Il commento del professor Becchi sulla situazione catalana, ospitato da “Byoblu”, riassume in poche parole uno dei concetti fondamentali dell’etnismo applicato alla politica: non una pregiudiziale avversione agli Stati nazionali, ma la doverosa (e, nel tempo, inevitabile) revisione delle frontiere che hanno incorporato, schiacciandole e deprivandole, le etnie minoritarie. Esemplare anche lo smascheramento di Juncker e della sua cricca, che si oppongono agli indipendentismi non per difendere gli Stati, ma proprio perché li vorrebbero depotenziare piuttosto che aumentarli…
Eccoli alla carica sui giornaloni gli esperti del diritto, e più sono esperti e più sono dei pirla. Fantozzi docet. Il referendum per l’indipendenza della Catalogna è “illegale”. Sì, lo è: è contro la Costituzione spagnola, contro l’“unità indissolubile” dello Stato, come ha di recente ribadito la Corte costituzionale spagnola. Ebbè, non potrebbe essere altrimenti: il potere costituito non può che porre come illegale ogni tentativo, da parte del popolo, di tornare ad esercitare il suo potere costituente, che è sempre un potere extra ordinem.
Il referendum deve farsi, perché è giusto e legittimo, anche se è illegale anzi proprio in quanto “illegale”, proprio in quanto segna, oggi, un grande momento costituente e di autodeterminazione da parte del popolo catalano. Il popolo vuole decidere, oggi: e questa decisione, questa pura Entscheidung, questa volontà politica, supera i limiti legali, si rivolge contro di essi in nome di una legittimità, di un diritto naturale, superiore a qualsiasi diritto positivo, e inalienabile: quello dell’autodeterminazione.
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il processo di disgregazione compiuta dei vecchi Stati nazionali, da parte della Unione Europea. La spinta secessionistica del popolo catalano non è in alcun modo in contrasto con la logica dello Stato nazionale. Al contrario, ne costituisce l’autentica e originaria espressione: il momento in cui il popolo si fa Stato, si autodetermina come nazione. I catalani vogliono il loro Stato nazionale, e non certo un divorzio politico che li porti soltanto ad “integrarsi” meglio all’interno delle logiche europee, perdendo di nuovo la loro identità nazionale.
È tutto il contrario di quel che si dice: qui si tratta non di Stati che si disgregano, ma di nuovi Stati che nascono. Da uno, ne avremo due. È evidente che vi sia un tentativo, da parte dell’UE, di servirsi di queste spinte secessionistiche in funzione anti-nazionale. Ma è altrettanto chiaro che ciò avviene proprio perché si è consapevoli del fatto che tali spinte rappresentano obiettivamente momenti di risveglio nazionale, di rivendicazione di un’identità culturale propria, di voglia di nazione. È la voglia di “piccole patrie” che riesplode nell’epoca di una globalizzazione asfissiante.
Tendiamo erroneamente a pensare che vi sia una contrapposizione tra “sovranità” (e quindi: Stato, unità nazionale) e “secessione” (e quindi: indipendentismo, autonomia, eccetera). In realtà non è così: contro lo Stato centralista, i catalani rivendicano un’idea di nazione, un modello di sovranità “debole”, non leviatanica, che si basa su questo principio: “stare con chi si vuole, stare con chi ci vuole”.
Come tra le persone, il divorzio dovrebbe valere anche tra gli Stati. Non dobbiamo più pensare all’unità nazionale come a un matrimonio indissolubile, che va mantenuto anche quando non esiste più accordo tra le parti. Le nazioni, oggi, devono costituirsi sul libero consenso dei popoli: e se due comunità intendono separarsi, che si separino pure. La cosa migliore ovviamente sarebbe in modo consensuale.
La “legalità” dei politici di Madrid conta poco. E con la violenza contro chi intende votare si otterrà ancora meno. Ciò che conta è la legittima rivendicazione di indipendenza del popolo catalano.
Solo una piccola recriminazione: è dagli anni ’80 che ripetiamo queste cose, ed è pur bello – decennio dopo decennio – vedere che c’è qualcuno che ogni tanto si sveglia e le riscopre. Ma alla lunga stufa anche.