Nella remota isola di Rapa si arriva esclusivamente a bordo del cargo Tuha’a Pae, che attracca ogni tre mesi (fino a una ventina d’anni fa la nave passava una volta l’anno). La lontananza e il difficile accesso hanno preservato usi e costumi ancestrali. Nel 1963 l’etnologo americano Alan Hanson, autore del primo libro su Rapa, fu sorpreso da quanto fosse immutata la società isolana.
Pur facendo parte della Polinesia francese, Rapa mantiene una forma di indipendenza grazie agli accordi del 1881, dove veniva chiaramente specificato che le leggi in vigore sarebbero state quelle locali.
La terra, che appartiene a tutti e a nessuno, viene gestita dal To’ohitu, il collegio dei sette, oggi aumentato a quattordici saggi, che rappresentano le famiglie principali dell’isola. Il vecchio sindaco Watanabe unificò To’ohitu e Consiglio Comunale.
Qualora una giovane coppia abbia bisogno di un terreno per costruire la propria abitazione, chiede al membro della sua famiglia che fa parte del To’ohitu di portare la richiesta in consiglio. I saggi stabiliscono quale lotto assegnare, scegliendolo accuratamente in un terreno idoneo, non paludoso né soggetto a smottamenti.
La terra è fondamentale: da essa si ricava il nutrimento per la famiglia. Qualora un campo rimanga incolto o una casa vuota, se non esistono eredi vengono nuovamente rimessi a disposizione. Ogni persona originaria dell’isola può richiedere un terreno. Fino al 1974 non esisteva un catasto.
La lingua parlata è il reo rapa, anche se oggi – esattamente come avviene a Tahiti tra reo mā’ohi e lingua francese – viene contaminata dal polinesiano, perdendo le risonanze essenziali degli antenati, risalenti alla memoria del grande viaggio di Ma’ake.
Un’isola molto particolare
Le particolarità di Rapa e dei suoi abitanti, che la differenziano dalle altre isole polinesiane, sono numerose. Gli abitanti, scuri di pelle con i capelli folti e ricci, anticamente non erano tatuati. Non ci sono tracce di tiki o di marae, eccetto quelli in miniatura contenuti in nicchie scavate nelle basi dei pare, di un metro di larghezza e mezzo di altezza, contenenti lunghe pietre ritte rettangolari.
Si ha memoria di soli due idoli. Paparua, costruito con fibra intrecciata di cocco in forma cilindrica per una lunghezza di 5-7 cm, veniva invocato per vincere in guerra, guarire dalle malattie, catturare abbondanti tartarughe. Poere, “notte nera”, era una pietra dai 20 ai 35 cm invocata per fare buona pesca.
Anche intorno al nome dell’isola aleggia un piccolo mistero: gli abitanti la chiamavano Rapa o Lapa, ma la indicarono ai primi navigatori come Oparo. L’attuale gruppo di danza dell’isola si chiama infatti Tamariki Oparo, figli di Oparo.
22 clan dei quali 8 femminili si dividevano l’isola fino al catastrofico contatto con i navigatori; le 12 baie dell’isola contano un pare ognuna. I clan controllavano la loro vallata dal fortino posto sulla relativa cresta. Era in vigore l’arakaa, diritto esclusivo di pesca sulle acque del loro tratto di costa. Se si discendeva da clan diversi, si poteva richiedere il moekopu, diritto di esigere l’arakaa da parte di padre e da parte di madre.
Si ha memoria di 25 di questi pare, sorta di fortini probabilmente destinati a usi diversi (difesa, culto, osservazione degli astri).
Il taro, tubero originario dell’Asia, base ancestrale dell’alimentazione dei popoli polinesiani, a Rapa viene coltivato dalle donne in acqua e nel fango mentre nelle altre isole sono gli uomini a occuparsi della sua crescita, piantandolo nella terra.
Le varie attività vengono svolte in comune e aiutarsi è fondamentale: questa vita comunitaria è stata preservata dalla chiesa protestante, con la sua organizzazione continua di eventi.
“A Rapa condividiamo la vita in due pae, settori, ma’a il nutrimento e fa’aro’o le credenze”, come afferma una testimonianza raccolta dall’etnologo Hanson: la distinzione tra il pae ma’a e il pae fa’aro’o può essere paragonata a quella tra il sacro e il profano. Si diventa adulti quando si passa dal feruri taure’are’a, stato di spirito adolescente, al feruri pa’ari, stato adulto: queste due tappe possono non coincidere con l’età.
Tutti gli uomini sono moa, sacri, e venivano imboccati dalle donne che mettevano loro il cibo direttamente dentro la bocca.
Il toreana, canto d’amore, serve da corteggiamento per far conoscere i propri sentimenti alla ragazza prescelta e lo si canta davanti alla sua finestra. Una volta formatasi la coppia, vige l’usanza della pererina, o “pellegrinaggio”: i diaconi della parrocchia e le loro mogli entrano verso mezzanotte nelle camere delle coppie conviventi per esortarle al matrimonio. C’è chi ha preferito troncare piuttosto che assoggettarsi a queste fastidiose incursioni.
Come in molte isole polinesiane, anche a Rapa la comunicazione spesso non è verbale: “le parole nello sguardo”, come dice una canzone di Jacques Brel, che ha vissuto i suoi ultimi anni alle Marchesi… Forse una forma di telepatia. È facile notare gruppi di persone che siedono silenziose con lo sguardo rivolto nella stessa direzione.
Calendario di curiosità
“I francesi sono arrivati con il vento, con il vento ripartiranno”, predice Tafara, saggio dell’isola di Rapa, intorno a fine 1800.
Nel 1881 il Re Parima O Tereaau dichiara a un certo dottor Pierre Cousteaud che l’isola di Pasqua (Rapa Nui) dipendeva da Rapa Iti, dove un unico re governava su entrambe le isole.
Nel 1916 si dice che a Rapa venga praticato l’infanticidio; nel 1917 si possono contare 5 lebbrosi sull’isola; nel 1921 si ha notizia di strutture simili agli ahu dell’isola di Pasqua (i basamenti di pietra su cui posano le celebri statue antropomorfe).
Nel 1922 l’isola rischia l’invasione di maschi occidentali in seguito all’articolo di una viaggiatrice che la descrive come un paradiso per gli scapoli, per l’alto numero di donne presenti – e attraenti –
nella percentuale di sei per ogni uomo.
Il 14 luglio 1921, l’etnologo Stokes con la moglie Laura arrivano sull’isola: resteranno 9 mesi per conto del Bishop Museum di Hawaii. Il suo manoscritto dell’epoca è stato sottratto all’oblio ed è ora in corso di pubblicazione con la traduzione francese e il commento dall’etnologo Christian Ghasarian, che dal 2001 ha effettuato otto lunghi sopra sull’isola. Stokes organizzò varie competizioni: corsa di piroghe, concorso di preparazione della popo’i, premio al più grande mangiatore dell’isola, corsa a piedi che si svolse in riva al mare e in montagna (il pastore locale vietò di utilizzare la piazza della chiesa per questi giochi profani).
Nel 1943 la nave di linea attraccava all’isola di Rapa appena una volta all’anno. Vengono introdotti i deliziosi lamponi che hanno invaso l’isola.
Nel 1945 l’unico straniero che risiede a Rapa è J. Paul: ci vivrà per più di 30 anni introducendo montoni selezionati e bestiame e vivendo del loro commercio. Oggi bovini e cavalli pascolano in libertà sull’isola. Ebbe tre donne legittime e morì di tumore.
Nel 1953 esistevano una cinquantina di case in pietra costruite da un giapponese rifugiatosi sull’isola durante la guerra e adottato dalla popolazione. Morì nel 1942. Si segnalano casi di lebbra e malattie della pelle.
Nel 1956 l’antropologo, archeologo e navigatore norvegese Thor Heyerdahl arriva a Rapa a capo di una spedizione interessata ai pare dell’isola: per lui queste enigmatiche costruzioni sono piramidi. Con manodopera locale, viene ripulito il pare di Morongo Uta: secondo la datazione al carbonio risale al 1640~1747 (il primo pare venne costruito intorno al 1300-1400).
Un aneddoto divertente: gli uomini dell’isola scioperano, ritenendo di non essere pagati abbastanza da Heyerdahl; al che le donne dell’isola, incitate dell’insegnante del villaggio nativa di Tahiti, prendono il loro posto e risolvono la situazione.
Nutrimento… con ritmo
La popo’i era ed è la base del nutrimento dell’isola; la popo’i è la vita, dice la canzone. Si ricava dai tuberi del taro, coltivati in terra paludosa, nella parte più lontana nel fondo della baia o nelle valli lontane dove si arriva in barca. Con un lungo bastone si fanno spuntare i grandi tuberi dalla terra fangosa, morbida e scura; una prima sciacquata, poi le radici vengono pulite, tagliate a pezzi e cotte in un grande pentolone fumante. In ogni giardino di Rapa si può scorgere una tettoia che protegge dalla frequente pioggia un grande fornello con il suo pentolone annerito, con grosse pietre dalla superficie liscia e piatta a mo’ di tavolo.
Le donne, sedute su una pietra più bassa e circondate da grandi secchi colmi dei pezzi di taro appena bolliti e sbucciati, iniziano a schiacciare i tuberi con una pietra, con colpi forti e ritmati. Schiacciano e incorporano l’acqua con ritmo e grande pazienza, spesso dandosi il cambio.
Si passa poi a un’altra fase di questa faticosa preparazione. Posata la pietra, si continua a impastare a mano per inglobare aria, mentre una donna anziana intona il pāta’uta’u, 1) canto ritmato: “Mitata, mitata, amu te kiko” (impasta, impasta, mangio la tua carne: una filastrocca dalle allusioni sessuali). Quasi avessero uno strumento in mano, quattro o sei donne una dopo l’altra ricavano il ritmo base dall’impasto profondamente sonoro della popo’i, come fosse un pahu, percussione. Una volta pronta, la pasta viene fatta scivolare, arrotolandola con le mani, nelle foglie di a’uti (Cordyline australis) sapientemente preparate e infine annodate ai due capi. La si può conservare a lungo, è un ottimo alimento pieno di vitamine, dal gusto acidulo. Se i navigatori fossero stati più attenti alle usanze del popolo di queste isole, tanti marinai si sarebbero salvati dalla morte per scorbuto. Grazie a questa pasta i polinesiani hanno potuto espandersi per ogni dove nell’oceano Pacifico, conquistando una superficie pari a un terzo del pianeta.
La preparazione del ti, per le grandi occasioni
Il ti (a’uti) è una pianta sacra nei Paesi polinesiani, le cui foglie sono ornamento immancabile di cerimonie e danze. Ecco come viene preparato per l’alimentazione.
Si comincia con lo scavare il grande forno interrato, una buca che deve essere riempita di legna e di fascine; un lungo ramo svetta in verticale al centro: è da lì che si accende il fuoco a mezzanotte precisa, dopo averlo sfilato, approfittando del vuoto che lascia questa presa d’aria. Sopra la legna viene posta una montagna di pietre grigie e porose, che garantiranno la cottura una volta arroventate. Il mattino seguente la legna si è consumata e le pietre infocate sono calate interamente nella buca.
È il momento di un difficile lavoro: bisogna togliere i grossi ceppi di legno semicarbonizzati per evitare che scoppiettino e ridisporre le pietre per accogliere le radici del ti. Con l’aiuto di lunghi bastoni, le pietre roventi vengono sistemate. Si spargono tronchi di banani, opportunamente aperti a colpi di machete, per uniformare la temperatura; le grandi radici, raccolte il giorno precedente ovunque nell’isola, sono posate, coperte con foglie di a’uti, e il forno viene sigillato con la terra per non disperdere il calore che deve restare all’interno. La cottura durerà due lunghe giornate.
Dopo l’apertura del forno, le radici verranno pressate per raccoglierne il succo zuccherino, che verrà addensato con un’ulteriore cottura in un pentolone, avendo cura di mescolarlo in continuazione, con la stessa pianta di a’uti.
Questa preparazione non è usuale, viene riservata alle grandi occasioni.
Anticamente, il pasto tipico era popo’i condita con il ti, specie quando si andava a lavorare nei campi lontano da casa.
Il rauhi, ovvero il rispetto per la fauna marina
A Rapa, dove ancora si vive seguendo il ritmo della natura, esiste un’usanza ancestrale che, grazie all’isolamento, è rimasta immutata dai tempi dei tempi: si chiama rauhi, ed è una forma di “pesca controllata” che gli abitanti di Rapa adottano da tempo immemorabile per non impoverire le risorse marine. Quando il consiglio dei saggi decide che è il momento di aprire la pesca, gli uomini del villaggio salgono in barca per immergersi nell’oceano armati di fucile subacqueo, incuranti dei terribili pescecani che li circondano.
Questa usanza viene apprezzata dalle altre isole, tanto che è all’esame un progetto per introdurre il rauhi di tutto l’arcipelago delle Australi… anche se controllare un’area così vasta è un’impresa. E sono numerosi gli sgangherati battelli cinesi che vengono a far razzia in queste acque: eppure due anni fa, allorché uno di questi pescherecci è affondato al largo di Rapa, gli abitanti hanno prestato aiuto ai superstiti alloggiandoli e nutrendoli per due mesi – fino al passaggio del traghetto di linea – anche se non ne capivano la lingua.
Intanto al villaggio si prepara la colazione per i pescatori: vengono fritti centinaia di firifiri, ciambelle doppie a forma di 8, che ricordano i torcetti.
L’arrivo delle barche è impressionante: a una a una accostano al molo e scaricano il frutto della pesca su un letto di foglie di a’uti. Centinaia di pesci vengono lanciati dal fondo delle imbarcazioni, formando un enorme mucchio che cresce a vista d’occhio sul molo.
Dopo la preghiera cantata, mentre i pesci vengono tenuti freschi da ripetute secchiate d’acqua marina, ogni persona presente nel villaggio avrà la sua parte, anche chi si trovi di passaggio. Sul molo vengono preparati i mucchi a seconda del bisogno: una famiglia con due genitori e dieci figli riceverà dodici pesci, una vedova uno solo… e così via.
L’isola di Rapa ci insegna la condivisione, e soprattutto a non capitalizzare le risorse della natura.
Nascere a Rapa
Ai nostri giorni esiste un’infermeria sull’isola e la possibilità di essere prelevati dall’elicottero in caso di pericolo di vita, soluzione adottata con estrema ponderazione per il suo costo elevato, intorno ai 110.000 euro. Una semplice frattura non ne giustificherà l’intervento. L’attuale sindaco Narii introdusse il servizio e fu lui stesso a inaugurarlo a causa di un’epatite.
Le donne in stato interessante prima del sesto mese di gravidanza vengono imbarcate sul cargo, unico mezzo pubblico disponibile per Tahiti, dove sono obbligate ad aspettare il lieto evento. Una volta non era così. Ai tempi di Stokes si partoriva in casa. Assisteva un uomo, padre esperto di tredici figli. Pare fosse anche in grado di eseguire manovre ostetriche, nel caso il bambino si presentasse podalico. La donna si sedeva su di lui, con la schiena contro il suo ventre, le gambe divaricate verso l’alto, i piedi appoggiati a una tavoletta contro la quale poteva spingere durante le contrazioni; una corda era fissata al soffitto affinché la partoriente vi si potesse aggrappare. L’uomo aiutava le contrazioni incitandola e abbracciandola da dietro per impedire al feto di risalire. Più condivisione di così! Nonostante la moglie di Stokes fosse infermiera e avesse offerto il suo aiuto disinteressato, non le fu permesso di intervenire nelle nascite, solo di assistervi.
La strana storia di Marc Liblin
Figlio di un fabbro ferraio di Luxeuil in Alta Saône, verso i sei anni inizia a sognare un vecchio che gli insegna una lingua sconosciuta. Verso i 33 anni viene lungamente studiato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Rennes che cercheranno, invano, di decodificare la lingua misteriosa grazie ai primi computer. Casualmente, in un bar della Bretagna, un veterano della marina francese lo sente parlare e riconosce l’idioma che aveva udito in un’isola polinesiana. Conosce una donna, divorziata da un militare che abita non molto lontano. Si recano a casa della signora Meretuini Make; la donna apre la porta, Marc le parla nella lingua sconosciuta e lei gli risponde con naturalezza: era l’antico idioma dell’isola di Rapa che suo nonno, Teraimaeva Make, le aveva insegnato.
Marc e Meretuini si sposano e decidono di andare a vivere sull’isola.
Sembrerebbe una storia a lieto fine, al contrario la loro vita a Rapa non fu affatto semplice a causa del difficile adattamento prima e della diffidenza della popolazione, che non capiva come uno straniero potesse parlare la lingua degli antenati e lo considerava un sacrilegio.
Marc visse a Rapa per 16 anni fino al 1998, quando morì a soli 50 anni per un tumore. La vedova abita tuttora sull’isola con uno dei loro quattro figli.
Un finale tutto da ridere
Nel 2010 un ricercatore compie un’inchiesta sul benessere nella remota isola di Rapa. Senza tener conto di quanto la cultura orale sia ancora forte, distribuisce un questionario in francese. La popolazione, scarsamente interessata, lo fa compilare dai bambini i quali non trovano niente di meglio che evidenziare le faccette sorridenti che campeggiano sui fogli. Il risultato di questo equivoco è sorprendente: la remota isola di Rapa risulta uno dei luoghi più felici del globo!
Il primo articolo a rivelarlo esce il 28 marzo 2011 sul quotidiano “Tahiti Infos”, rimbalza da un Paese all’altro del pianeta, attirando interesse su questa remota isola polinesiana.
Tuttavia, dopo un soggiorno di un mese a Rapa, posso confermare di persona che la gente qui vive davvero in allegria: le attività comuni sono sottolineate da forti scoppi di risa, i bambini giocano liberi, accuditi senza distinzione da tutte le famiglie, tanto che si fatica a capire quali siano i genitori. La lontananza dal “mondo” ha preservato questi luoghi da tante brutture… Rapa è un’isola felice.
N O T E
E pue e kai e
Pe’e roo hia te vahine
Pe’e noa ite pae tatahi
A tii ana fa’arari ana
Tena te ioa ote mau Rapa
E tonene te iriti raa hia
Roto ite hau’a miri poro
Ahuahi ra
Eiaha ei maa mea iti ra
ei maa mea rahi ra
Ia feto’ito’i na hiti raue
Ote puu maua tei te muea
Na uta tu koe ite peke tue ra
Ia tae ra koe putekenui ra
Mau ake to rima
Kite tau kite tau rere
To pati orare