Lo spirito fondamentalmente “nordico” di questa forma di artigianato letterario, ormai scomparsa, ha scelto di esprimersi in italiano. Sberleffo alla cultura istituzionale o tributo all’espressività del toscano?
Qualcuno sa ancora cosa sia la goliardia? Sempre meno persone, purtroppo. Questo civilissimo fenomeno culturale sta morendo, o probabilmente è già stato ucciso nei primi anni ’70 dalla contestazione studentesca, che lo bollava come fenomeno reazionario. Reazionario come qualsiasi altra cosa non appartenesse all’ideologia dei movimenti. Forse non furono tanto gli attacchi (quale accolita dalle tendenze giocosamente esoteriche non avrebbe tratto linfa e incoraggiamento dalla clandestinità?) quanto il disfacimento dell’humus stesso su cui rifioriva nei secoli la grande tradizione. Humus grasso di amore per la cultura, isterilito tre decenni fa da migliaia di aspiranti al 30 politico, e oggi da altrettanti giovanotti a caccia di un pezzo di carta su cui costruire una carriera.
Amore per la cultura, sì. Ciò che a molti appare iconoclastia allo stato puro, turpiloquio, dileggio della letteratura, sbeffeggio della donna, è invero una forma di venerazione per ognuno di questi bersagli; come sapevano le severe autorità religiose del medioevo, che ben si guardavano dal punire i giovani chierici quando, ubriachi, storpiavano le parole della messa o inneggiavano tra bestemmie alle lusinghe femminili. La goliardia non era né controcultura ne contro la cultura: era la cultura che giocava con se stessa. Non si vede nella sua lunga storia il ruolo rivoluzionario che qualcuno vuole annetterle (primo tra tutti lo spirito carbonaro), se non la messa alla berlina degli aspetti più retrivi del potere, da parte di individui che di quel potere sarebbero spesso entrati a far parte. Ciò non rende la goliardia neppure reazionaria, a meno di non definire tale chiunque faccia parte di una società civile e ne accetti sostanzialmente le regole e i princìpi.
Valutarla in termini politici, o storico-politici, non ha dunque alcun senso. Si tratta, né più né meno, di un fenomeno culturale come altri ve ne furono e (speriamo) saranno. Culturale e in qualche caso artistico. E come credono in molti, l’arte è e basta. Vive per se stessa e di se stessa. Ciò non significa che siamo di fronte a una secolare lista di individualità senza regole. Come accade anche in pittura o nella letteratura seria, la goliardia è sempre stata una scuola di pensiero e, in quanto gioco, dotata di regole e cerimoniali. Chi ha creato le sue opere, dalla canzonetta da osteria alla “tragedia” in tre atti, ha rispettato canoni strutturali e linguistici che si sono, sì, evoluti nel tempo, ma sempre con la lentezza che impiega la tradizione a crescere senza trasformarsi in rottura. Ciò è stato fatto non per costrizione, bensì per amore, rispetto e affettuosa appartenenza. Consideriamo anche che il ciclo evolutivo, per un goliarda, è compreso nell’arco degli anni universitari con le fasi matricola/apprendimento, maturità/elaborazione, anzianità/insegnamento: un tempo troppo breve per evolvere nuove tecniche, che richiederebbero una sorta di “professionalità” individuale estesa al resto della vita. La storia della goliardia è un continuo susseguirsi di “mordi e fuggi” da parte di giovani cólti nel breve periodo della formazione (prevalentemente) universitaria, con tempi e modalità inadatti alla sperimentazione; una falsariga su cui cimentare le proprie doti, mantenendo uno spiccato senso di appartenenza in cui profondere la propria soggettività. Non è un caso che il carattere più evidente della letteratura goliardica, rispetto alle sorelle maggiori, sia l’assenza pressoché totale di nomi e firme.
Un’altra causa di morte, forse più determinante dell’ostracismo politico o del pauroso detrimento culturale nel mondo studentesco, è di tipo antropologico. Per quanto si debba riconoscere che la cultura da cui trae ispirazione la creatività goliardica è standardizzata – essendo in sostanza quella umanistica ufficiale, ministeriale – lo spirito che la rimodella resta molto legato all’ambiente circostante. La confraternita dà di sé, ovunque agisca, un’immagine apparentemente distaccata dalla realtà locale, dal popolo; un’aristocrazia sapiente e socialmente non comunicante. In una parola: esoterica. Ma tradisce anche una forte influenza delle radici etniche dei suoi accoliti, dell’atmosfera che si respira nei suoi luoghi di culto. Smontata di ogni sovrastruttura, cos’è la goliardia se non una delle espressioni di quell’ineffabile tratto umano che chiamiamo umorismo?
Ora, dell’umorismo sappiamo che è l’esternazione ironica o comica della forma mentis di un gruppo umano. Esiste certo un “incoscio collettivo” dello humor a livello di specie, così come esistono altrettali canoni di bellezza, morale, e così via. Ma al di fuori delle simbologie comuni, l’umorismo si accompagna, poiché ne è espressione, alle peculiarità psicologiche, linguistiche, filosofiche di ogni popolo. E non sempre è esportabile, almeno non in tutte le sue singole componenti. La letteratura goliardica è in effetti una singola componente; intendendo con ciò che un’opera partorita all’università di Bologna non sarà necessariamente recepita da qualsiasi cittadino del luogo. Ma essendo animata da uno spirito prettamente emiliano, non verrà neppure apprezzata per forza all’università di Napoli. Come dire che l’essere universitari ha un che di cosmopoliticamente trasversale, ma non cancella per nulla la provenienza da (e l’inevitabile ritorno a) un gruppo umano.
Per riprendere la questione delle cause di morte, le versioni accademiche delle culture locali, da sempre crogiuolo delle varie sfumature goliardiche, sono virtualmente scomparse… come molte culture locali, del resto. Un’università non è più la scuola della gente del posto, è un centro in cui confluiscono studenti di tutte le parti d’Italia e del mondo. In tal modo non esprime più la variante letterata dell’umorismo autoctono. Non ne ha più né il carburante né la motivazione inconscia. Non ne ha più nemmeno gli strumenti linguistici.
Si dirà: se esiste qualcosa che non dà spazio alle lingue locali, quella è la goliardia. Ma certo. Abbiamo ben visto come essa abbia canali espressivi standardizzati, più ministeriali di un ministero. Non tanto per la lingua (come vedremo, non sempre e soltanto quella ufficiale), quanto per il modello culturale che è di tipo classico, cioè greco-latino, e “italiano” nell’accezione postunitaria. Attorno a tale modello, gira l’operazione parodistica e caricaturale, il dileggio, la storpiatura. Essa orbita attorno al sole della “cultura ufficiale”, come fa da secoli. A nord dell’Appennino, nelle zone di origine celtica, l’ipotetica goliardia superstite non potrebbe fare uso di lingue locali poiché morirebbe sul nascere tutto l’armamentario di imitazione letteraria, lo sbeffeggiamento del mostro sacro o del vate di turno. Uno studente etnisticamente preparato non prenderebbe mai in giro la propria tradizione poetica alloglotta, non per troppo amore – egli ama e quindi smonta la cultura in ogni sua forma – ma poiché gli scorre nel sangue la lunga tradizione di far pernacchie al potente, non al debole. Ci vorrebbero decenni di indipendenza, nonché trapianti embrionali di goliardi, per far scrivere a un universitario piemontese la storia della defecazione attraverso le tribù galliche (e non, come d’abitudine, rivisitando la storia di Roma), per fargli trasformare i Sermon subalpengh in un inno al vino o per indurlo a intonare una canzonaccia sulle rime di Pinin Pacot. Decenni in cui i nuovi programmi gli abbiano rotto le scatole quotidianamente con l’epopea dei celti e l’immortalità della letteratura piemontese.
L’esempio ambientato a nord della linea La Spezia-Senigallia e un ritorno a bomba all’ipotesi dell’etnicità dell’umorismo, ci introducono a un’ulteriore considerazione. La goliardia come “singola componente” può anche non esistere. Semplicemente alcuni popoli non esprimono quel particolare tipo di humor che in essa si incarna.
Se si rilegge la sua storia, o semplicemente si sfogliano le antologie, si vedrà che il fenomeno è nato attorno al 1000 in Francia, ha dato gloriosi esponenti in Germania e ha conosciuto la sua moderna fioritura, dall’800 a oggi, in Toscana, in Padania e nel Veneto. Ovvero, etnicamente parlando, in tre nazioni ubicate nel nord del territorio amministrativo italiano. L’Italia mediterranea, quella greco-latina, non ha in pratica espresso nulla del genere. Da università elefantiache come quelle romane e napoletane non è uscito un millesimo del materiale prodotto da micro-atenei come Parma o Pisa. So che qualcuno avrà da obiettare, citando tonnellate di opere. Ma tutto sta nel mettersi d’accordo sul significato di letteratura goliardica. Le antologie in circolazione, quasi tutte orribili, non sono altro che il tentativo di pubblicare canti da osteria e paccottiglia da caserma, scritte da analfabeti, accanto a opere che spesso sono il divertissement di futuri grandi letterati. Il disco dei Carmina burana sulla bancarella accanto a Leone di Lernia, per capirci. In tal senso non c’è angolo geografico che non abbia sfornato qualche genere di volgarità (anche apprezzabili).
Essendo un movimento che esprime una sorta di filosofia “togata”, ossia con regole cerimoniali, la goliardia si è sempre data una forma di autogoverno, un po’ come la magistratura, con un’opera di autolegittimazione. Che diventa a tutti gli effetti legittimazione agli occhi del pubblico proprio per la spontaneità democratica a riconoscersi nei vari “ordines”, alcuni dei quali storicamente illustri. È pertanto dagli elenchi stilati dagli ordini che ricaviamo le opere ufficialmente goliardiche, e stiamo pur sicuri che anche la peggior fesseria tradirà la mano di una persona colta. Ora, non solo i componimenti sono tutti di chiara ambientazione centrosettentrionale, ma gli ordini stessi appartengono per la quasi totalità alle stesse zone.
Dunque la goliardia, da noi, è una manifestazione culturale tipicamente tosco-padana. Padana e veneta, perché in linea con il sense of humor genetico di quelle popolazioni. Toscana per lo stesso motivo, con un valore aggiunto: perché in perfetta sintonia, al punto da rischiare l’indistinguibilità, con la tradizione letteraria popolare. Una poetica plebea, la loro, capace di rivaleggiare – caso forse unico al mondo – con la tecnica professionale.
In sostanza, e riassumendo un po’ quanto detto finora, la goliardia non è presente dappertutto; e dove è presente, si esprime con lo spirito della comunità in cui prospera. E ancora: tra queste comunità ne esiste una, la toscana, che ha un potere trainante superiore. Se osserviamo i suoi influssi goliardici su etnie parecchio diverse, come le celtiche, rivediamo in fotocopia il processo che ha portato il fiorentino a colonizzare le corti medievali e rinascimentali del nord. Attorno a queste, le popolazioni parlavano galloromanzo, mentre all’interno poeti tipo l’Ariosto potevano essere benissimo nati a Fiesole, da come si esprimevano linguisticamente e stilisticamente. Persino a un tiro di schioppo dalla nostra èra, contrassegnata dall’imposizione violenta di una specie di toscano, troviamo un lombardofono che decide di sciacquare i panni nell’Arno.
Ebbene, la goliardia nell’Arno ci fa anche le abluzioni mattutine. Un’opera fondamentale, il Processo di Sculacciabuchi, scritta a Bologna da un certo Rosati (il quale come al solito non la firmò), poi diventato ministro del Regno, non solo pare uscita da una penna fiorentina, non solo è ambientata in questa città, ma presenta pure una serie di modi di dire e di riferimenti strettamente locali. Considerando la goliardia un fenomeno ben vivo anche in tempi recenti, cioè dopo l’introduzione ufficiale dell’italiano, colpisce la sopravvivenza della scelta. Che bisogno avevano infatti gli scholari parmensi o pavesi di toscaneggiare? Non c’era una lingua franca bell’e pronta da usare in vece del barbarico materno?
Saperlo… Però a livello di ipotesi è possibile che nella ritualità conservativa – il gioco bello per la perpetuazione delle sue regole – si sia installato una sorta di riconoscimento verso il popolo che aveva creato una forma poetica ed espressiva tanto affine. Un prestito cristallizzato in tradizione. Alla quale anche gli attuali coltissimi sopravvissuti fanno spesso riferimento. Certo, un gruppo iniziatico non può fare a meno di un suo gergo ufficiale, e tale necessità deve avere inconsciamente dato il benvenuto a una lingua preferenziale. Tuttavia, al di là del lustro storico del toscano, deve anche aver contato la sua “specializzazione”. In che senso? Ebbene, in tutto il mondo si sostiene che ciascuna lingua, almeno tra le più importanti, è più adatta a esprimere qualcosa. Per esempio: il tedesco un complicato concetto filosofico con un unico vocabolo, il francese un’elegante espressione poetica, lo spagnolo il fervore politico, l’inglese un movimento macchinosissimo con un trisillabo. E l’italiano? Qualcuno ha mai sentito lodare l’italiano per l’eleganza o l’efficienza? Non spesso, diremmo, ché nel primo caso tutti incensano il francese; nel secondo, chiunque abbia provato a tradurre un libro d’azione americano senza raddoppiarne le pagine sa di cosa parlo.
Non sarebbe neanche colpa sua, poveretto. Dell’italiano. Di questo dialetto di un toscano cui sono state tagliate le ali e, pardon, i coglioni. Preso in mezzo da forze antagoniste ma ugualmente distruttive. Una Crusca che registra una novità al secolo e ci costringe a descrivere mezza realtà contemporanea con termini d’oltreoceano. Un’editoria che per ogni lemma straniero incamerato ne cancella due italiani perché “obsoleti”, costringendoci a fare gli acrobati con un centinaio di vocaboli. Una burocrazia che rende odiosa ogni parola che stampa. Che diavolo ci esprimiamo, con questo mozzicone? Chiaro come la goliardia, che trova più rivoluzionari gli endecasillabi delle scritte murali, abbia bisogno di ben altro strumento.
Non so se il toscano, la lingua originaria e tuttora esistente, sia nel complesso più bella o più pratica o più espressiva delle grandi consorelle europee. Di sicuro ha una caratteristica incantevole: riesce a essere buffa ed elegante nello stesso tempo. Magari c’è dietro un qualche inconscio culturale, annidato nell’orecchio medio, che ne filtra i suoni (ma per ogni musica esiste una percezione estetica oltreché matematica), eppure in ogni sua manifestazione discorsiva, onomastica o toponomastica tende a fondere due sensazioni apparentemente opposte in qualcosa che non è mai troppo dell’una né troppo dell’altra. Il buffo non è mai ridicolo, il drammatico non è mai privo di ironia. È come se la lingua desse suono a un’antropologia in cui confluiscono Calandrino e il Signore del castello. Antinomia, che oggi non sembra più tale. Forse un tempo, nel medioevo‑rinascimento, in cui questi elementi erano opposti, ma che a noi ora paiono omogenei per sottrazione: per l’assenza di quelle figure, né calandrini né signori, che dànno l’impronta alla nostra civiltà metropolitana o peggio suburbana, cioè quell’uomo medio senza tradizione, radici, lingua e cultura proprie, senso del bello, allegria, voglia di giocare, stendardi, colori. Lo squallore.
Vivendo circondati da un continuo monito estetico, i toscani sembrano invece navigare la modernità come un normale braccio di mare, senza lasciarsi sommergere dalle onde. Dove, se non in certe zone rurali di Francia e Gran Bretagna, troveresti un’altra popolazione che fa un gioco colto – cioè goliardico – come quello di rivivere il passato? di travestirsi? di litigare per un sestiere e non per una squadra di calcio? La parlata dei toscani è anche la parlata di tutto ciò; di chi vuole giocare ai cavalieri, ai castelli… quelli fintamente veri che spuntano da ogni colle, non quelli fintamente falsi dei videogiochi.