostri casolari dispersi o aggruppati alle chiese?
Chi la frutta raccoglie? Chi monda dal mallo le noci?
Chi sprigiona dal riccio le tonde castagne morelle?
Vè riverso nel campo l’aratro sinistro scintilla
come bieco terrore di spada tra l’ombre omicide;
cadon sfatte le siepi, tralignan le fonti in pantano.
Ma le selve di nuovi clamori storniscon: tra il verde
scoppia secco il fucile, le buccine suonan, rintronano,
voce s’intreccia a voce, su l’erte divampano, fumano
accese le cataste di verdi ramaglie umidicce.
Ogni braccio diventa sostegno d’un’arma: ogni cuore
ira e vendetta mastica qual foglia d’amaro serpillo.
Qual maligno pensiero, qual triste consiglio respinge
lunge da i dolci nidi le spose fiorenti ? Qual mano
da le case divelle i tremuli vecchi e i fanciulli?
Parola è ognun sul labbro: morire, morire, ma liberi:
forse che noi nascemmo per essere strame a le voglie,
al capriccio, al ludibrio di un re travincente? Nascemmo
forse per essere come la canapa sotto la stretta
de la rude maciulla o come fuscello per via?
E via dispersi come la pula su l’aia dal vento?
Ah, non per questo! Il core che freme nel petto contende
a scettrate superbie il diritto d’opprimer le genti…
N O T E
1) Periodico “Redattore del Reno”, 14-10-1809. E Relazione autentica dei recenti fatti per la distruzione del brigantaggio nel Dipartimento del Reno, Bologna, Sassi, 1810, in appendice: Relazione sulla distruzione della banda del brigante Prospero Raschieri in Budrio.
2) Cfr. Il novello Giobbe. Vita romantica, vol. 1, Bologna 1874, pp. 12-37 (romanzo autobiografico anonimo, ma di Filippo Negroni, in religione padre Barnaba dei Minori riformati). Sulla famiglia di armaioli Negroni. cfr. N. Di Carpegna, Interrogativi anghiaresi, in “Diana-Armi”, aprile 1978, pp. 46-47.
3) Una rivendicazione moderna in senso “controrivoluzionario” è stata scritta da F. Leoni, Storia della controrivoluzione in Italia, La Spirale-Guida editori, Napoli 1975.
4) Cfr. F. Venturi, La circolazione delle idee, Atti del congresso di storia del Risorgimento di Roma; G. Lumbroso, La reazione popolare contro i francesi alla fine del secolo XVIII, in Atti del XX congresso dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1932. In questa interpretazione rientra anche la pur pregevole poesia di Luigi Vicini, in parmigiano, sul generäl Mossètta. Invece, la vecchia storiografia risorgimentale esprime giudizi assolutamente negativi sulla prima insorgenza (1796-99), cosi A. Omodeo (Difesa del Risorgimento, pp. 158-59) pur considerando quello un periodo in cui “la libertà pomposamente concessa, malamente mascherava il dominio straniero”.
5) V.E. Giuntella, L’Italia nel sistema napoleonico, in “Bibliografia dell’età del Risorgimento” (vol. I), Firenze 1971, sottolinea la divergenza fra gli interessi dei ceti popolari e gli obiettivi rivoluzionari.
M. De Felice (Studi recenti di storia del triennio rivoluzionario in Italia, in “Società” anno XII, n. 5) imputa ai moderati, artefici di una politica di gretta conservazione, la responsabilità di aver gettato le masse, che egli ritiene inizialmente ben disposte verso la causa rivoluzionaria, nelle braccia della reazione. La politica espoliatrice dei comandanti militari francesi, e il contributo del clero alle sollevazioni, sono invece evidenziate da V. Maturi (Partiti politici e correnti di pensiero nel Risorgimento, in “Nuove questioni di storia del risorgimento e dell’unità d’Italia”; e Interpretazioni del Risorgimento, cit. da V.E. Giuntella, in La rivoluzione francese e l’impero napoleonico, in “Bibliografia dell’età del Risorgimento”, (vol. I) Firenze 1971.
6) Francesco (Cino) Zanetti, nato a Carpadasco (Val Ceno, comune di Solignano Taro, PR) nel 1870, morto a Roma nel 1938. Poeta e giornalista. Si vedano le ristampe antologiche curate da Francesco Barili e più recentemente da Arturo Credali, e specialmente l’ultima: La Canzone del Monte e altre liriche, commento e note di Arturo Credali, Parma 1984. Cattolico militante, fraterno amico di Giuseppe Micheli e fedele collaboratore del suo periodico “La Giovane Montagna” e dell’omonimo movimento, seppe sfidare il potere del tempo nel poemetto Primo maggio classico e primo maggio moderno, pubblicato nel 1898 (l’anno della strage voluta dal Bava Beccaris a Milano e della reazione crispina) dove tra l’altro si legge (versi 131-134): “Io pe’l mio sangue, sangue venduto all’inutil mercato / di regali superbie, / io pe’l mio sangue, sangue disperso calpestato, costretto / da la legale infamia…”
BIBLIOGRAFIA
G. Natali, L’insorgenza del 1809 nel Dipartimento del Reno, in “Atti e memorie della deputazione di storia patria per l’Emilia e la Romagna”, a. XV, voL. II, Bologna 1936-37.
A. Varni, Bologna napoleonica, Bologna 1972.
F. Degli Esposti, L’insorgenza antifrancese degli anni 1809-1810 nella montagna bolognese, tesi di laurea Università di Piacenza anno acc. 1975-1976 (relatore prof. U. Marcelli).
L’articolo originale è stato pubblicato sul numero 17-18 – 1990-91 di “Etnie”