Tutto, ma non francesi. Traditi dai loro antichi Sovrani e ceduti alla Francia con il vergognoso accordo occulto di Plombières, i migliori fra i Savoiardi, pur di non diventare sudditi di Parigi cercarono l’unione con la libera Confederazione Elvetica.
Popolazione tranquilla, pacifica e tradizionalista, la gente della Savoia guardava da tempo con giustificata diffidenza e con preoccupazione alle “novità” (guerre comprese) che di volta in volta venivano imposte dai politicanti di Torino. Fin dall’aprile del 1856, quando ancora era in corso la sciagurata spedizione in Crimea, il “Courier des Alpes” dichiarava a tutte lettere che
la Savoia non può essere manipolata da un Intendente qualunque sia alla maniera d’una provincia piemontese. In Piemonte non s’ha autonomia propria e non si vive che pel governo, e come vuole il governo. Ma la Savoia ha una vita a sè, e non si adeguerà mai all’arbitrio di nessuno. Essa ha le sue convinzioni, e la sua fede politica e religiosa, e una savia indipendenza, che nessun potere umano riuscirà giammai a distruggere.
Commentando questo articolo, il corrispondente della “Civiltà Cattolica” ammonì il Governo avvertendolo, preoccupato e sconsolato, che “la Savoia leva le mani e rivolge gli occhi alla Francia, che stima più fortunata; e ciò non ostante il ministero continua a disgustarla o colla sua trascuratezza, o co’ sui tristi provvedimenti”.
Nella primavera del 1859, non si sa se spontaneamente o se per sollecitazione esterna, il sotterraneo malcontento antigovernativo della Savoia si trasformò in opposizione politica esplicita.
Cavour aveva lasciato la guida del Governo dopo la pace di Villafranca e almeno ufficialmente s’era ritirato dalla politica attiva, dedicandosi alla conduzione delle sue proprietà agricole del Vercellese, trasformandosi nell’“eremita di Leri”.
In realtà, come si seppe in seguito, fin dagli incontri di Plombières aveva accettato di subire il ricatto di Napoleone III preparandosi a cedergli Nizza e Savoia.
Ma di questo patto scellerato erano probabilmente all’oscuro Rattazzi, La Marmora e Dabormida che lo sostituirono al potere, preoccupati con “sano realismo” di formare i governi provvisori di Parma, Modena, Firenze e Bologna annessi dopo la guerra e di gestire i truffaldini “plebisciti” che dovevano sancire col consenso popolare quanto il micro-imperialismo sabaudista s’era preso con la guerra.
Il governo di Torino rimase dunque ben sorpreso e sconcertato quando proprio nella tranquilla e pacifica Savoia si manifestarono casi di aperta ribellione.
Destò sconcerto e venne considerato il risultato delle mene clericali un gesto di inattesa e singolare opposizione già a fine giugno quando
Il Municipio e la Guardia Nazionale di Emey (Savoia Propria) completamente armata intervennero il giorno 19 andante alla Funzione religiosa ordinatasi in quella Chiesa Parrocchiale in rendimento di grazie pelle recenti vittorie delle armi alleate.
In quell’occasione,
Il Parroco D. Giuseppe Gilardi, reazionario ad oltranza, non avendo potuto ottenere che i militi attestati in chiesa si scoprissero il capo, nel passare davanti alla testa della colonna dié a bella posta e per dispetto un calcio nel tamburo ch’era stato depositato sul pavimento e quindi in una breve concione a mezzo della messa si sfogò in insulti contro detti militi tacciandoli di incivili e di ineducati.
Questa intemperanza di linguaggio ed il precedente atto di sprezzo irritarono d’assai i ripetuti militi alcuni dei quali già si disponevano ad uscire dai ranghi per andare ad arrestare il D. Gilardi, e ben vi fu mestieri di tutti gli sforzi del Capitano per dissuaderli.
All’indomani il predetto Sig Capitano ne sporse querela al Giudice di Isenne che iniziò tosto procedimento.
Con tutta evidenza, il sacerdote manifestava una rancorosa ostilità nei confronti della politica di guerra che era in corso, emblematicamente rappresentata ai suoi occhi da quelle divise indossate dai patriottici volontari. Ma non era che l’inizio.
Neanche un mese dopo, quelle che erano sembrate isolate “improntitudini commesse dal Parroco di Emey” si rivelarono qualcosa di ben più consistente e pericoloso, parte emergente di una sotterranea ma ampia opposizione al Governo. Infatti, a fine luglio, il Comandante della Divisione dei Carabinieri della Savoia inviò a Torino un allarmante rapporto, informando che
pello scaduto dì 24 del corrente era stato progettata una riunione nello studio dell’Avvocato Cornier di Chambery per formulare un indirizzo a S.M. il Re inteso a spiegare i motivi pei quali la Savoja intenderebbe separarsi dai Regi Stati per unirsi alla Francia. La riunione sarebbesi formata per gli eccitamenti del Sig Avvocato Berthier, redattore del giornale il Courier des Alpes.
La notizia dell’incontro era davvero inquietante, soprattutto perché risultò che “le persone che dovevano farne parte apparterrebbero al Clero ed al ceto patrizio e taluni fors’anche all’ordine giudiziario”.
Due giorni dopo, ancora i Carabinieri, appurarono che all’incontro erano presenti anche alcuni personaggi di un certo peso:
Conte Deville Thavenet – Cav. Deville Thavenet fratello del prec.te già ufficiale – Denarier fratelli, l’uno medico, l’altro ingegnere – Sig. François, Direttore della Banca di sconto ed il suo segretario, certo Tissot – Conte Marin cognato dell’incaricato di reggere il V. Consolato di Francia – Sig. Di Gruat proprietario – Sig. Vivian già Capitano di Gendarmeria – Sig. Chevallier già commerciante – Conte Greffier – Avv Paluel – Avv Bourdon – Avv Martinel ex deputato – Avv Berthier
e, per di più, non mancò motivo di allarme perché risultò che alla riunione
si trattò della Savoia la quale non potrebbe far parte della progettata confederazione italiana, e si conchiuse che dovrebbe lasciarsi alla popolazione savojarda la libertà di votare o per la congiunzione alla Francia, o per continuare a rimanersene unita al Piemonte.
Prima di sottomettere al Governo del Re siffatta deliberazione, si dice vogliasi far stampare e diramare la stessa ne’ varj Comuni dove sotto l’influenza del Clero si spera di trovare grande adesione.
Tuttavia, proprio il Luogotenente generale dei Carabinieri che informava il Ministro del progetto separatista sentì la necessità di precisare che la politica filo-francese era assolutamente impopolare in tutta la Savoia e non era proprio quella
l’opinione della maggioranza, nè degli abitanti delle città, nè di quelli delle campagne ed anzi si scorge nell’accennato progetto che il desiderio di un partito in molta minoranza e che vorrebbe sovvertire l’ordine e creare imbarazzi al Governo nelle attuali contingenze politiche.
Ma non era finita, perché poche ore dopo l’incontro di Chambéry se ne svolse un altro, il 28 luglio ad Annecy, e stavolta si riunirono “i Deputati al Parlamento Nazionale appartenenti alla Savoja”: il marchese Costa di Beauregard, deputato di Chambéry; Mollard, deputato de la Motte; de Martinel, deputato d’Aix; Grange, deputato di Bourg-St-Maurice; Ginet, deputato di Rumilly; Pelloux, deputato di Bonneville; Montgellaz, deputato di Annemasse; de la Fléchère, deputato di Taninge; Girod de Montfalcon, deputato di Duing; Chapperon, deputato di Pont-Beauvoisin e Lachenal, deputato d’Ugine. Almeno ufficialmente, essi cercarono di concordare una linea comune in previsione della riapertura dei lavori parlamentari, anche se
Il più scupoloso silenzio fu mantenuto sulle deliberazioni prese, tuttavia corre voce siasi progettato di proporre alle Camere che la Savoia sia amministrata e diretta in tutti i rami da Sudditi esclusivamente Savoiardi e for s’anco di far discutere sulla convenienza di unire la Savoia alla Francia.
In realtà, nel loro riservatissimo incontro i Deputati redassero un documento di cui l’intendente Generale di Annecy riuscì subito ad avere una “copia ottenuta in via confidenziale” e che sollecitamente trascrisse per il Ministro dell’Interno.
Con quel documento, “La majorité des Députés de la Savoie”, dopo aver preso atto che il trattato di pace proclamava “la fondation d’une nationalité italienne”, dichiarò solennemente al Sovrano che “la Savoie n’est pas italienne, elle ne peut pas l’ètre” e chiese al Re garanzie per il suo avvenire e la sua identità.
Non si trattò di un proclama filo-francese ma certo fu anti-risorgimentale.
Per parte sua, proprio mentre il “Courrier des Alpes” (definito, non a torto, un foglio “qui avait pour devise guerre au Piémont”) soffiò di nuovo e con maggior decisione sul fuoco separatista. L’Intendente Generale di Chambery riuscì a spedire al Ministero
copia ottenuta in via confidenziale dell’indirizzo che i malcontenti di questa città (…) intendono rivolgere a S.M. ad oggetto di chiamare la sua attenzione sopra gli interessi speciali della Savoia che desiderano vedere separati da quelli delle altre parti dello stato. Comunque tale indirizzo si attenga dalle generali senza formulare una precisa domanda dallo scopo che vuolsi ottenere presenta tuttavia nel suo complesso un attentato all’unità governativa ed all’integrità dello stato che rende biasimevole sotto ogni supporto la condotta dei ricorrenti, massime che la loro opinione è ben lungi dall’essere divisa dalla maggioranza della popolazione la quale protesta solennemente contro un tale atto inqualificabile.
Successivamente, il documento venne pubblicato integralmente in Francia solo grazie alla disponibilità del “Courrier de Lyon” perché nessuna tipografia accettò di stamparlo in Savoia:
SIRE,
Les grands événements qui ont porté si haut la gioire de Votre Majesté et ceux qui se préparent encore indiquent que de nouvelles destinées attendent les populations italiennes.
Les bases du traité de paix qui vient d’ètre signé, les actes même émanés de votre gouvernement proclament la fondation d’une nationalité italienne nettement dessinée par les Alpes, ainsi que par la race, les moeurs et la langue de ceux qui sont appelés à enfaire partie.
Ces conditions, Sire, exclusent la Savoie. La Savoie n’est pas italienne, ne peut pas l’ètre.
Quel est donc l’avenir qui lui est réservé?
Nous espérons, Sire, que Votre Majesté, qui s’est monstrée si chevaleresque envers l’Italie, voudra bien aviser aux intérèts de la Savoie d’une manière conforme à ses voeux.
Per replicare a questo documento e alla petizione dei Deputati, dall’Imprimerie du Gouvernement di Chambéry venne prontamente stampato un opuscolo filo-governativo dal titolo La Savoie et la Monarchie constitutionnelle, che ebbe ampia diffusione.
L’anonimo autore replicò seccamente agli argomenti filo-francesi, dimostrando che, legandosi a Parigi, la Savoia ne avrebbe patito sia economicamente che politicamente e, per di più, non esistevano ragioni storiche, culturali e nemmeno linguistiche che giustificassero quel rattachement dannoso e pericoloso:
La Savoie n’en parle pas moins la langue française; mais cela ne signifìe pas nécessairement qu’elle doive s’absorber dans la France. On a dit et répété que si les langues déterminaient seules les nationalités, la Corse et l’Alsace cesseraient d’ètre françaises, que la vallée d’Aoste, les vallées de Pignerol, une partie de la Suisse, la Bergique, etc., le deviendraient au contraire, et qu’alors les limites des Etats affecteraient des contours absurdes.
Néanmois le droit de parler sa langue est un de ceux qu’il est le plus difficile de refuser à une population. Ni l’Alsace ni la Corse n’ont ce droit en France, où du reste elles ne pourraient se faire comprendre. La Savoie a ce droit en Italie, où elle est assurée d’être compóse de quiconque sait lire et écrire. Si l’on avait voulu imposer à la Savoie une autre langue que la sienne, elle se serait révoltée avec raison: mais en quoi son union avec le Piémont la gêne-t-elle dans l’usage de sa langue?
En Savoie, on peut lire tout ce qui se lit en France (…) Enfin toutes les publications officielles, tous les actes publics, toutes les choses parlées ou écrites qui intéressent la vie civile et politique s’y font en français.
Le droit de parler en Italie leur langue, reconnue comme offìcielle et parfaitement comprise d’ailleur, a même donné aux Savoisiens, au parlement, une sorte d’autorité, un droit exceptionnel à l’attention. Ils profitent du prestige qu’exerce cette admirable langue, la première de toutes en politique: chacun a pu constater cet avantage qu’apporte la députation savoisienne dans un pays où le français est écouté avec une sorte de déférence, et où on l’accepte comme langue universelle.
Cette déférence, le Piémont, assez peu exigeant sous ce rapport du moin, l’accorde à tout ce qui rassemble à du français, et les séparatistes que nous avons cités s’en trouvent fort bien: certes la France n’aurait pas la même indulgence. En Piémont, ils sont rangés parmi ceux qui s’expliquent le mieux dans une langue reçue comme nationale; sous l’empire, ils ne seraient plus que les hommes de France qui parleraient le plus mal le français.
Meglio essere i primi francofoni degli Stati Sardi che gli ultimi apprendisti del gergo parigino o, peggio ancora, una moltitudine indistinta in un regime centralizzato.
Il 3 agosto, l’intendente di Chambéry, Magenta, comunicò al Ministero che “les promoteurs de la réunion de la Savoie à la France continuent toujours leurs mouvemens” ma notò, molto soddisfatto, che “ils sont bien contrariés, il est vrai, de l’entente que j’ai pris avec les imprimeurs de Chambéry, pour ne pas laisser reproduire leur adresse, et leur donner ainsi la facilité d’en avoir un grand nombre à répandre dans le pays, pour recueillir des signatures”, anche se i giornali francesi davano fiato alle loro tesi.
Il 7 agosto, lo stesso Intendente annunciò di aver concordato con l’Avvocato generale dello Stato in Savoia le opportune misure contro i separatisti, cercando “de sorprendre quelques uns des émissaires du Parti, et de les soumettre aux poursuites les plus rigoureux de la Loi” e questo perché la petizione al Re con la richiesta di autodeterminazione savoiarda preoccupava non poco.
In effetti, il 22 agosto, un inquieto Magenta informò Torino che “les séparatistes continuent d’agir encore assez activement; mais ils le font d’una manière bien clandestine” e accusò “les Nobles e leurs adhérants” di favorire le sottoscrizioni popolari della petizione filo-francese proprio mentre il marchese Da Costa si trovava a Parigi, forse per concordare con quel Governo un’azione comune.
Anche il parroco di Emey che già aveva manifestato tutto il suo disprezzo per i miliziani imbevuti di mistica italianista ed era “noto pe’ suoi sentimenti ostili al governo” si mobilitò in prima persona, e i Carabinieri scoprirono che già a fine giugno aveva
preso a percorrere le borgate di quel Comune per far sottoscrivere una petizione intesa a chiedere la annessione della Savoia alla Francia. Fra i soscrittori che raccoglie fra la classe men colta nelle pubbliche vie ed anche di notte tempo, si annoverano ragazzi di 14 anni, e dà loro ad intendere che altrimenti la Savoia dovrebbe concorrere a gravi sacrifizi d’uomini e denaro per una quarta guerra in Italia.
Il Consigliere di detto Comune di Emey sig. Roget Guglielmo, ha dal canto suo attivamente cooperato a far sottoscrivere la stessa petizione.
Anche i Parroci del Comune di Songienx, Mandamento di Isenne, e del Comune di St. Pierre de Castille, Mandamento di Isenne, percorsero il loro distretto in cerca di sottoscrizione.
Si vuole che tali mene sieno favorite in Francia, e diffatti da qualche tempo si rimarcano Francesi dimoranti a Chambéry i quali coi loro discorsi vanno scandagliando le opinioni degli abitanti.
A settembre, il testo della petizione al Re venne pubblicato finalmente anche in Savoia dal giornale “Bon sens” (continuatore del “Courrier des Alpes”) che non si fece scrupolo di farlo proprio con “une invitation formelle aux populations de signer sans crainte cette petition comme étant le seul moyen d’obtenir la solution de ce qu’un certain parti appelle la Question Savoisienne”.
A Sèrrieres, si fecero promotori della petizione il Sindaco e i maggiorenti del paese, raccogliendo le firme dopo la messa domenicale.
Certi invece che la stragrande maggioranza dei savoiardi non avrebbe condiviso le velleità filo-francesi, i rappresentanti del Governo Sabaudo pensarono di far fronte a queste iniziative con misure di polizia colpendo direttamente coloro che s’erano esposti in prima persona. Quando l’avvocato Portier, sostituto difensore dei poveri a Chambery ed Alfonso Rey, giudice di quel Tribunale vennero individuati “fra i principali agitatori che da qualche tempo a questa parte si adoperarono per indurre i Savojardi a chiedere di separarsi dallo Stato Sardo e di essere uniti all’Impero Francese”, il Ministro dell’interno segnalò i loro nomi al collega titolare del Dicastero di Grazia e Giustizia “per di lui norma”, coll’evidente intento di discriminarli e fargliela pagare.
A soffiare sul fuoco fu soprattutto la stampa francese e la misura parve ormai colma quando il 4 agosto Dabormida, responsabile del “Gabinetto particolare” del Ministero degli Affari Esteri, registrò allarmato che “parecchi giornali esteri accennarono nelle loro corrispondenze dal Piemonte ad una petizione che sarebbesi firmata in Savoia per chiedere la separazione di quella provincia dallo Stato, ed amplificarono questo fatto in tal modo di dare ad esso grandissima importanza”. Di conseguenza, il Ministro “desiderando che non venga traviata l’opinione pubblica a questo riguardo e sopratutto che i Governi Esteri conoscano la vera realtà delle cose”, decise di inviare alle varie Ambasciate “una Circolare che riduca il fatto alle giuste sue proporzioni” che, come avevano appurato i Carabinieri, coinvolgevano solo gruppi ristretti di nobili, borghesi ed ecclesiastici.
Per parte sua, il Ministero dell’Interno nel tentativo di ridurre l’influenza della stampa filo-separatista limitandone la diffusione, incaricò una commissione di fedeli funzionari di controllarne preventivamente il contenuto, ma senza volerlo rischiò di provocare gravi conseguenze all’economia regionale perché, ad esempio, tutti i turisti francesi presenti allo Stabilimento termale di Aix minacciarono “de partir en masse si l’on continue a rètènir les journaux pour les sumettre a l’examen de la commission”, ottenendo l’appoggio da parte della stessa Commission Medicale delle terme. In ogni caso però il bando ai fogli imperiali non trovò troppa collaborazione da parte degli impiegati locali.
Nell’autunno del 1859, l’intendente di Annecy chiese al Contabile Reggente la Direzione delle Poste di Albertville di far controllare il contenuto dei giornali provenienti dalla Francia “prima della loro distribuzione”, ma si vide opporre un netto rifiuto e, per tutta risposta, da Torino la Direzione delle Poste decise “di punire severamente il Contabile di Albertville, pronunciando contro il medesimo la pena della sospensione per dieci giorni con perdita dello stipendio”.
Ma tutte queste misure repressive servirono a poco.
Il 17 dicembre, giunse notizia che
si stampò recentemente in Lione nel numero di tre mila esemplari una lettera circolare indirizzata al Clero della Savoja, e sottoscritto “L’Unione Cattolica” nella quale si pretende che il Governo del Re sia attaccato con estrema violenza; aggiungendosi che alla pubblicazione non devono esser estranei il Marchese Costa di Beauregard, l’Avvocato Berthier, e gli ex Redattori del Corriere delle Alpi.
Forse le sollecitazioni ai sacerdoti giunsero a buon segno, perché in breve tempo, in calce alla petizione a Vittorio Emanuele, vennero raccolte ben 13.000 firme di elettori savoiardi.
In realtà, tutto era già stato deciso a Plombières e lo si seppe quando, dopo un esilio politico che sembrava fatto apposta per far maturare i tempi, Cavour tornò al governo, all’inizio del 1860.
Proprio allora, insistenti indiscrezioni sulla possibile cessione della Savoia alla Francia cominciarono a circolare in tutta Europa, suscitando in Piemonte soprattutto l’opposizione degli ambienti cattolici che, se all’inizio avevano guardato con parecchia simpatia al sentimento anti-italianista dei Savoiardi, ora si rendevano conto che quelle stesse posizioni erano state strumentalizzate per spianare la strada a un progetto occulto concordato da Napoleone col suo sodale Cavour.
Quando “L’Indépendence Belge” rivelò che “il patto segreto di questa unione era stato stipulato il giorno prima che fosse conchiuso il matrimonio tra la principesa Clotilde e il principe Napoleone”, la cattolica “Armonia” di Torino scrisse che “Il Piemonte privo della Savoia è privo del suo capo”.
Rivelando invece tutta la sua miseria morale, “L’Opinione” risorgimentalista non si fece scrupolo di lodare il basso mercato di terre deciso sulla pelle dei Popoli e scrisse che “Se la Savoia deve congiungersi alla Francia, quando abbia il Piemonte bastevoli compensi di posizioni, sia pure”. Come a dire: la “culla della Dinastia” al posto del “Bel Paese”. Uno scambio davvero conveniente, come poi s’é visto!
Per parte sua, “L’Armonia” fece appello ai Savoiardi, spiegando loro che “divenuti Francesi non istarebbero meglio di noi” e che, sotto Parigi, la Savoia avrebbe perduto “affatto ogni importanza politica, e diventerebbe l’ultimo degli spartimenti”.
Ma non servì a nulla.
Tuttavia, proprio mentre lo scontro fra anti-separatisti e filo-napoleonici si faceva più acuto, emerse una terza posizione, del tutto inattesa e fuori dagli schemi, che prospettava per la Savoia una soluzione alternativa: l’unione alla Svizzera.
Il 13 febbraio 1860, il luogotenente generale dei Carabinieri Reali scrisse al Ministro dell’Interno per denunciare
l’agitazione che attualmente regna nelle popolazioni del Cantone di Ginevra e degli abitanti del Chiablese e de Faucigny in proposito dell’annessione messasi in campo della Savoja alla Francia.
Què di Ginevra sopra tutto sono gravemente preoccupati dal timore di poter essere essi pure col tempo, per la forza di politiche eventualità, aggregati all’impero francese. Non si tralasciano perciò dai Ginevrini mene per raccogliere firme ne’ detti Circondarj del Chiablese e del Faucigny sopra petizioni tendenti a chiedere di preferenza l’unione alla Svizzera.
Il Sig. James-Fazy, Capo del Governo del Cantone, ha cercato di tranquillizzare gli allarmati, ma le sue persuasioni vennero mal accolte ed anzi si ha chi lo tacciò di vile e traditore.
Fosse o no patrocinato dagli svizzeri, un movimento savoiardo contrario sia all’Italia che alla Francia s’era comunque messo in marcia.
In effetti, sempre i vertici dei Carabinieri con un nuovo rapporto, redatto cinque giorni dopo, informarono il Ministro che
Addì 12 andante nella Città di Ginevra ebbe effettivamente luogo la progettata riunione dei Savojardi colà dimoranti, per discutere intorno all’annessione di quel Ducato alla Francia.
Nel locale prescelto dell’Albergo della Navigazione al Paguis intervennero i Savoiardi in numero di 3000 e più. La discussione che procedette pacata dimostrò come l’opinione generale fosse avversa all’annessione di cui sopra, come fosse desiderio, nel caso che il Governo Sardo assolutamente abbandonasse la Savoja la quale non ha intenzione alcuna di separazione, il Ducato fosse lasciato libero da qualsivoglia dominazione con Governo e leggi proprie, come infine nella peggiore ipotesi avessero i Circondarj del Chiablese e del Faucigny ed una parte di quello del Genevese ad essere aggregati di preferenza alla Svizzera.
Dalle parole si passò in fretta ai fatti.
Dopo qualche settimana, l’Intendente Reale di Faucigny riuscì a sequestrare alcuni esemplari “d’une proclamation d’un prétendue Comité des intérêts savoisiens” e considerò “cette manière d’agir d’une audace extréme”.
Stampato a Ginevra 1’8 marzo 1860 dalla tipografia Vaney di rue de la Croix d’Or e diretto “Aux Savoisiens du Nord”, l’appello del Comitato presieduto da L. Marechal e composto da J. Decroux, F. Gaden, J.M. Balliard, il dottor Silva, J. Mugnier, C. Simon, J. Mermin, L. Docré, P. Ducré, C. Collet, Genamy, J. Bourgeois, C. Lucas e per segretario F. Perréard, dichiarò a tutte lettere che di fronte all’imminente separazione della loro Regione da Casa Savoia era ormai “convenable que le Chablais et le Faucigny soient définitivement unis à la Suisse”.
I promotori dell’appello si dicevano certi che la Francia “dont nous admirons le dévouement à la cause des peuples” non avrebbe ostacolato “la franche expression” della volontà dei Savoiardi, ma ovviamente si illudevano. Così come si sbagliavano di grosso quando sostenevano che il Piemonte avrebbe di buon grado preso atto della loro scelta di unirsi alla Confederazione.
II loro proclama ostacolava i giochi politici dei potenti e perciò le Autorità Sabaude, ormai pronte ad accettare la cessione della Savoia alla Francia, corsero ai ripari e il 12 marzo il governatore di Annecy Maggi, mentre inviò a Torino copia dell’appello, ne sottolineò la pericolosità, “riguardandolo nello stato odierno della questione siccome dal pari punibile che pericoloso” proponendo “alcune disposizioni di repressione e preventive” e mobilitando la Polizia per neutralizzare un’iniziativa che andava a cozzare con le imposizioni verticistiche che ormai si dovevano solo far accettare ai Savoiardi.
Con tutta probabilità, dunque, il “Comité” si trovò nelle condizioni di non poter più agire, perché non se ne seppe più niente.
Il suo grido: “La Suisse nous attend!” restò lettera morta.
In previsione del voto, comunque, due delegazioni partirono dalla Savoia per opposte direzioni. Una si recò a Parigi a omaggiare il nuovo padrone, l’altra, composta da Alessandro de Savoiroux, Tancredi de Noyer e Carlo de Juge, scese in mesto pellegrinaggio a Torino per chiedere al Re uno scatto d’orgoglio che Vittorio Emanuele, succube di Cavour, non ebbe.
Tuttavia, anche se la posizione filo-elvetica parve definitivamente sconfitta, con molta probabilità riuscì in quel frangente a conquistare molti consensi.
Forse per questo quando ci fu il plebiscito si dovette ricorrere a un sotterfuglio che in qualche modo carpì la buona fede degli elettori.
Lo ha ricordato di recente un ampio studio storico pubblicato dal coraggioso periodico “L’Echo de Savoie”, organo della Ligue Savoisienne.
Nella scheda elettorale non venne chiesto agli elettori se volevano passare sotto l’impero, ma la domanda “La Savoie veut-elle être réunie à la France?” prevedeva come risposta un ambiguo: “OUI ET ZONE”, l’unione legata alla concessione della zona franca doganale.
Probabilmente la speranza (subito tradita) di ottenere una zona franca che facesse da cuscinetto economico fra Italia e Francia con un rapporto privilegiato con la Confederazione Elvetica convinse molti elettori a mettere nell’urna un responso favorevole.
V’è anche da tener presente che il diritto di voto venne attribuito a tutti i cittadini con almeno 21 anni ma anche a quelli che decidevano di iscriversi nelle liste elettorali il giorno stesso del voto, facoltà che permetteva così di accedere al plebiscito anche a molti e determinati emissari francesi.
Lo conferma l’accorata richiesta diretta il 17 marzo 1860 a Torino al Ministero della Guerra da parte del Comandante dei Carabinieri di far rientrare subito in Piemonte dalla Savoia i militi non originari della Regione, perché in occasione dell’arrivo a Chambery dei gendarmi francesi era accaduto che il loro Ufficiale “cercò fare proseliti per la Francia anche fra i Carabinieri nativi delle Provincie Italiane, lorché torna dannoso al Corpo e produce in coloro stessi che non aderiscono una agitazione ed una incertezza poco vantaggiosa al servizio”. Se si giungeva a questo punto con i forestieri’, figurarsi nei confronti dei nativi !
Non v’è dunque da stupirsi se il voto finì come doveva finire.
Il giorno del plebiscito, il 22 aprile 1860, risultò che tutta l’opposizione all’annessione alla Francia era incredibilmente e inspiegabilmente evaporata.
Almeno stando alla cronaca pubblicata dalla cattolica “Armonia” di Torino, che riportò quanto aveva scritto il “Courier des Alpes” e che considerò il plebiscito “indizio di un’era nuova per la Savoia”, anche perché durante la giornata elettorale ad Annecy nessuno s’era opposto alla scelta filo-francese:
Al mattino un insolito movimento regnava in tutte le parti della città, e tutte le finestre venivano adornate di bandiere tricolori. Alle 7 di mattina la guardia nazionale occupava i posti ad essa destinati, ed una compagnia, sotto il comando di un ufficiale, si stabiliva dinanzi all’elegante sala elettorale. Subito si sparò in segno di gioia, ed accorse a votare un primo drappello seguito dai doganieri, poscia le società operaie con bandiere e musica; tutti portavano un OUI (sì) al loro cappello. Si presentarono in seguito i pompieri, i coltivatori dei sobborghi, i padri cappuccini, che furono accolti, con grida di simpatia. Tutti portavano un SI di varie dimensioni, ed alcuni SI erano veramente colossali. Dopo avere votato, i vari drappelli accorrevano gridando: Viva la Francia! Viva l’imperatore! sotto le finestre del senatore de Laity, che si affacciava al balcone, ringraziava il popolo colla voce e col gesto. Ad 11 ore, Monsignor Arcivescovo, alla testa del Capitolo, traversò le vie della città per recarsi a deporre il suo voto.
Anche ad Annemasse
gli elettori si riunirono alle 7 di mattina per recarsi a votare. Prima di entrare in chiesa per la benedizione della bandiera francese, il sindaco d’Annemasse diede l’addio al Piemonte ed a re Vittorio Emanuele con un discorso d’adozione alla Francia ed all’imperatore Napoleone.
Evidentemente, di voltabandiera, di conformisti e di “tengofamiglia” ce n’erano parecchi anche là.
Come scrisse lo storico irlandese Patrick Keyes O’ Clery nel prezioso volume The Making of Italy pubblicato a Londra nel 1892 e riedito di recente dalle edizioni Ares per cura di Alberto Leoni col titolo La rivoluzione italiana, si trattò comunque di una truffa, perché nei mesi che precedettero il voto, in tutta la Savoia
i funzionari contrari all’annessione vennero licenziati, e altri filofrancesi presero il loro posto. La propaganda antifrancese fu proibita, e i muri tapezzati da proclami che esaltavano i benefici derivanti dall’annessione alla Francia. Il 22 era il giorno fissato per la votazione. Non si permise la stampa di un solo biglietto col “No”, mentre ogni elettore era provvisto di un “Sì” fornito dalle autorità e invitato a votare con quello. Chiunque desiderasse votare “No” doveva scrivere il suo voto sul biglietto con la forte sensazione che non solo non avrebbe impedito l’annessione, ma che gli sarebbe accaduto qualcosa di spiacevole. Alla fine in questa provincia, dove tre settimane prima 13.000 elettori si erano dichiarati contro l’annessione, solo 235 votarono in tal senso il 22 aprile; 71 voti vennero annullati, mentre i voti per la Francia dichiarati ufficialmente furono 130.533. La commedia sarebbe stata meglio rappresentata se le autorità si fossero accontentate di un consenso che non fosse quasi unanime.
A cose fatte, il conte Solaro della Margarita pubblicò a Torino un’Opinione sulla separazione della Savoia, sottolineando che non era certo “lieta maniera d’iniziar un nuovo regno” in Italia accettando la “cessione delle più antiche provincie della Monarchia”.
Sia il trattato per il passaggio della Savoia alla Francia firmato il 24 marzo (anniversario della “fatal Novara”!) da Cavour, Farini, Talleyrand, Benedetti e dal segretario Carutti, sia i risultati referendari vennero ratificati dalla Camera dei Deputati il 29 maggio con 229 voti a favore in seduta pubblica (scesi a 223 in quella segreta) e con 32 voti contrari.
Si opposero i deputati: Anelli, Asproni, Bertoni, Bertea, Berti-Pichat, Biancheri, Bottero, Castellani-Fantoni, Luigi Castelli, Depretis, Dossena, Ferracciu, Ferrari, Franchini, Guerrazzi, Maccabruni, Macchi, Mazzei, Mellana, Marandet, Mordini, Mosca, Pareto, Polti, Regnoli, Vincenzo Ricci, Giovan Antonio Sanna, Giuseppe Sanna, Sineo, Toma , Valerio e Zanardelli.
Furono in prima fila i rappresentanti della Sardegna, forse temendo di dover fare prima o poi la fine della Corsica.
Il 10 giugno decise il Senato e, naturalmente, mostrò ossequiosa sottomissione ai “desiderata” del Re, al punto che sebbene ben 15 oratori avessero parlato contro la cessione… votarono “no” solo in 10.
Il decreto di separazione (n. 4108) ebbe piena attuazione con la pubblicazione sulla “Gazzetta Ufficiale” dell’11 giugno 1860.
Sulle Alpi occidentali, sacrificata sull’altare del “realismo” politico di Cavour, una Terra di uomini liberi divenne colonia di Parigi. E lo è ancora.
N O T E
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su “Storia Ribelle”, numero 16, autunno 2004.