L’orografia valsesiano-ossolana ha fornito alla comunità alemannica un habitat ideale. Una regione autonoma est-penninica potrebbe salvaguardare questa e altre culture presenti nella zona.
Due avvenimenti socio-culturali di inizio e fine estate ’83 hanno definitivamente confermato la maturità della coscienza etnica di un popolo disseminato attraverso l’arco alpino centrale (Svizzera tedesca, Svizzera ladina, Canton Ticino, Voraalberg austriaco, Liechtenstein) in piccole comunità unite in una mirabile confederazione culturale di tipo trans-statale. Il Piemonte nord-orientale è stato teatro, prima, del Convegno internazionale di studio sulle popolazioni walser (Orta, Fondazione Enrico Monti, 4 giugno), nell’ambito del quale hanno svolto relazioni docenti universitari italiani, svizzeri ed austriaci, cercando di risolvere l’annosa “Walserfrage” e fondando la sezione italiana del Walserinstitut; e, successivamente, della cosiddetta “Walsertreffen”, il raduno triennale di tutte le comunità walser d’Europa (Alagna Valsesia, 26 e 27 settembre), che nonostante l’inevitabile mistificazione turistica ha dato appieno la misura della volontà autonomistica dei Walser, sfilati in 9.000 sotto un cielo turchino, mostrando fieramente la loro dissacrante allegria. L’orografia e la climatologia del Piemonte nord-orientale (dislivelli formidabili, valli strette e incassate, notevole estensione e copertura della morfologia glaciale, altissima piovosità) hanno offerto alla popolazione walser l’ambiente ideale per l’insediamento, poi per lo sviluppo e la conservazione delle strutture economiche e culturali che meglio hanno soddisfatto l’esigenza di estrema indipendenza rispetto al resto delle popolazioni alpine. Giova qui ricordare l’origine del processo di colonizzazione, del tutto contingente ma rivelatosi in grado di innescare una cosciente strategia socio-territoriale finalizzata alla perpetuazione di determinati valori giuridici nel massimo rispetto di quelli delle etnie limitrofe (Leponzi e Pedemontani). L’unione delle terre dei conti di Biandrate e dei signori di Viège, eredi dei feudi di Saas e San Nicolao, formò nel 1300 circa un unico dominio su tutte le vallate, italiane e svizzere, che circondano il monte Rosa, per consolidare il quale Gotofredo di Biandrate fece trasferire diversi Anzaschini nella valle del Saas e calamitò un numero pari di montanari vallesani, già legati ad una economia d’alta quota, al di qua delle Alpi. A Macugnaga i coloni “forzati” trovarono un buon terreno per la loro vita economica di allevatori e coltivatori, ma il gruppo di essi, tutt’altro che esiguo, amante della scoperta e insofferente nei confronti di certe imposizioni fiscali dei conti, si allontanò alla ricerca di nuove terre da dissodare. Fu così esplorato l’intero crinale delle Alpi Pennine, ad oriente del monte Rosa, che si erge tra questa cima ed il monte Capezzone; e vennero fondate, in Valsesia, Alagna nell’alta valle del fiume Sesia (1.200 metri), Rima nell’alta valle del torrente Semenza (1.400 metri), Rimella nell’alta valle del Mastallone (1.200 metri);
Campello Monti nacque come alpeggio estivo dei pastori di Rimella che superarono il passo della Bocca tra Valsesia e Valstrona. La stessa Ornavasso, nella contigua bassa valle del Toce, benché per tradizioni si consideri fondata da gruppi vallesani scesi direttamente dal passo del Sempione e arrivati sul posto seguendo il corso del fiume Toce, molto probabilmente non costituisce altro che l’ultima méta di quel percorso d’alta montagna dal Rosa verso oriente. Questo asse orizzontale a cavallo tra Valsesia e Val d’Ossola rappresenta il perno dell’intera colonizzazione nel Piemonte nord-orientale; la colonia nettamente più settentrionale di Formazza in alta Valle Toce ha avuto origine da gruppi diversi e provenienti, più o meno spontaneamente, da altre località dell’alto Vallese; la piccola comunità più meridionale di Bursch, nell’alta Val Cervo (Biellese), sembrerebbe il frutto dell’emigrazione verso sud-est della colonia aostana di Gressoney (di antica origine autonoma), la quale non è accomunabile pienamente ai paesi walser delle provincie di Novara e Vercelli, anche per la più spiccata salvaguardia delle tradizioni favorita dall’effettiva autonomia amministrativa della Val d’Aosta (il caso è parallelo a quello di Bosco/Gurin, nel Canton Ticino). Appare quindi evidente, nell’ambito della fascia principale e più consistente della diaspora walser, la volontà di utilizzare i pascoli d’alta montagna alla testata delle valli che si dipartono dalla più “feconda” (anche perché priva di terreni perennemente innevati come quelli dello spartiacque Rodano- Po) cresta alpina del Piemonte nord-orientale. I continui spostamenti della fase di colonizzazione, comportanti la decadenza e la scomparsa di alcune colonie alpine non più rispondenti alle esigenze originarie, sembrano confermare il prevalere di una struttura socio-politica tipica di un popolo nomade, cioè dalla lunga tradizione nomadistica: i Walser migravano continuamente, impiegando sofisticate tecniche di disboscamento e bonifica dell’alta montagna dovute alla specializzazione affinata attraverso i secoli e ancora completamente sconosciute ai contadini aborigeni abitanti in media e medio-alta montagna. Questo modus vivendi della lenta ma continua trasmigrazione da valle a valle costituisce l’arma migliore che ogni minoranza politico-culturale può adoperare per difendersi dal condizionamento, dal controllo o dall’aggressione da parte di entità politiche maggioritarie intenzionate ad estendere il più possibile la proprietà socio-territoriale e l’influenza etno-culturale. A tal proposito viene alla mente la parallela vicenda delle popolazioni di lingua tedesca dello spartiacque veneto-trentino: provenienti dalla Baviera (ma l’origine era sassone), si stanziarono sugli altopiani migrando successivamente da quello di Folgaria a quello di Lavarone, da Lavarone ad Asiago, da Asiago alla Lessinia vicentina e veronese.
Lontani dalle metropoli
Oltre all’ambiente fisico-geografico va tenuta in conto, come elemento favorevole alla conservazione attraverso i secoli della cultura walser (vedremo più avanti il suo spessore presente) nel Piemonte nord-orientale, la particolare posizione di quest’ultimo nel contesto della compagine geo-politica dell’Italia settentrionale. Poche altre zone italiane sono state così poco influenzate socialmente dal capoluogo dell’entità politica a scala regionale cui appartengono o hanno appartenuto. La marginalità ha caratterizzato questo territorio sia durante i secoli del dominio visconteo, sia durante quelli dell’appartenenza allo stato sabaudo. La stessa piemontesità di Valsesia e Ossola è ancora oggi molto discutibile (vi si parlano dialetti che, sul piano semantico, devono essere considerati lombardi) e qualche studioso afferma che non è mai esistita sino a quando il territorio è rimasto sottoposto al ducato di Milano. L’attuale capoluogo di regione, Torino, dista da Domodossola 190 chilometri, percorribili tra l’altro con una certa difficoltà lungo arterie stradali di livello secondario; più vicina, anche culturalmente, è senz’altro Milano, la quale in età contemporanea non si è mai interessata intensamente alle vicende dell’Alto Novarese perché questo appartiene ad una regione diversa da quella amministrata. L’Ossola si considera tuttora un’entità culturalmente autonoma e negli ultimi vent’anni l’UOPA (Unione ossolana per l’autonomia) ha fatto grandi battaglie per ottenere l’indipendenza politica. Da sempre, insomma, la provincia di Novara e la Valsesia (dipendente amministrativamente da Vercelli, ma gravitante sulla “fatale”) costituiscono una realtà geo-culturale contesa volta per volta dalla Svizzera, da Torino e da Milano, che più che un ibrido lombardo-piemontese si potrebbe senza timore definire una grossa minoranza etno-culturale proprio perché dotata di caratteri linguistici, semiologici, ergologici e animologici abbastanza originali rispetto al resto del Piemonte e alle regioni limitrofe. La vitalità del mondo walser a sud delle Alpi si può spiegare quindi anche in virtù della lontananza dai grossi centri di controllo; la mancanza di ingerenza diretta da parte di questi ha permesso ai Walser piemontesi di conservare intatti fino a poco tempo fa diversi elementi culturali, attraverso una determinata strategia nell’uso della terra, la discendenza “pura” grazie all’endogamia (tuttora la singolarità etno-fisiologica è attestata dalla prevalente brachicefalia, più elevata che in altri popoli alpini), la periodica introduzione di nuove colture per rispondere alla crescita demografica. La solida struttura del mondo walser piemontese ha iniziato ad incrinarsi tra fine ’800 e gli anni ’20 del nostro secolo in seguito all’emigrazione di alcuni individui in cerca d’avventura (la contingenza agro-pastorale non era delle più rosee, e d’altra parte la crescita dei mezzi di comunicazione cominciava a perturbare la volontà di isolamento delle frange walser non perfettamente inserite nel sistema sociale locale) verso città italiane ed estere, specie tedesche. In tali ambienti urbani venivano svolti lavori legati all’artigianato e si riscontrarono casi di Walser occupati a livello imprenditoriale direttivo, ma la coscienza etnica non sparì affatto in questi cittadini “elettivi” e la maggior parte di essi ritornava a sposarsi nel paese d’origine, dove trascorreva poi la vecchiaia. Il ventennio fascista, pur fermando l’emigrazione verso l’estero, ha favorito, con l’ossessiva e repressiva campagna di nazionalizzazione forzata delle diverse minoranze allogene sparse per il territorio italiano, l’oscurarsi della compattezza etnica dei Walser piemontesi e la progressiva perdita della conoscenza approfondita, da parte dell’intera popolazione, della lingua alemannica; le prime iniziative del turismo di massa cominciavano a violare la privacy socio-territoriale dei gruppi. Nel secondo dopoguerra hanno agito, nei confronti delle leve walser giovanili, potenti stimoli forzosi di parziale disaffezione alla propria terra, quali l’urbanizzazione e l’industrializzazione a tutti i costi, una politica didattica e scolastica tesa alla completa omogeneizzazione transregionale, una crescita edilizia a funzione residenziale e turistica del tutto irrispettosa delle tecniche e degli stili di costruzione (vedi parte di Alagna e parte di Macugnaga) vigenti da secoli sul territorio. Ciò nonostante i nuclei etnici dei paesi dell’asse Rosa-Capezzone non si sono disintegrati, tranne Campello Monti che da sempre aveva costituito l’entità più inquieta e bizzarra del mondo walser, e la cura con cui si conservano, si ristrutturano e si rifanno i sontuosi abiti femminili, il cui modello è ancora quello dell’antica stirpe, testimonia l’amore per i valori etnici originari. Come ammonivano più voci nei due recenti incontri, la ricucitura dei segni attuali di sfaldamento non può che partire da una nuova svolta bilinguistica che imponga lo studio e l’impiego del dytsch accanto all’italiano a Macugnaga, Alagna, Rima, Rimella. Lungo l’asse Rosa-Capezzone la situazione è peggiore che a Gressoney proprio per la mancanza di una condizione autonomistica di base come quella esistente nella regione della Valle d’Aosta. Ancora una volta va riproposto il tema della validità dell’autonomia microregionale per la tutela delle minoranze linguistiche. Non deve sembrare una tipica fissazione da modesto etno-geografo quale sono la personale convinzione che, soltanto grazie all’autonomia della Provincia di Trento, oggi come oggi possiamo entrare in una osteria di Luserna (altopiano di Lavarone) e sentire parlare da tutti l’antico “cimbro” degli altipiani. L’Alto Novarese (Valsesia ed Ossola) presenta una struttura etno-culturale parallela a quella del Trentino: c’è una grande varietà antropologica che contempla oltre alla minoranza di origine tedesca una comunità valdese (Vintebbio) ed una scozzese (Gurro). Le vicende belliche di questo secolo (repubblica partigiana dell’Ossola e resistenza valsesiana) non hanno fatto altro che ribadire la precisa volontà di autogestione del proprio patrimonio culturale da parte di questa fiera popolazione di montagna, portata per istinto e tradizione ad esercitare un saggio federalismo inter- vallivo. Alla regione Piemonte può bastare un piccolo museo, il pur interessante edificio walser di Pedemonte di Alagna contenente oggetti di cultura materiale, per ottemperare alla salvaguardia del patrimonio dei popoli minoritari sul suo territorio; una futura regione autonoma est-penninica si curerebbe di rivalorizzare tutti gli aspetti del tessuto etno-culturale walser, dall’architettura all’artigianato, dalla musica all’alimentazione, dal diritto alla mitologia, per dimostrare all’intera Europa che nessuna etnia del mondo, pur esigua e precaria, potrà mai diventare un museo.