Ultimamente sono in molti a considerare Barack Obama una riedizione di Neville Chamberlain. 1) L’analogia viene facile, ma è tutt’altro che inverosimile. L’accordo appena raggiunto a Vienna, nella migliore delle ipotesi raffredda solo temporaneamente le ambizioni nucleari dell’Iran. Un accordo che sarà ricordato come un capolavoro di diplomazia oppure come una terribile manifestazione di ingenuità. I pii desideri non sono una solida base per la politica estera. Quando si parla di Iran, la posta in gioco è troppo alta per puntare sulla buona fede. Israele e l’Arabia Saudita hanno buoni motivi per preoccuparsi. E quando mai queste due nazioni hanno avuto qualcosa in comune?
Il Congresso americano ora si prepara a sbirciare per una sessantina di giorni sotto il tappeto persiano di questo accordo, mentre il Presidente minaccia di usare i suoi poteri di veto sulle decisioni parlamentari.
Gli americani dovrebbero essere scettici. L’Iran non è soltanto una minaccia regionale. I suoi missili a lungo raggio possono cancellare i sorrisi di compiacimento in un istante. La distanza tra l’Iran e gli Stati Uniti, che sulla mappa appare enorme, nella realtà moderna corrisponde a un paio di fermate di tram. I giorni della guerra di trincea sono finiti perché non c’è abbastanza tempo per scavarne una. L’Iran potrebbe finire per convincere gli Stati Uniti che ha bisogno di un propria Cupola di Ferro. 2)
Il diavolo annidato nei dettagli di questo accordo potrebbe molto presto rivelarci l’Iran come il vero “Grande Satana”, che professa il suo bisogno di energia nucleare per scopi pacifici mentre continua a strillare “Morte all’America” nelle strade. Forse Chamberlain è proprio lo statista giusto da ricordare in questo momento. La frase “Peace for Our Time” ha attraversato l’Atlantico in cerca della sua cugina, l’obamiana “Hope and Change”: entrambi slogan sanguigni con il potenziale di esplodere come petardi tra le mani di coloro che firmano trattati infingardi.
Sì, questo risultato non dovrebbe sorprenderci. Un’intera presidenza fu prefigurata, fin dai primi giorni dell’amministrazione Obama, da un gesto simbolico ma rivelatore. Anche divertente, se le conseguenze non fossero state così gravi. Un gesto che aveva poco a che fare con una politica estera evoluta, e molto con l’arredamento di un ufficio.
Il presidente Obama si era appena trasferito nello Studio Ovale, allorché il busto di Winston Churchill, che aveva onorato il locale durante gli anni di George W. Bush, venne rimosso e restituito all’ambasciata britannica. Una piccola polemica scoppiò quando la Casa Bianca, replicando a un articolo di Charles Krauthammer sul “Washington Post”, affermò che il busto era stato soltanto trasferito nella residenza e non restituito agli inglesi. Una bugia: il busto originale, infatti, era stato spostato in un edificio occupato da diplomatici britannici e non da presidenti americani.
A quanto pare, fare le ore piccole nello Studio Ovale durante la presidenza Obama significava non dover mai dare un’occhiata a un busto di Churchill, leader mondiale che Obama aveva poco interesse a emulare. Il Presidente non era tipo da mettere i gomiti sulla scrivania e chiedersi: “Cosa farebbe Winston al posto mio?”
E le ragioni sono evidenti. Churchill era la quintessenza del primo ministro in tempo di guerra, un uomo che aveva promesso ai suoi cittadini, e a chi sedeva nella Camera dei Comuni, che l’esercito britannico sarebbe andato fino in fondo: “Combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e sugli oceani, combatteremo con crescente fiducia e forza nell’aria, difenderemo la nostra isola, qualunque sia il prezzo da pagare. Noi combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle piste di decollo, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline: non ci arrenderemo mai”.
E che diavolo! Questa è politica estera muscolare agli steroidi, con l’aggiunta di una pinta di whisky della Cornovaglia! Churchill non si limitava a un linguaggio semplice e altisonante, ma manteneva anche le sue promesse.
Già nel 2008, tuttavia, quando correva per la presidenza, il senatore Obama annunciò che subito dopo il suo insediamento avrebbe incontrato i dirigenti iraniani, e altri nemici degli Stati Uniti, senza precondizioni. Fare la guerra non era una componente della sua piattaforma politica.
E infatti, come oggi ben sappiamo, il presidente Obama avrebbe poi tenuto un discorso al Cairo che suonava forte come un mea culpa americano per anni di promiscuo coinvolgimento in Medio Oriente. Avrebbe inviato ricorrenti auguri di buon capodanno, mai corrisposti, agli ayatollah iraniani. E avrebbe tracciato linee rosse sulla sabbia della Siria che sarebbero state più volte oltrepassate dal presidente Assad.
Il presidente americano ha agito in Libia restando nelle linee arretrate, e così presumibilmente ha visto Israele di schiena con le dita incrociate. La Russia ha di nuovo marciato in Ucraina e in Crimea, quasi a rivivere i giorni di gloria dell’Unione Sovietica. E, naturalmente, l’America ha ritirato gran parte delle proprie forze armate dall’Afghanistan e dall’Iraq, senza che alcun rivoltoso di quei Paesi si sia sognato di arrendersi. Due guerre che l’America aveva vinto han finito per assomigliare alla caduta di Saigon.
L’essenza stessa della politica estera di Obama si è rivelata l’antitesi di tutto quanto è incarnato da Churchill. Nessuna meraviglia che il Presidente non sopportasse fisicamente il busto del britannico. Obama è stato strenuamente, se non patologicamente, anticolonialista, amante dell’appeasement, condannando l’eccezionalismo americano e inseguendo la conciliazione a pressoché qualsiasi prezzo – come stiamo vedendo – anche a rischio di mettere a repentaglio la sicurezza degli alleati dell’America.
Churchill e Obama in realtà non appartengono nella stessa stanza… anche se uno di loro era fatto di argilla e l’altro di argilla ha quantomeno i piedi.
L’accordo con l’Iran è stato negoziato con tutte le astuzie praticate in sala professori. In questi luoghi rarefatti è sempre viva la fede che il dialogo potrà condurre al miglioramento dell’uomo, e che l’avversario, in fondo, è una persona razionale. La piazza araba e persiana, dove la mentalità da suk è sempre predominante, sa che in questi incontri la Ivy League gioca fuori casa.
Non tutti gli avversari negoziano in buona fede. Per alcuni, i trattati sono inviti a dilazionare e falsificare. I compromessi sono visti come segni di sconfitta. Gli accordi sono sempre trappole mortali.
Nel passare da Chamberlain a Churchill, i britannici hanno imparato la lezione pagando un prezzo altissimo. Bandire il busto di Churchill dallo Studio Ovale non è stato un semplice episodio arredatorio: forse inavvertitamente, ha rivelato come il presidente Obama intendeva scolpire il proprio retaggio.
Purtroppo la lista degli accordi violati è lunga, e l’ombra proiettata dall’ombrello di Chamberlain è ancora più lunga. Sarà bene che questo funzioni, altrimenti la politica estera di Obama
farà la fine del busto di Winston.
N O T E
Versione italiana a cura di “Etnie” di Why It’s Okay to Talk about Chamberlain Right Now, “The Tower”.
1) Neville Chamberlain è stato primo ministro della Gran Bretagna dal 1937 al 1940, ed è tristemente noto per la politica dell’appeasement, pacificazione, nei confronti della Germania hitleriana. Nel 1938 firmò l’Accordo di Monaco concedendo ai nazisti la regione dei Sudeti, appartenente alla Cecoslovacchia. In quell’occasione egli descrisse l’accordo con l’espressione “Peace for Our Time” [NdR].
2) Iron Dome, o Cupola di Ferro, è un sistema di difesa antimissilistica sviluppato nel 2011 dagli israeliani [NdR].