Canti religiosi, nenie funebri e canzoni erotiche, insieme con il dialetto parlato nella Terra d’Otranto, continuano a documentare l’origine greca di quel mondo.
A sud-est della regione italiana ancora oggi chiamata col nome greco di “Basilicata” (probabilmente da quello del funzionario bizantino detto “basilikòs”) si estende una penisola che comprende una lunga porzione di territorio bagnata a levante dai mari Adriatico e Jonio. Questa regione, che amministrativamente fa parte delle Puglie, è chiamata Terra d’Otranto e corrisponde al Tallone della penisola italiana considerata come “stivale”. Fanno parte di essa i comuni di Calimera, Castrignano, Corigliano, Martano, Soleto, Sternatia e Zollino. In questi paesi si parla un dialetto greco, analogo a quello parlato in alcuni centri più settentrionali, come Greci, in provincia di Avellino (in Campania), o più meridionali, come Bova, in provincia di Reggio Calabria. Una importante raccolta dei canti popolari dei Greci di Calabria venne pubblicata nel 1866 dall’illustre filologo italiano Domenico Comparetti (Roma 1835 – Firenze 1927), dal 1859 cattedratico di letteratura greca prima nell’università di Pisa, poi in quelle di Firenze e di Roma. I canti popolari della Terra d’Otranto (in provincia di Lecce) vennero invece raccolti e studiati da un altro grecista, il professor Giuseppe Morosi, che pubblicò una raccolta di trecento testi nel 1870. Di entrambe queste due importanti raccolte si interessò il medico siciliano Giuseppe Pitré (Palermo 1841-1916), considerato il fondatore della scienza folklorica italiana, da lui denominata “demopsicologia”, dandone un’ampia recensione oggi reperibile nel terzo volume dell’Edizione Nazionale delle sue opere (G. Pitré, Studi di poesia popolare, Firenze, Barbèra, 1957). Analizzando il contenuto dei canti, il Pitré fa osservare che in essi prevalgono i tre elementi originali della civiltà italiana: greco, latino e cristiano. Talvolta, egli aggiunge, tutti e tre questi elementi compaiono fusi insieme in un unico canto, nel quale troviamo “la parola greca, il ritmo latino e il concetto cristiano”. In particolare, questo si verifica nel lamento funebre detto “nenia”, una produzione popolare che è stata attentamente studiata in Italia dall’etnologo Ernesto de Martino (Napoli 1908 – Roma 1965), che le dedicò un libro celebre, intitolato Morte e pianto rituale nel mondo antico, nel 1958. Di questa forma di canto funebre i Latini avevano fatto addirittura una divinità, personificandola appunto col nome di Nenia (o Naenia). Si tratta di una forma un tempo assai diffusa in tutta l’Italia meridionale, come in Grecia, e ancora oggi presente specialmente nelle due grandi isole italiane di Sardegna e di Sicilia. Scrive a questo proposito il Morosi: “Le nenie vengono improvvisate dalle donne intorno al feretro dell’estinto, in mezzo alla moltitudine dei parenti e degli amici di lui, ed esprimono davvero, come le nenie dell’Ellade, il delirio del dolore. Sono quindi una folla di concetti, d’immagini, di similitudini, che dal suo petto fa erompere la prefica (lamentatrice), commossa e quasi rapita fuori di sé, con voce or alta or bassa, che ora singhiozza ora strilla, e fa singhiozzare e strillare tutti gli astanti: concetti, immagini, similitudini generali e indefinite, che la prefica adatta lì per lì al sesso, all’età, alla condizione del morto, richiamandole però dal fondo poetico che le fu trasmesso dalla madre, anch’essa prefica, e che di prefica in prefica, di generazione in generazione, di secolo in secolo risalgono indietro sino alla patria comune. Essi sono sempre molto più lunghi degli altri canti; e l’arte della prefica sta appunto nel molto dire e molto commuovere; inoltre, essi sono sempre – fuorché a Calimera – in un metro diverso da quelli degli altri canti, metro che poi, nel colmo della commozione, non viene nemmeno sempre rispettato”. Un memorabile esempio di questa tecnica – adoperata in tempi moderni – rimane quello del Lamento per la morte di Turiddu Carnivali, composto dal poeta siciliano Ignazio Buttitta e dal cantastorie Cicciu Busacca per commemorare un giovane sindacalista socialista ucciso dalla mafia a Sciata (in provincia di Palermo) nel maggio del 1955. In questo importante testo la tecnica del pianto funebre è applicata con grande maestria e con forte ispirazione poetica a un evento pubblico come un assassinio politico, che ha sconvolto un’intera comunità. Tuttavia, il morto era anche, ovviamente, un individuo, un ragazzo strappato violentemente alla famiglia; e noi abbiamo potuto ascoltare l’impressionante lamento funebre popolare recitato dalla madre dinanzi al monumento che ricordava quel crudele fatto di sangue, sul luogo del delitto. La vecchia madre di Turiddu, che fino a poco prima aveva tranquillamente conversato con noi, non esitò – su richiesta del poeta Buttitta, che era presente – a “improvvisare” per noi quel terribile lamento, assumendo così la funzione di prefica o lamentatrice ufficiale, e calandosi senza alcun imbarazzo in un ruolo perfettamente strutturato e formalizzato da una tradizione secolare. Dinanzi a quella scena, noi, giovani (allora) folkloristi alle prime armi (si era nel 1961), restammo sconvolti e non avemmo il coraggio di continuare la registrazione magnetica che avevamo iniziato.
Oltre alle nenie, l’altro grande gruppo, nel repertorio greco-italiano che qui ci interessa, è quello dei canti religiosi, specialmente di quelli che ricordano la Passione del Signore, e che alla fine potrebbero rientrare anch’essi nella categoria dei canti funebri; essi commemorano infatti la passione e la morte di Gesù Cristo, l’uomo-Dio. In questo tipo di canti, osserva il Pitré, “entra la retorica in tutto il suo artificio”. Alcuni sono versioni popolari di testi letterari celebri, tratti dalla liturgia cattolica, come lo Stabat Mater, il Dies irae e il Miserere. Da questo secondo gruppo del repertorio trarremo l’esempio che verrà presentato al termine di questa breve relazione.
Infine, un terzo gruppo di canti appartiene naturalmente al repertorio erotico; in essi, il Pitré ha trovato molta somiglianza col repertorio analogo della sua Sicilia: “Le lodi della donna – egli scrive – sono piene di esaltazione: angeli e santi, terra e paradiso narrano la gloria di lei”. È interessante notare che la differenza linguistica offre alla giovane innamorata di Terra d’Otranto la possibilità maliziosa di adoperare il suo incomprensibile dialetto come un mezzo di seduzione segreta: “Voglio cantarti una canzone greca – dice il testo di uno dei canti – in modo che non la intendano i Latini”…
Un altro punto interessante è l’accenno che in alcuni canti si fa alla Turchia, in senso fortemente negativo, com’è nella tradizione greca, per i noti motivi storici: “Che ti portino in Turchia i Turchi!”, dice l’imprecazione contro un truffatore; e gli stessi Ebrei vengono definiti “cani Turchi” (in quanto infedeli) in un canto religioso di Martano. Il Morosi fa giustamente notare un’altra imprecazione che non si trova nei dialetti italiani e “che si rivela tutta greca, anzi omerica”: “Ti mangino le budella i cani!”. Ed ecco le osservazioni finali del Pitré a proposito di questo repertorio greco/italico: “Devo notare un accenno dell’elefante (in un canto di Martano) che non ho mai trovato in nessun rispetto (canto popolare) italiano; quello del tiro a segno delle colonie greche; quello di un uso nuziale per cui è l’amante che riceve dall’amata qualche dono; e infine l’aggettivo negro (nero) dato alla Morte”. Quanto alle caratteristiche strutturali, il Pitré osserva che “la poesia popolare dei coloni di Terra d’Otranto e di Calabria deriva quasi sempre dalla poesia popolare del Mezzogiorno d’Italia; e, come questa, non ha canti storici. Qualche volta somiglia alla poesia della Grecia, specialmente nei canti d’amore. Anche il metro è italiano, ma esiste qualche raro esempio di versi eroici o nazionali, di argomento politico. Essi si compongono di due emistichi, il primo di otto e l’altro di sette sillabe, uno con l’accento obbligato sulla sesta e l’altro sulla penultima sillaba, mentre l’armonia del verso richiede che pure gli altri accenti cadano sulle sillabe pari. Sono, in fondo – conclude il Pitré – i versi martelliani col primo emistichio sdrucciolo, come quelli della famosa canzone di Ciullo d’Alcamo. Questi versi, sebbene assai rari, sono per il Morosi di data molto antica e hanno il loro addentellato nella poesia della Grecia classica. Essi infatti compaiono già quasi compiuti e formati all’inizio del secolo decimo, nell’antifona che usavano intonare nel Circo le due fazioni dei Prasini e dei Veneti ogni volta che faceva il suo ingresso l’imperatore”. Infatti, l’origine di queste colonie greche della Terra d’Otranto, sulla quale non si è ancora giunti a un punto fermo, è attribuita dallo stesso Morosini a una emigrazione avvenuta durante la prima signoria bizantina, con ogni probabilità all’epoca di Basilio I, vale a dire nella seconda metà del secolo decimo.
Una campagna di registrazione sul campo è stata condotta in Terra d’Otranto negli anni 1976-77 da Brizio Montinaro, che ne ha dato conto in un disco intitolato Musica e canti popolari del Salento (questo è un altro nome della provincia di Lecce), pubblicato pochi anni or sono nella collana di “documenti originali del folklore musicale europeo” dell’etichetta Albatros di Milano (VPA 8405). Da esso traiamo questo esempio di canto religioso della Passione intitolato “A Lazzaro” raccolto a Zollino nel 1970. Ne diamo la traduzione (dello stesso Montinaro) e il testo originale greco nella traslitterazione latina. Traduzione: “Vi voglio dire buon giorno / e vi voglio raccontare / la passione del Signore! quanto ha patito nostro Signore / ascoltate con devozione. / Mandò a dire il Padre Eterno / che ci avrebbe salvato l’anima / perché non andassimo all’inferno / dove tutti meriteremmo di stare. / E i Patriarchi non tardarono / a pregare il nostro Dio / che venisse a liberarli / da quella oscura dimora. / La Madonna nell’orazione / pensava al suo Bambino/e credeva di non avere tale fortuna / che s’incarnasse nel suo ventre. / Ma devo cominciare a raccontarvi / e ognuno di voi rifletta / a quanto ha sofferto il nostro Cristo / per salvare la nostra piccola anima. / Come una tortora separata / dalla sua compagnia / la Madonna sedette per strada / tramortita e senza parole. / Ma vennero fuori Marta e Maddalena / a dare conforto a Maria / perché non soffrisse tanto / tra dolori e patimenti. / E nostro Signore il benedetto / che cominciava a entrare in agonia / davanti a sé vedeva migliaia di persone / e nessuno che lo aiutava. / E domandò da bere / ma invece gli diedero dell’aceto / amareggiato col del fiele / perché soffrisse di più. / Glielo portarono alla bocca / ma lui non volle assaggiarlo / e si raccomandò al suo amato padre / perché gli salvasse l’anima. / Ma fu rapido quel Longino / con la sua lancia sfoderata / a dargli il colpo violento / che gli aprì il costato. / Ne uscì sangue ed acqua / tanto grande era il suo amore / e per la sorte degli uomini / nello stesso tempo ebbe pietà. / Appena nostro Signore morì / il sole perdette il suo fuoco / la luna divenne nera / e la notte divenne come il giorno (…)”.