Il termine “egocentrismo cognitivo” è stato coniato anni fa da Richard Landes per descrivere quel fenomeno per cui il proprio modello di pensiero e i proprio ideali vengono utilizzati per leggere la realtà del prossimo. Ricordo di aver letto per la prima volta la trattazione di Landes intorno al 2008 o giù di lì. Più di 15 anni dopo, la nozione di egocentrismo cognitivo rimane assai rilevante, soprattutto in relazione alla marea di discussioni sulla causa palestinese a partire dal 7 ottobre 2023 (anche se per molti versi esse sono in continuità con quanto è avvenuto prima).
Lasciando da parte i concetti di giusto e sbagliato, mi sembra che qualsiasi causa politica debba essere compresa e affrontata in base alle realtà del territorio, e non in base ai pii desideri di estranei. Di fatto, la causa palestinese e i suoi significati sono definiti principalmente dagli stessi palestinesi che vivono nei territori palestinesi e dalle fazioni palestinesi che li rappresentano. Invece, su scala regionale più ampia, tale causa è principalmente definita e rappresentata dai palestinesi stanziati nei Paesi vicini e dalle fazioni che li rappresentano.
Quando si tiene presente questo punto, diventa evidente che buona parte delle manifestazioni filo-palestinesi e del sostegno nei Paesi occidentali sono ben lontani da quelle realtà, e si alimentano proiettando sulla causa palestinese le proprie fantasie intellettuali e ideali.
L’esempio forse più eclatante di questo egocentrismo cognitivo è il concetto di “queer per la Palestina”: cioè persone che fanno sfoggio della loro identità sessuale transgender e la dipingono come in qualche modo rilevante per la causa palestinese, affermando che la liberazione palestinese è una “liberazione queer”. C’è persino una discussione accademica sull’idea di “queerizzare la Palestina”. Questo tipo di discorso è lontano le mille miglia dalla realtà dei non eterosessuali nei territori palestinesi, dove ho trascorso qualche tempo.
In poche parole, la vita per le persone “queer” nei territori palestinesi è una corsa a ostacoli, perché l’identità e il comportamento omosessuale non sono accettati dalla società, né tra i musulmani, né tra i cristiani, né tra i samaritani (se si considerano palestinesi i samaritani di Cisgiordania).
Oggettivamente parlando, è ben più facile essere omosessuali in Israele o in qualsiasi Paese occidentale che nei territori palestinesi, essendo chiaro che in Israele esiste una cultura queer aperta che non si troverà nei territori palestinesi. Questa è la realtà, indipendentemente dalla propria posizione sul cosiddetto pinkwashing di Israele. Il fatto che il sacerdote samaritano Husni al-Samari, residente in Cisgiordania, mi abbia parlato del pericolo sociale rappresentato per Israele dagli omosessuali a Tel Aviv, ma non abbia fatto la minima comparazione con i territori palestinesi, è di per sé indicativo del contrasto tra Israele e questi ultimi.
Osservazioni simili sulle difficoltà dei queer nei territori palestinesi sono state fatte dallo scrittore Jonathan Krohn il quale, a differenza di molti commentatori esterni, ha analizzato la questione lavorando direttamente sul campo.
Niente di quanto detto sopra è un commento ai dibattiti sui diritti lgbt o una lancia spezzata a favore di una parte o dell’altra. Si tratta soltanto di un’osservazione su come gli slogan di protesta occidentali e la liberazione palestinese equiparata alla “liberazione queer” riflettano una proiezione idealistico-emotiva e un’identificazione cognitiva scorretta con la causa palestinese.
La bufala antirazzista
Lo stesso vale per l’argomento che proietta ideali di “antirazzismo” sulla causa palestinese, ignorando o trascurando deliberatamente i sentimenti antisemiti all’interno della società palestinese e nella regione circostante. Non dico di sapere quale percentuale della società palestinese sia antisemita, né affermerò che “tutti” o “la maggior parte” dei palestinesi sono antisemiti. Ciò che mi è chiaro, in base alle mie personali osservazioni, è che, sebbene l’antisemitismo non sia universale tra i palestinesi, è occasionale e accettato all’interno dei territori palestinesi come è occasionale e accettato l’affetto per Saddam Hussein.
La natura occasionale di questi sentimenti è stata probabilmente più evidente per me che per gli stranieri occidentali, ben sapendo che arabi e palestinesi erano più a loro agio con me che sono iracheno. In ogni caso, suggerirei a chi volesse osservare personalmente la diffusione di questi sentimenti, di recarsi nei territori palestinesi ed esprimere opinioni antisemite e amore per Saddam, e vedere quante reazioni negative ottiene.
Ecco alcuni esempi di sentimenti antisemiti occasionali a cui ho assistito.
Durante un viaggio in taxi da Ramallah a Tayba, l’autista definì gli ebrei come persone “sporche” che dovrebbero “tornarsene” nei loro Paesi di origine; intendendo ovviamente che gli ebrei ashkenaziti israeliani, per esempio, dovrebbero tornare nelle regioni europee in cui risiedevano i loro antenati alcune generazioni fa, un sentimento a volte espresso anche durante le proteste filo-palestinesi.
In un’altra occasione, mentre attraversavo il checkpoint di Qalandiya per tornare a Gerusalemme Est, chiesi un passaggio in autostop (il valico ha un percorso pedonale, ma quando è chiuso la soluzione migliore è salire su un’auto che va dall’altra parte). Il guidatore, tra le altre cose, rimproverò i governanti di alcuni Paesi arabi vicini per non aver fatto abbastanza per i palestinesi, definendoli offensivamente ebrei.
Durante una visita a un negozio di antiquariato di un palestinese a Gerusalemme Est (che vantava tra i suoi clienti passati anche Moshe Dayan, appassionato collezionista), mi sedetti a chiacchierare con il proprietario. L’uomo espresse ben presto il suo antisemitismo, affermando che il comportamento degli ebrei riflette una continuità con le loro presunte ribellioni contro i profeti del passato. Chi sono, infatti, coloro i quali “sono incorsi nell’ira di Dio” (al-maghdub alayhim) come menzionato nel Corano 1:7? Gli ebrei, ovviamente, secondo un concetto abbastanza noto nell’interpretazione tafsir del Corano stesso.
Io suggerii che, in sintesi, i tratti negativi degli ebrei erano stati descritti dal Corano… osservazione con cui egli fu pienamente d’accordo, lodandone la perspicacia.
Ovviamente si potrà ribattere che questi sentimenti antisemiti tra i palestinesi e nella regione circostante non sono avulsi dal conflitto israelo-palestinese e dalle lamentele riguardo alle azioni di Israele, proprio come l’affetto per Saddam ha radici nella percezione che il personaggio trattasse bene i palestinesi e sostenesse la loro causa. C’è del vero, e l’esistenza di pregiudizi religiosi o razziali non invalida necessariamente la legittimità delle lamentele relative ai trasferimenti forzati e alla privazione dei diritti durante l’occupazione. Dopodiché minimizzare questi pregiudizi o fingere che non esistano è indice di ignoranza o disonestà intellettuale. La causa palestinese sul campo non rappresenta affatto gli ideali dell’antirazzismo e della lotta contro i pregiudizi.
La questione dei pregiudizi porta a sua volta a una ulteriore proiezione di fantasie intellettuali sulla causa palestinese: vale a dire, che essa coincida con una battaglia a favore delle frontiere aperte e contro gli stati-nazione. Ora, sia che si concepisca una “soluzione a due Stati” o una “soluzione a uno Stato” al conflitto, la realtà è che la causa palestinese si basa sul principio di un gruppo con una identità nazionale che ha diritto a un proprio Stato sovrano fondato su tale identità. In altre parole, siamo sostanzialmente di fronte a una causa nazionalista, basata sulla creazione di uno Stato palestinese: uno Stato che è palestinese proprio in virtù del fatto di avere una maggioranza demografica palestinese.
Alcuni sostenitori della “soluzione a uno Stato” suggeriscono che il fine ultimo sia un unico Stato comprendente ciò che oggi è Israele e i territori palestinesi, il quale garantisca a tutte le persone che vivono in quelle terre “pari diritti” e sia privo di una chiara identità nazionale. In pratica, risulta ovvio che se si dovesse realizzare una vera “soluzione a uno Stato” (soprattutto con il “diritto al ritorno” per i palestinesi), si tratterebbe di una entità palestinese in cui gli arabi costituirebbero la maggioranza demografica, decisi comprensibilmente a improntare l’identità etnica dello Stato sulla suddetta maggioranza. A questo proposito, i canti di protesta del tipo “dal fiume al mare, dall’acqua all’acqua, la Palestina è araba” hanno quantomeno il pregio di essere intellettualmente onesti sul vero obiettivo finale.
Qualunque sia lo scenario in cui si realizzasse uno Stato palestinese, sarebbe chiaramente una entità sovrana con propri confini e il diritto di decidere chi può e chi non può entrare nel suo territorio. Qualcuno suppone, nel caso di una soluzione a uno oppure due Stati, che il governo palestinese consentirebbe la libera immigrazione ebraica o di altri non palestinesi nel suo territorio? Ovviamente no. In effetti, storicamente, va ricordato come la causa palestinese, prima della fondazione di Israele, fosse in parte basata sull’opposizione a una immigrazione ebraica su larga scala in Palestina, vista come un’alterazione della demografia della regione. Questo sentimento è ancora attuale oggi.
Gli “open borders” possono inveire contro gli stati-nazione quanto vogliono, ma la realtà è che gli Stati e il diritto al controllo dei propri confini sono princìpi fondamentali del sistema internazionale odierno, e il timore di un’immigrazione su larga scala con potenziale cambiamento demografico è un sentimento normale. Pertanto, per estensione, è del tutto comprensibile che il consenso politico degli israeliani si basi sull’idea di Israele come uno Stato ebraico, proprio in virtù della sua maggioranza demografica ebraica, con restrizioni all’immigrazione non ebraica che potrebbero alterare tale maggioranza. E non è per nulla espressione di un irrazionale “etno-fascismo” specifico di Israele.
Niente di quanto sopra dovrebbe essere letto come un sostegno a favore di una parte o dell’altra nel conflitto israelo-palestinese. Abbiamo semplicemente analizzato come l’attivismo e il sostegno alla causa palestinese in Occidente riflettano l’egocentrismo cognitivo descritto da Landes tanto tempo fa, giacché alcuni proiettano le loro percezioni idealizzate e le loro lotte preferite sulla causa palestinese in un modo avulso dalla realtà sul campo. In altre parole, abbiamo un’identificazione emotiva e romanzata con la causa, dove però il ragionamento è assente.
Aymenn Jawad al-Tamimi, traduzione di Etnie.