La denuncia proviene da GfbV (Gesellschaft für bedrohte Wolker) associazione nota per i suoi interventi in difesa dei popoli minacciati. Si basa principalmente sulla relazione dell’esperto dell’organizzazione tedesca per il Medio Oriente, Kamal Sido (originario proprio di Afrin).
Nel suo comunicato stampa GfbV ha smascherato le atrocità compiute dall’esercito turco e dalle milizie mercenarie nella città di Afrin sotto occupazione. Segnalando anche l’interdizione della lingua curda, una sistematica politica di arabizzazione e di forzata islamizzazione.
Mentre Trump e Putin discorrevano amabilmente a Helsinki del conflitto siriano (e di come spartirsene le spoglie), nella regione curda occupata il loro sodale Erdogan procedeva nell’opera di quello che eufemisticamente viene definito “cambiamento demografico”. Ma visti i metodi adottati (eliminazione fisica, espulsione…) si dovrebbe parlare semplicemente di pulizia etnica nei confronti della popolazione caduta sotto il giogo delle truppe di Ankara.
Scomparsi ogni simbolo e ogni scritta curdi e – ovviamente – vietate le lezioni in lingua curda nelle scuole, viene gradualmente imposta anche la sharia. Mentre le donne non osano più uscire senza il velo, si nota la diffusa presenza di uomini con lunghe barbe e anche di donne coperte dal burqa.
Per yazidi e alawiti (considerati alla stregua di “eretici”) è diventato praticamente impossibile continuare a vivere in tale contesto. Scomparsa anche la piccola comunità cristiana (un migliaio di persone) che abitava in città.
I dati raccolti da militanti curdi indicano come soltanto nelle prime due settimane di luglio siano avvenuti oltre 120 sequestri di persone e almeno sette uccisioni, oltre a decine di saccheggi nei confronti delle proprietà e dei campi dati alle fiamme. Quanto alle proprietà curde, vengono regolarmente confiscate e consegnate a coloni arabo-sunniti.
Nella prima settimana di luglio il Dipartimento giuridico del soidisant Consiglio locale di Afrin – messo in piedi dalle forze di occupazione – ha emesso un ordine per cui tutti gli abitanti dovranno sottoporre a tale Dipartimento ogni loro atto di proprietà immobiliare. Verrà quindi esaminato e sottoposto a procedure legali (di conferma o di esproprio dell’immobile, si presume).
E questo nonostante gran parte degli abitanti di Afrin siano ancora, di fatto, dei desplazados (profughi interni) provvisoriamente collocati nei campi di Shahba, Aleppo, Kobane e Al Cazira. È facilmente prevedibile che gli oltre 250mila curdi che hanno dovuto lasciare Afrin, non avranno più alcun titolo per reclamare i loro beni.
Per l’avvocato Khaki Ghbari un paragrafo di questo nuovo regolamento sarebbe particolarmente ambiguo e pericoloso, anche se confrontato con l’analoga legge n° 10 emessa dal regime siriano per consentire l’esproprio dei beni degli espatriati. Questa legge almeno garantiva all’interessato un adeguato lasso di tempo per fornire prove in merito alle sue proprietà.
Ma in fondo – dal punto di vista della violazione dei diritti umani – questa è solo la “punta dell’iceberg”. E infatti Khaki Ghbari aveva chiesto ufficialmente l’applicazione delle norme per garantire protezione internazionale agli abitanti di Afrin, in quanto la città curda sarebbe “sottoposta a una pericolosa occupazione da parte di militari, mercenari e terroristi”.
Dal 18 marzo, da quando la regione curda nel nord della Siria è stata invasa dall’esercito turco e dalle milizie islamiste, più di tremila curdi sono stati sequestrati e di oltre settemila non si hanno notizie, tanto da poterli ormai considerare desaparecidos. Bisogna poi considerare come in numerose famiglie che hanno già subìto aggressioni prevalga il desiderio di anonimato per evitare ritorsioni e ulteriori violenze.
Come è noto, con l’esercito turco nella regione curda sono approdati, a decine di migliaia, gli islamisti radicali arabi in veste di coloni. Pesantemente armati, godono della copertura di Ankara nella loro opera di terrorismo (uccisioni, torture, saccheggi…) nei confronti della popolazione civile curda. Metodi e stile che ricordano – sia detto per inciso – quelli delle milizie cristiano-maronite (integrate da neofascisti europei, anche italici) all’epoca dell’invasione del Libano da parte di Israele nel 1982, conclusasi con i massacri di civili nei campi profughi dei palestinesi. Stessa copertura da parte dell’esercito regolare, stesso lavoro sporco appaltato ai mercenari.