Per colpire un popolo niente di meglio che cancellarne la storia e distruggerne l’ambiente. Non è da oggi naturalmente. Già da qualche decennio le organizzazioni curde denunciano l’opera di devastazione ambientale, l’ecocidio sistematico operato dalle truppe turche in Kurdistan nell’ultimo secolo.
Del resto, come aveva scritto qualcuno, “se vuoi eliminare un popolo, comincia con la sua storia e con la natura, distruggi l’ambiente e prendi tutto quello che ti serve”. Un metodo che Ankara, da Paese occupante, sembra aver ben appreso e applicato. Aggiornandolo, soprattutto da quando è al potere l’akp.
Qualche esempio. Con la diga di Ilisu sono stati irreparabilmente sommersi dalle acque i monumenti storici di Hasankeyf, patrimonio storico dell’umanità (la città di Ayyubid viene considerata uno dei primi esempi di civilizzazione della Mesopotamia, oltre che importante centro degli imperi iraniano e romano e capitale religiosa). Una cancellazione totale così come è accaduto per altri luoghi-simbolo.

Ancora più generalizzata, radicale, la distruzione ambientale ottenuta con l’incendio pianificato di foreste secolari. Come nella zona di Mesila Kor (distretto di Amid) dove, qualche anno fa, vennero abbattuti in pochi giorni oltre diecimila alberi. Stesso sradicamento, non solo in senso metaforico, a Mush, Basur e Dersim. Uno strumento utilizzato dall’esercito turco sia per mettere in difficoltà la resistenza curda (le foreste forniscono un rifugio, già dai tempi di Robin Hood), sia come ritorsione e rappresaglia quando subisce una sconfitta, incendiando i boschi e impedendone lo spegnimento, non solo in Bakur e Bashur, ma anche nel nord della Siria.
Come in Afrin, sotto occupazione dal 2018 (operazione ironicamente denominata “Ramoscello d’ulivo”), dove sono stati tagliati e bruciati migliaia di ulivi. Rispondendo a una domanda dei rappresentanti di hdp, il ministro dell’Agricoltura turco, Bekir Pakdemirli, aveva ammesso che gli ulivi di Afrin venivano tagliati così come viene depredata la produzione di olive da esportare in Europa.
E – segnalavano fonti curde – “come passa sotto silenzio la distruzione dell’ambiente e delle risorse di Afrin, così avviene per la distruzione delle foreste nel Kurdistan del Sud” (Başûr Kurdistan, entro i confini iracheni). Con l’approvazione di fatto del clan Barzani, dato che ciò avviene in territori posti sotto il controllo del pdk. Tra gli ecocidi più devastanti, va ricordato il taglio di oltre 400 tonnellate di alberi sulle montagne Judi nel 2021. Operazioni talvolta propedeutiche alla costruzione di nuove basi militari turche in territorio iracheno.
Sempre nell’aprile 2021, altri devastanti incendi erano scoppiati in seguito ai bombardamanti effettuati con aerei (F-16), elicotteri da combattimento e droni (Bayraktar TB2) sulle colline di Zindoora, nel distretto di Metina dove è insediata una base militare turca; nel corso delle operazione delle forze speciali di Ankara denominate Pençe Şimşek (Artiglio lampo) e Pençe Yıldırım (Artiglio fulmine).
Stessa sorte subivano i territori e le popolazioni civili di Gilwi-Bjok (distretto di Zab) e i distretti di Marwanos e Shuk (Avashin). Una autentica “soluzione finale”, con lo scopo dichiarato di spopolare l’area, per migliaia di ettari di terreni coltivati (orti, vigneti…) ridotti in cenere. A cui aggiungere la morte di un gran numero di animali.
A completare l’opera, migliaia di mercenari provenienti sia dalla Siria sia dalla Libia vennero trasportati nella base di Barmeni. Altri alberi furono tagliati a migliaia a Zakho (dove con il permesso del Partito Democratico del Kurdistan si sono installate altre basi militari) e a Barwari. Per essere poi venduti come legname in Turchia, mentre – effetto neanche tanto collaterale – gli abitanti si trasformavano in sfollati (profughi interni).
È poi di questi giorni la notizia che una nuova ennesima base militare turca è in costruzione in quel di Amadiya (Amêdî), sempre nel sud del Kurdistan (nord dell’Irak). Situata nei pressi del villaggio di Guherzê (Guharz), viene a collocarsi sul fronte occidentale della regione di Zap, una roccaforte del pkk. Munita di rifugi e trincee, è destinata a ricoprire un ruolo fondamentale, strategico, nelle operazioni dell’esercito turco.
Contemporaneamente nell’area procedono i lavori per la realizzazione di una “strada militare di sicurezza” con la conseguenza di un’ampio squarcio disboscato nella foresta. Attività a cui – condizionale d’obbligo – parteciperebbero anche unità di peshmerga del pdk muniti di asce e motoseghe per aprire la strada alle ruspe e ai mezzi pesanti..
Altri danni devastanti a boschi secolari, provocati dai bombardamenti, sono stati ben documentati da giornalisti indipendenti nella zona di Sergelê e di Medya, dove sono presenti i partigiani curdi.
Ancora più criminale l’uso – documentato – di armi chimiche sempre nella zona di Medya. Armamenti in teoria proibiti dagli accordi internazionali a cui – sempre in teoria – aderisce anche la Turchia.
Spetta ai partigiani curdi il compito di preservare per quanto possibile l’ambiente, la natura, la biodiversità del Kurdistan, fondamentali per la sopravvivenza del loro stesso popolo.
Come aveva detto forte e chiaro ancora nel 2014 (quando da Imrali usciva ancora qualche sua dichiarazione) Abdullah Ocalan: “Quando la natura del Kurdistan viene distrutta, dobbiamo intervenire per impedirlo. È un principio fondamentale, un dovere e un privilegio della politica democratica. Dobbiamo elaborare un modello alternativo a questa politica di sfruttamento”.